1) Giustificazioni morali, sociali ed economiche che nobilitano la violenza con scopi onorevoli e fini meritori (è il classico principio del fine che giustifica i mezzi).
2) Linguaggio eufemistico per mascherare la violenza, non nominandola, depotenziandone la carica di colpevolezza (per esempio, definire le vittime civili “effetti collaterali”).
3) Confronto vantaggioso volto all’autoassoluzione attraverso la comparazione della propria violenza con quella sempre più efferata e intenzionale attribuita al nemico.
4) Spostamento della responsabilità su qualcun altro a cui si è obbedito, minimizzando il proprio ruolo (è la linea difensiva dei gerarchi nazisti a Norimberga e di Eichmann a Gerusalemme).
5) Diffusione e diluizione della responsabilità su più soggetti agenti (“lo hanno fatto tutti”): è lo strumento di discolpa nella violenza di branco.
6) Minimizzare e trascurare gli effetti dannosi delle proprie azioni: se i danni procurati non sono degni di nota svanisce anche il senso di colpa per le conseguenze.
7) Deumanizzazione del nemico, grazie alla quale si annullano gli scrupoli a compiere violenza negando l’umanità di chi la subisce.
8) Attribuzione della colpa: nell’escalation del conflitto si seleziona un atto ostile dell’altro e lo si considera come provocazione iniziale, scaricando su di esso la responsabilità delle conseguenze.
Educare alla nonviolenza contro patriarcato e bellicismo: due facce della stessa medaglia
E’ grazie alla messa in campo di questi dispositivi culturali, con modalità sempre più sofisticate fornite dallo sviluppo dei media, che nel corso dei secoli, aggiunge Bandura,
“persone ordinarie e perbene hanno compiuto molti atti distruttivi in nome di ideologie, principi religiosi, dottrine sociopolitiche e imperativi nazionalistici”, attraverso l’interiorizzazione del convincimento che in guerra uccidere il proprio simile non è omicidio ma atto di eroismo.
Uccidere il prossimo è diventato un atto di eroismo.