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Australia: terra di pionieri e di emigranti.

Ultimo Aggiornamento: 24/07/2009 19:47
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Sesso: Maschile
24/07/2009 19:46

Dal nostro corrispondente dall'Australia, Dott. Umberto Polizzi.
Riceviamo e pubblichiamo.

Attendere la primavera è dolce. L'attesa è più ansiosa in virtù anche del lungo inverno trascorso con le tapparelle chiuse nell'uggioso clima di Melbourne.
Sono tanti anni ormai che dietro quelle odiate aperture a strisce la mia mente stanca rincorre fantasmi sbiaditi e ombre del passato. Anche oggi piove! L'acqua che discende dal cielo grigio, crea, sui vetri appannati delle finestre, rigagnoli lucenti e frettolosi quasi esitanti nella loro progressione verso il basso. Ogni goccia, furtiva nel suo apparire, sembra volersi scegliere, incerta e capricciosa, un suo tracciato quasi che fosse il suo destino.
Mi è difficile far affiorare, con l'aiuto della memoria, gli antichi tratti del mio volto giovanile. Un’ingiallita foto del 1952 riporta un'immagine irreale, quasi sospesa fra l'innocenza di quella istantanea e la buffa rappresentazione di quei caratteri somatici in un atteggiamento sorpreso, puerile, quasi grottesco! Colpa del fotografo? Ma sì, certo! Non era “ buona arte” quella dei fotografi di allora…; era una foto da quattro soldi, senza alcun ritocco, istantanea, fatta appositivamente per le tessere della povera gente senza pretese spinte allo sbaraglio da un’inclemente destino: Emigrare per vivere.
Nessun fotografo, oggi, anche se solo dilettante, otterrebbe simili risultati.
Eppure quell'istantanea di un tempo lontano, era riuscita allo scopo per cui fu fatta: doveva rappresentare la mia immagine di emigrante in terra d’Australia; quella che doveva divenire, poi , la mia seconda Terra, ahimè, se non anche la mia seconda Patria.
Quante volte, ai posti di frontiera, dovetti mostrarla così inchiodata e marcata dal timbro consolare. Quante volte nel riporre poi, quel documento, cercavo di accarezzare quel volto dall'aspetto attonito con il delicato tocco dei polpastrelli come a confortare me stesso, solo, in quell'immensa ‘Terra rossa di cardi e di canguri’ e terribilmente estranea agli affetti più cari.
Torno indietro nel tempo in cui vissi la mia prima giovinezza senza che questa mi fosse mai appartenuta.
“… indarno mi dorrò d’aver la mia giovinezza perduta”, declamava il Boccaccio.
“Ero giovanissimo! Conclusi gli studi liceali, affrontavo da solo l'esperienza dell'emigrante anche se, a ricevermi, in quella lontana terra, ci sarebbe stato lo zio paterno che non avevo mai conosciuto. Quanti ricordi si addensano ora nella mia memoria...!
"Australia"! Cos’ eri tu per me? "Australia”, terra di fascino amaro, costretto ad amarti prima d'averti conosciuta; accettarti in cambio di una suggestiva speranza di benessere e perdere il calore della mia terra, l'abbraccio tenero e soave delle mie colline dove fiorisce il ginepro e la rondine infonde nell'aria il suo esaltante garrire come un serto di gloria alla primavera.
Addio mia bella Lucca nel seno di una Italia ancora dolente di una guerra sofferta; madre generosa e avara che mantieni intatti i tuoi contrasti per renderti unica nel tuo genere, ed essere lo stesso amata.
Questi miei pensieri, carichi di timore e di rassegnazione, erano sovrastati dal turbinare delle eliche del grande scafo marino, nero e rugginoso, che dondolava verso l'ignoto destino.
Mentre lenta e sonnecchiosa la grande nave del dolore e della speranza trasportava tanti di noi infelici cullandoci nell'immenso mare, con il naso appiccicato all'oblò, cercavo di immaginare quale sarebbe stata la mia sorte in quella lontana terra ‘rossa' popolata di cardi e di canguri.
Vaga e indistinta, la vedevo affiorare, con giovine e fantasiosa immaginazione, fra le bianche spumeggianti onde di quel mare infinito, come un miraggio amaro, che dava da presagire tanta sofferenza e abbandono. Mai lacrime così calde e cariche di ansietà incontenuta avevano irrorato il mio volto sbiancato di giovanetto. Avevo appreso, dai testi scolastici, dei caldi e aridi deserti che coprono il 43 per cento di quel territorio australe, mentre il 23 per cento è semideserto e, infine,delle vaste estensioni di boscaglia che contornano l’est geografico di questo immenso continente. Questo mi faceva supporre che l'Australia fosse un paese popolato principalmente di forti e avventurosi colonizzatori. Certo! È una realtà indiscussa. Per vivere in ‘esso’ sono necessarie doti eccezionali di adattamento e, se non altro, di ‘caparbietà' per resistere.
Solo chi come me ha assaporato la solitudine di quelle lunghe notti illuminate da stelle non familiari dove predomina indiscussa e immensa, quasi ostinata e beffarda la ‘Southern Cross’, potrà comprendere di che sapore hanno le lacrime dell'emigrante.
Lasciammo il campo raccolta immigrati di Bonegilla ai confini del New South Wales e del Victoria. Era stato un campo di concentramento di militari italiani e giapponesi, poi adibito a centro di raccolta emigranti europei.
Noi italiani eravamo alloggiati al campo n°.10. L'assistenza era ottima, con acqua e servizi igienici sufficienti, che dovetti rimpiangerli quando giunsi nella nuova destinazione con un contratto di due anni di lavoro.
La fattoria, a cui ero stato assegnato, era a tre giorni di camioncino. Si doveva attraversare un tratto di deserto per giungere nuovamente sulla costa nelle immense estensioni di canne da zucchero nelle zone tropicali del Nord Ovest. Era, la nostra, una importazione di persone povere, di poco costo e questo era quanto bastava a un reclutamento indiscriminato di tutte le razze e di qualsiasi nazionalità, esclusi gli anglosassoni.
Ognuno di noi era emigrato per un fatto, per una circostanza, diremo quasi per una necessità di vita da quella terra che ci aveva dato i natali ma ci aveva frustrati nello spirito; eravamo i figli della malasorte.
Bonegilla ci aveva quasi entusiasmati; ora, tornava in noi l’antica delusione. I nuovi alloggi erano, in un primo tempo, in alcune malandate baracche come nei campi di concentramento nazisti, senza alcuna privacy, per cui il nostro spirito era tristemente abbattuto. Sentivamo l’abbandono che ci rendeva vaghi, privi di personalità, quasi truffati della nostra dignità umana. I più deboli soccombevano fino ad estinguere il debito con l'Ufficio dell'Immigrazione per poi fare ritorno in Italia.
Si viveva quasi allo stato selvaggio. Le baracche non offrivano alcun conforto igienico come quello lasciato a Bonegilla. Una baracchetta di appena un metro e mezzo quadrato, fatto di lamiera, era dislocata dietro la casa per i servizi igienici della comunità.
Erano specialmente le donne a soffrirne perché dovevano scegliere tempi opportuni per i loro bisogni fisiologici lontani dalle indiscrezioni maschili.
Molto spesso, in virtù degli orari differenziati per l'uso della baracchetta... igienica (non tanto), alcuni ceffi di discutibile estrazione, cercavano di approffittare della situazione per molestare le donne! Fu evidente la reazione dei mariti e dei fratelli delle importunate per cui si dovette circoscrivere un 'area’ con una staccionata di canne di bambù e riservarla esclusivamente al servizio delle donne.
Alcuni gaglioffi, a causa delle loro intenzioni immorali, furono ricoverati negli ospedali delle lontane città con degli sfregi da rasoio al volto, altri, in maniera più grave, furono ricoverati, talvolta, per la fuoriuscita degli intestini, che misero in pericolo la loro vita, persero il lavoro e furono persino rimpatriati con foglio di via obbligatorio quali persone indesiderate.
Molte volte venivo chiamato per soccorrere alcuni di questi in qualità di infermiere occasionale e, spesso, ho trepidato per le loro sorti.
Sembrava che si accanissero maggiormente dopo gli accidentali fatti di sangue.”Sangue chiama sangue”, era la legge di noi disperati.
Una giovinetta ebbe la sventura di perdere il padre in un incidente di lavoro. Si chiamava Tania. Era di origine slava. Era una ragazzona piena di salute con una grossa treccia di capelli rossi legati all'estremità con un fiocchino variopinto, ogni giorno diverso e civettuolo. Era bellissima, esuberante e felice dei suoi quindici anni. Dimostrava più anni di quelli che in effetti avesse.
Il padre di Tania era un uomo tutto fare. Da giovane aveva fatto il corridore di bicicletta e, per questo suo trascorso sportivo, lo mettevamo a pedalare alla bicicletta della dinamo (generatore di corrente elettrica) quando occorreva maggior luce, sempre in caso di emergenza di quanto potevano ofrirci i lumi a petrolio o a carburo in quell’unico e improvvissato ambulatorio.
Padre e figlia erano legati da un’immenso amore essendo soli al mondo da quando la madre di Tania, la signora Zefira, morì di parto con il neonato a Broken Hill. Una volta , dopo un’emergenza, ci scordammo di lui, del provvidenziale pedalatore, per cui si sobbarcò due ore e più di pedalate a quell'aggeggio infernale della dinamo. Era sempre contento quando poteva essere utile alla comunità in generale e a tutti noi del corpo … “sanitario” in particolare!
Il nostro uomo, aveva terminato il suo turno di vigilanza su di un tratto di binario per cui stava tornado a casa con il carrello azionato a mano quando qualcosa bloccò le ruote del mezzo scaraventandolo con la testa sul binario. Morì all'istante. Allestimmo una specie di camera ardente in attesa delle autorità giudiziarie per le indagini e la costatazione di morte del povero Gregory.
Nel breve tempo che lasciammo sola la ragazza affranta accanto alla salma del padre, due malviventi di età avanzata, la stuprarono. Mancai al massimo quaranta o quarantacinque minuti da quella camera ardente, chiamato altrove per una medicazione. Furono sufficienti, a quei due manigoldi, per distruggere l'intimità e la serenità di quella povera fanciulla; distruggerla nel corpo e nello spirito. Non mi ci volle tanto a capire cosa le era successo. Perdeva sangue da ogni parte del corpo e con il viso tumefatto e irriconoscibile dalle percosse subite. Aveva certamente cercato di difendersi per cui infierirono selvaggiamente su di lei per indurla all'immobilità e consumare l'efferato delitto.
Alcuni udirono le grida della ragazza, ma pensarono a grida di dolore e sconforto per la morte del padre. Accorsero per confortarla , mentre i due malviventi sentendo il sopraggiungere di alcune persone, abbandonarono precipitosamente il luogo del misfatto. Con lo sguardo attonito, la poveretta , fissava un punto del soffitto; irrigidita, immobile…- Mi precipitai su quel corpo atterrito e sgomento alla ricerca di riparare, salvare, ritenere qualcosa possibile...
Tutto era ormai compiuto! Tutto irrimediabilmente perduto. Non parlava, povera creatura! Cercai di farle ingerire un po’ d'acqua, di rianimarla tenendo il suo viso fra le mie mani; cercai di accarezzarla teneramente. Non reagiva. Non pianse neppure! Appariva fredda e spenta! Con lo sguardo smarrito e le labbra gonfie, tumefatte e grondanti di sangue non reagiva ad alcun richiamo. Mi fu facile praticarle una iniezione; avrei potuto persino sezionarla, non avrebbe sentito alcun dolore. La tenni appoggiata sulla mia spalla per un lungo tempo senza che manifestasse alcun segno di ripresa di coscienza. Di tanto in tanto uno strano tremore le percorreva tutto il corpo facendomi scuotere; sembrava quasi che volesse trasferire in me quel complesso psicologico carico di tragedia.
Fu immediatamente costituito un ‘comitato di disciplina' per cui i malfattori furono legati mani e piedi e scaraventati in una fossa scavata frettolosamente lontano dall'abitato e ricoperti con una lamiera sotto il sole con 36 gradi all'ombra. Sul momento credetti ad una esecuzione sommaria dei due criminali; salvarono a stento la vita.
Nessuno ebbe pietà per quei luridi mascalzoni. Dopo tre giorni con sola poca acqua, tanto quanto bastasse a non farli crepare, senza alcun cibo, sotto il terribile sole di quell'infuocato deserto, le loro velleità furono messe, alquanto, in discussione....!
Era la nostra legge: la legge dei disperati come lo eravamo noi. I poliziotti locali, in realtà, erano solo due, di cui uno anche prossimo alla pensione con un enorme ventre sempre pieno di birra, snobbavano le nostre richieste e spesso ci fecevano capire che era una questione solo nostra. “Sbrigatevela da voi…!”, solo questo sapevano dire. Agivamo di conseguenza . Con le mani legate, i due manigoldi, non potevano nemmeno andar di corpo, per cui quando furono liberati erano sfiniti e pieni di feci fino alla cintura. Da quella fossa furono rilasciati al seguito di una tribù nomade di aborigeni in transito da quei luoghi che si dirigevano verso l'interno. Furono scortati da quattro giovani armati fino all’estremo confine della boscaglia dove aveva inizio l’immenso deserto rosso. Non li rivedemmo mai più, né avemmo più loro notizie.
Sapevo che sarebbe giunto, con il Flying Doctor, il dottore della zona, per cui, la Tania, avrebbe avuto un'assistenza maggiore anche se avrebbe dovuto aspettare chissà quanto tempo ancora prima che le Autorità del Dipartimento Emigrazione decidessero della sua sorte. Povera creaturina.
Da una quindicina di minuti, mi ero svegliato da quel dormiveglia confuso e pieno d’incubi, per il ronzio di un motore d'aereo. Erano trascorsi circa venti ore da quello stupro. Avevo resistito al sonno fino quasi a quel ronzio.
Finalmente, stanchi e angosciati, avevamo il medico sopra le nostre teste in cerca di uno spiazzo per atterrare. Fu visitata e medicata. Firmammo un rapporto dei fatti accaduti alla povera figliola da presentare alle autorità consolari.
Erano tempi in cui i piloti rischiavano la vita per atterrare nei punti più remoti dell'interno di questo deserto rosso d'Australia. Molte piste di atterraggio erano terribilmente insicure per la conformità irregolare del terreno. Spesso non erano abbastanza lunghe per atterrare e decollare senza pericolo. In quei primi tempi la navigazione aerea era una vera sfida.
A causa delle carte di navigazione poco attendibili o dell'assenza di esse, i piloti dovevano spesso riconoscere i punti di riferimento dall'alto, magari un folto d'alberi, una staccionata di confine, una strada in terra battuta, una pozza d'acqua o un fiume. Alcuni accampamenti avevano il nome del luogo scritto in nero sui tetti delle baracche e con caratteri abbastanza grossi per essere ben visibili dall’alto.
Quando avevamo la certezza del loro arrivo, stendevamo il bucato al sole, specialmente le lenzuola bianche in forte contrasto con il rosso della terra del deserto. Anche in quella circostanza il pilota dovette scendere a bassa quota, quasi a rasentare i tetti di lamiera delle nostre baracche e girare in cerchio sopra la pista per far allontanare cavalli, cammelli, canguri, mucche, pecore e perfino emù prima di atterrare.
Trepidavamo per la Tania. Era passato già un bel po’ di tempo dal primo soccorso del Medico Volante. Ora finalmente l’Ufficiale postale ricevette il messaggio dell’arrivo di un aereo per venire a prelevare la fanciullina.
Si presumeva che in serata sarebbe giunto e che l'avrebbero portata a Charters Towers, città ad un centinaio di chilometri a Nord-ovest dai nostri insediamenti, distanti una ventina di chilometri dalla piccola cittadina di Bowen.
Era quasi notte per cui si dovette allestire una rustica illuminazione della breve e pur scabrosa pista con i fari di alcuni camion, trattori e ruspe della ditta posa-binari ferroviari.
Furono giorni terribili non solo per Tania. Tutta la comunità aveva risentito di quel guasto fatto su quella povera creatura. Piansi anch’io. Mi resi conto d’averla perduta per sempre.
" Perché non parli...?”, le chiedevo accarezzandola amorevolmente.
" Ormai gli uomini cattivi non ci sono più...sono andati via. Tu non li rivedrai mai più...Ora avrai una sistemazione definitiva, potrai tornare nella tua terra…Avrai qualche parente in qualche parte…no?". Cercavo in questo modo di rassicurarla, darle un po’di conforto. Ma Tania rigettava ogni suono che recepiva chiudendosi sempre più in sè. Volevo darle una sistematina, farle fare un bagno nella grande tinozza sita nel ripostiglio attrezzi dietro l'Ufficio Postale, d'altronde era l'unica funzionante perché collegata alla cisterna pluviale.
Erano giorni che non si lavava nemmeno il viso. Non potevo lasciarla andar via in quelle condizioni. Anche Zaira, la moglie di Carlo, il ferroviere, che l’aveva ospitata provvisoriamente, non riuscì a persuaderla.
Le avevo stirato il vestitino della domenica, quello carino che indossava preferibilmente quando andava con il padre o usciva con me a far compere nei giorni di festa in un piccolo emporio dell'Ebreo quasi fuori del centro abitato. Alle mie insistenze, serrò terribilmente i denti quasi a spezzarseli. Grugniva come un animale ferito! Si aggrappò alla camicetta che aveva addosso ormai ridotta ad uno straccio puzzolente di sangue e di sudore senza volerla mai mollare. Allora cercai di farmi breccia con un asciugamano insaponato per lavarle almeno le ascelle. Mi dette una spinta che mi fece quasi stramazzare fissandomi con uno sguardo carico di supplica e di terrore. Capii che non avevo alcun diritto di profanare ulteriormente quell'intimità dissacrata da quei pazzi maniaci sessuali. Le chiesi perdono. Mi avvicinai e la baciai sulla fronte e piansi copiose lacrime di disperazione per quello spirito distrutto.
Avevo iniziato con lei, quando la conobbi, un rapporto di simpatia che, forse, chissà, forse nel tempo sarebbe sicuramente sfociato in un qualcosa di bello, di romantico certamente! Si attendeva con trepidazione il sabato sera .
Al bar di Menichelli si poteva giocare a carte e competevamo in tornei di briscola e tresette, mentre sul lato opposto della strada vi era una specie di sala da ballo in casa della Milena, dove preferivo trascorrere il mio sabato sera.
La Milena, con 15 ‘pennies’ ci offriva anche la Coca Cola; con 10 pennies solo l’ingresso. La musica era provveduta da un vecchio grammofono; il tango della capinera era il nostro ballo preferito. Dal momento che la ragazza lavorava con me in infermeria, avevo possibilità di starle vicino e corteggiarla per riservarmi l’esclusiva del ballo a fine settimana.
Ero fortunato, perché le altre coppie si componevano di maschi con maschi e femmine con femmine.
Non nascondo la complicità del padre di Tania, che mi riteneva un giovane giudizioso e perbene ed era contento che fossi io l’accompagnatore fisso della figlia. Sapeva che poteva fidarsi. Di rado, alcune delle frequentatrici di casa Milena, si concedevano alle insistenze dei giovanotti per ballare. Erano le ragazze dell’Italia del nord , le slave, le tedesche che non disdegnavano il ballo con il maschietto, mentre le ragazze del sud Italia, accompagnate da una interminabile schiera di familiari erano quasi impossibili.
Sento nostalgia di quel commuoversi alle note di Natalino Otto, Claudio Villa, Giorgio Consolini, Carla Boni , Gino Latilla e altri, altri ancora. Piccole cose che rendevano la vita dell’emigrante più sopportabile ma nello stesso tempo rafforzavano la nostalgia della nostra terra oltre quell’infinito mare.
L'assistenza sanitaria era quasi inesistente. Anche nell'interno del paese, dove venivano allestiti gli impianti per la posa della rete ferroviaria, l'assistenza medica era quasi sconosciuta. Per i casi più gravi si chiedeva l'intervento del Medico volante come nel caso della povera Tania.
I ricordi sono vaghi, ma alcuni di questi, hanno marcato la mia memoria in modo indelebile. Dopo aver visitato la Tania , il Medico volante diagnosticò in lei un evidente stato confusionale per cui le iniettò un sedativo. A passi lenti e, sorreggendola amorevolmente, l'accompagnai all'aereo. Nel salire la scaletta la sentii fremere ancora.
Quale travaglio si era insinuato nel cuore e nella mente di quella creaturina? L'accarezzai con tenerezza . Lentamente feci scivolare la mano lungo la grossa treccia che aveva ormai cambiato di colore per il sudiciume che si era accumulato in essa. La salutai e piansi. "Addio...".
Povera Tania! Quasi spenta nello sguardo si guardò intorno come a voler marcare ulteriormente, nella sua mente travagliata, quel posto che tanto dolore aveva inferto nel suo piccolo cuore di donna ancora fanciulla.
“Addio, Tania! Addio per sempre, piccolo amore mio”!
Seguimmo con lo sguardo quel piccolo aereo sperdersi lontano nel cielo terso seguito da una scia vorticosa di polverone rosso accompagnato dallo sgomento di tutti noi per quel guasto e per quell’addio. Tania, tornò a vivere nella sua terra con alcuni suoi parenti.
La perdetti per sempre.
Solo in quelle circostanze potemmo apprezzare pienamente la cieca provvidenzialità del servizio aereo che ci veniva in soccorso in tante tragedie vissute in quella comunità allo sbaraglio, sperduta come la nostra.
Con il passare degli anni l’assistenza del Medico volante con il Royal Flying Doctor Service è stato potenziato tanto che oggi ci sono diverse basi nelle varie regioni dell'interno australiano, nonché in Tasmania.
Il mondo esterno a quella nostra comunità era come non esistesse. Non eravamo collegati da nessun mezzo se non quello postale, quindicinalmente, e dal telefono quando era funzionante. Il lavoro era tutto quello che ci veniva offerto sul piano sociale. I miei studi per corrispondenza con l’Università di Melbourne proseguivano molto a rilento;. Anche se gli ostacoli erano tanti non ero disposto a troncare perché la ritenni una sfida. Non si parlava d'altro se non di farsi quei quattro maledetti soldi e tornarsene in Italia. Anche i giovani non erano più tali. La partitina a briscola e a tresette con la posta di un caffè e, a volte, qualche torneo di briscola; il ballo del sabato sera: una sfida nelle diverse culture.
Mariangela, la moglie di Gaetano il ‘dinamitardo' (nomignolo, perché era l'addetto alle mine del parco ferroviario) aveva ereditato, da una sua amica, che era riuscita a tornarsene in patria, un grammofono. Però i dischi erano sempre gli stessi per cui quando ne metteva uno all'ascolto, durante la settimana, specialmente alla sera quando gli uomini tornavano stanchi e sfiniti dal lavoro, erano sassate da tutte le parti della baracca. Eravamo stufi di quel gracchiare. Forse in cuor suo avrebbe voluto far concorrenza alla Milena, la tenutaria abusisa della… sala da ballo; ma i dischi vecchi e consumati non le potevano garantire alcun successo.
Niente di nuovo … sotto quel sole inclemente sulla rossa terra australiana. Le novità quasi spesso venivano dagli incidenti sul lavoro, per cui, in quell’occasione, avevamo di che chiaccherare.
Passarono sei mesi dall'addio di Tania. Non seppi più nulla di lei. Prima che partisse le misi un biglietto nella borsetta da viaggio con una nostra foto istantanea, buffa e piena di smorfie fatta in un baracchino a Townsville e l’indirizzo. Attesi invano che si rifacesse viva; ma non ebbi mai alcun riscontro.
Nelle condizioni di isolamento in cui ci trovavamo, come avevo accennato in precedenza, non vi era alcuna possibilità di comunicare o essere informati di come andavano le cose. Era il solito tran tran di caldo, di mosche, di chiacchere inutili e di duro lavoro con qualche parentesi di piccoli e a volte di grossi incidenti, per cui era necessaria la mia modesta opera e quella dell'Ufficiale postale.
Negli attraversamenti dei deserti o vicino a qualche gruppetto di case dal tetto di lamiera, facilmente vi troverete di incontrare mandrie di asini, cavalli o cammelli, maiali e conigli a milioni; animali questi, lasciati allo stato brado dai primi colonizzatori per cui si sono moltiplicati a non finire. Per limitarne le crescite incontrollate, annualmente il governo provvede allo sterminio di migliaia di canguri, mentre danno la caccia con gli elicotteri ai cammelli per cui i maschi giovani del branco catturati, vengono evirati. Enumerarli tutti ci vorrebbe un'Antologia tutta per loro, per la loro varietà e caratteristiche diverse se non qualche volta anche strane.
IMMAGINATE, ora, d’essere nella foresta australiana. Mentre vi guardate intorno, notate per terra un’impronta che somiglia al numero undici. Che cosa state guardando? Solo una delle molte caratteristiche della creazione animale australiana che la differenziano da quella di altri paesi. State osservando le tracce lasciate dall’animale che salta invece di correre, il ‘canguro’.
Supponete di seguire per un tratto le impronte. Notate che qua e là è aggiunto un terzo colpo alle due impronte, sotto e fra di esse. Lì si è riposato, sedendosi sulla grossa coda e forse battendola per terra per inviare segnali ad altri del branco.
State in silenzio e guardate soltanto. Ecco, avete visto quelle “foglie” appuntite spuntare da dietro quel boschetto? Anch’esso ci ha visto. Notate con quali graziosi salti il canguro supera gli ostacoli mentre si mette in salvo!
Il suo modo di muoversi è solo una delle numerose cose che distinguono il canguro. Il cangurino ha la maggior parte delle differenze. Cominciano prima che nasca.
Il canguro è ciò che si chiama “marsupiale”, il che significa che ha una tasca o marsupio in cui trasporta i piccoli. Ma in effetti il termine “marsupiale” ha un significato più profondo di questo soltanto.



Per contatti: roberto.carson@tiscali.it
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24/07/2009 19:47

La straordinaria nascita del cangurino

Gli animali che non sono marsupiali o “monotremi”, sono detti “placentali”, il che significa che la madre ha un utero in cui l’embrione viene nutrito e a cui è unito per mezzo della “placenta”. La madre del piccolo canguro non ha utero. Invece, esso comincia a crescere subito dopo il concepimento in un sacco vitellino in cui l’embrione è nutrito finché, da otto a quaranta giorni dopo, secondo la specie, il sacco si rompe e il cangurino nasce.
Diciamo “nasce”, ma sarebbe meglio dire “è prodotto”. Perché quando lascia la madre è ancora in uno stato semi-embrionale, senza che occhi od orecchi siano sviluppati e con il solo senso dell’odorato. All’apparenza somiglia a un pezzo di gomma sagomata quasi trasparente. Ora preparatevi per qualche cosa di realmente sorprendente. Questa creaturina allo stato embrionale, grossa quanto un fagiolo, si arrampica palmo per palmo su per i peli della madre, guidata, si crede, dal senso dell’odorato, alla ricerca del marsupio: viaggio che richiede circa tre minuti. Trovatolo, se lo trova, vi si lascia cadere dentro, per completarvi il processo della nascita, che richiede parecchi mesi.
Ma supponiamo che non trovi il marsupio: che accade? Peccato! Potrebbe continuare a vagare per circa mezz’ora, e se ancora non lo trova, la sua vita finisce prematuramente. E che cosa fa mamma canguro in tutto ciò? Proprio niente. Non si preoccupa. A questo punto con tutta probabilità ha già concepito un’altra volta mentre il cangurino era nelle vie genitali. Ma il nuovo embrione non svilupperà più di cento cellule. A questo stadio il suo sviluppo è arrestato in ciò che si chiama “blastocisti” in vista di una situazione d’emergenza come questa. E in questo stadio arrestato dello sviluppo rimarrà finché il marsupio non sia vuoto e solo allora ricomincerà a crescere.
Ma il nostro cangurino ce l’ha fatta. È arrivato a destinazione senza nessuna assistenza. Mamma canguro ha fatto scarsissimi preparativi, semplicemente pulendo il marsupio con una leccatina e quindi sedendosi con la coda in avanti e appoggiandosi a un albero per non cadere da questa instabile posizione. Una volta dentro il marsupio, il cangurino si attacca a un capezzolo e questo si gonfia immediatamente e lo blocca lì, e la madre, servendosi dei muscoli, schizza il latte nella sua piccola gola. Da questo momento potete staccare il cangurino solo spaccandogli la bocca.
Così incredibile è tutto ciò che i primi esploratori e naturalisti pensarono che il piccolo canguro nascesse nel marsupio, “come mele sul ramo”, secondo la descrizione di uno. Molti anni dopo allo zoo di Londra si assistette per la prima volta alla nascita dell’embrione e anche allora si pensò che la madre trasferisse il piccolo nel marsupio con le sue labbra. Solo nel 1932 si seppe che esso raggiungeva il marsupio da solo.
Possiamo omettere il periodo che il cangurino passa nel marsupio, tranne che per notare che lì cresce dalla grandezza di un fagiolo, meno di un grammo, a qualche chilo. Solo dopo otto mesi e quando è stato svezzato esso si stacca e comincia a uscire dal marsupio per brevi periodi. Anche in tal caso, gli piace ancora fare colazione a letto, cosa che gli riesce facile sporgendosi dal letto e mordicchiando di passaggio l’erba mentre la madre pascola.
Correndo (saltando) ora insieme a un gruppo da sei a cinquanta canguri, il piccolo diventa adulto. Se è della varietà rossa può raggiungere l’altezza di un metro e mezzo o un metro e ottanta centimetri, pesare fino a 90 chili, fare salti alti tre metri e muoversi con salti di sei metri, quasi cinquanta chilometri all’ora.
È una creatura docile o perfino timida se non è in difficoltà e non combatte per la propria vita. Allora, col dorso contro un albero e seduto sulla coda, assesta colpi con le zampe anteriori e posteriori e gli artigli affilati, tenendo testa a parecchi cani. E se si accorge d’avere la peggio, si allontana saltellando fino a un “bilabong” o pozza d’acqua. Lì, in piedi con l’acqua fino alla vita, sommergerà un cane dopo l’altro mentre nuotano verso di lui, tenendoli sotto la coda o le zampe finché affogano.
Uno di questi, non ancora pienamente svezzato, fu abbandonato dalla madre. Lo trovammo spaurito e non troppo socievole.
Era estenuante dargli il latte con il biberon che privileggiava alla tenera erbetta del nostro recinto. In tre o quattro facevamo fatica a farlo star fermo. Per poterlo sorvegliare meglio affinché con facesse guasti, la Tania, a suo tempo, gli legò un campanellino al collo, e tutto il giorno sentivamo quel tintinnio che ci segnalava la sua… posizione. Quando poi divenne adulto furono guai per tutti: rompeva ogni cosa; era divenuto padrone di tutto e di tutti ma, in effetti, era il nostro svago e qualche volta il nostro tema di conversazione.
(Nota!) -Se volete vedere i canguri nel loro ambiente naturale, dovete essere disposti a lasciare la città e addentrarvi nell’entroterra.
Poi "Jolly", il nostro intraprendente cangurino, un giorno divenne adulto e, come tale, non seppe resistere al richiamo di una femminuccia di passaggio e sparì per sempre! Ci rimase il campanellino appeso alla maniglia della porta dell’infermeria a ricordo di “Jolly”, canguro innamorato.
Aspettevamo da tempo il passaggio del ‘Profeta'. Tardava a venire per cui eravamo un po’ preoccupati. Ad ogni cambiamento di stagione eravamo solitamente visitati da uno strano personaggio: "Il Profeta"!
Chi era costui? Mentre per noi le stagioni le ritenevamo tutte uguali, non era così per questo strano personaggio, un David Crochet in terra d'Australia, puntuale ad ogni cambiamento di stagione. Era una specie di vagabondo, tipo swagman, così erano chiamati da queste parti alcuni tipi strani come il nostro profeta.
La sentivamo nell'aria la sua presenza. Non era certo un campione di pulizia e d'ordine. Vestiva di stracci e di pelli di animali e a piedi nudi. Era accompagnato dal suo fedele cane. Alcuni lo ritenevano un disertore tedesco della seconda guerra mondiale, altri, invece, raccontavano di lui come un povero uomo uscito di senno nell'aver perduto, da queste parti, l'intera famiglia. Cosa ci sia in effetti di vero e di certo nessuno lo ha mai saputo.
Quale dramma umano era racchiuso in quella maschera di fango e di dolore? Chi mai avrebbe potuto far breccia nel cuore di quello sventurato essere abbandonato? Quale forza avrebbe potuto condurre quell'uomo nuovamente nel contesto civile dell'umana esistenza? Noi, in quelle circostanze, potevamo fare poca cosa se non quella di rifocillarlo appena nel corpo. Doveva essere un uomo di una certa cultura: conosceva la Bibbia a memoria per cui divenne legittimo quell'appellativo. Socializzava volentieri con i bambini mentre rigettava conversare con gli adulti ritenendoli figli del male e di Satana. ( Le stranezze qualche volta rispecchiano la realtà...)
Lo trovai una mattina di buon'ora accovacciato che dormiva presso le lunghe vasche dell'abbeveratoio poche discoste dall'abitato. Le mosche facevano banchetto sopra una mano visibilmente tumefatta e incrostata di sangue e sporcizia. Avevo paura del suo nodoso bastone che sapeva maneggiare con maestria, per cui lo destai gentilmente e con una buona tazza di caffè caldo. Aprì quei suoi occhi azzurri di una dolcezza profonda.
Accettava la mia presenza per cui approffittai di prendergli la mano ferita e constatarne il guasto. Era soggetto ad un febbrone da cavallo. Gli chiesi di seguirmi in baracca per poterlo agevolmente soccorrere, curagli quella brutta ferita. Mi accennò un rifiuto scuotendo il capo accompagnato da un lieve sorriso. Chiuse gli occhi e, borbottando qualcosa che non riuscii a capire, pianse! Come un automa cominciò a rovistare e poi svuotare quella specie di sacco che portava con sé.
Cosa in effetti cercasse non lo seppi mai. Tirò fuori innumerevoli cianfrusaglie di ogni tipo e colore: bottigliette di coca cola vuote, tappi di sughero, diverse pelli conciate di serpenti ben arrotolate, ciottoli di fiume e altra strana roba che andava raccattando lungo tutto il suo peregrinare. Non potevo mai supporre cosa se ne facesse di quegli oggetti strani e insignificanti. Una cosa però non potei fare a meno di notare: un grosso anello d'oro al dito indice della mano destra con un grosso rubino. Se poi fosse rubino non son certo. Certo era un gran bell'anello, di gran fascino e di mistero dal momento che era posseduto da un uomo dal quale traspariva l'ignoto.
Fu l'Ufficiale postale, che mi spiegò la ragione di quel suo rifiuto. Seppi che non sarebbe mai entrato in una casa, o al coperto, finché l'angelo di Dio non l'ho avesse autorizzato a farlo. Forse anche per questo gli fu posto l'appellativo di ‘profeta'!
Stranezze inspiegabili che certamente affondano le loro radici in qualcosa di ineluttabile, grave, sicuramente anche misterioso; perché l'uomo è in se stesso misterioso anche quando non si trova nelle condizioni del nostro emblematico tedesco vagabondo immigrato come lo ero io. Cercare una ragione in una mente sconvolta, è superfluo, per cui cercai di assecondarlo in ogni cosa affinché potessi compiere la mia opera e elargirgli quelle cure necessarie al suo caso.
Come era sporco e puzzolente, poverino. La lunga barba brizzolata incolta lo faceva apparire più vecchio di quello che in realtà fosse. Forse non aveva più di cinquanta anni ma le sue condizioni apparivano terribilmente compromesse da quella forte tosse e dalla febbre che lo faceva delirare. Il suo cane, un incrocio fra un pastore tedesco e un ‘dingo’, era adagiato accanto al padrone con il musetto variegato sopra una sua coscia e lo guardava teneramente come a volerlo confortare con il suo contatto fisico. Cercai di dargli da mangiare, di accattivarmi anche lui. Gli detti un ‘hot dog’ avanzato dalla cena, mentre il padrone, visibilmente stanco e con fare incerto, ebbe la forza di estrarre dal suo sacco sdrucido e fra le tante cinfrusaglie, un pezzo di carne secca di coniglio selvatico e lo porse al suo fido compagno, accarezzandolo amorevolmente. Sorseggiava il suo caffè, ormai freddo, e brontolava sommesso, frasi incomprensibili. Lo curai con infinita attenzione per tutto il giorno. Gli lessi alcuni brani della Bibbia, in italiano, per accattivarmi maggiormente la sua fiducia. Sapeva a memoria un' infinità di proverbi e alcuni passi del Vecchio Testamento per cui riusciva a renderli pertinenti ai fatti della vita moderna. Strano uomo come strano profeta. Lo cercai al mattino seguente. Non c'era più! Era sparito con il suo cane e con il suo sacco. Come era arrivato, così se ne era andato. Le sue tracce si persero ad ovest nell'entroterra fra una striscia di bosco e l'inizio del deserto. Flash di una strana maschera svanita come una bollicina di sapone! Anche questo fatto di per sé era grande cosa per noi; era un avvenimento da raccontare nelle lunghe sere d'inverno alla luce di un lume a petrolio.
Specialmente quando potevamo renderci utili sentivamo di avere uno scopo, la nostra esistenza diventava quasi una missione umanitaria in quei luoghi selvaggi altrimenti continuava priva di ogni senso sociale.
Ora sono solo ricordi marchiati da una vita quasi senza senso che non piace a nessuno nemmeno ricordare. Riuscirò mai a rendere quella situazione vissuta incredibilmente da umani così come la vivevamo noi? Eravamo solo degli ‘emigrati’ per cui nulla avevamo a pretendere se non altro qualche rigurgito di dignità !
“Fu nel periodo delle feste di Natale, teneramente mano nella mano con Tania, la sventurata ragazza che in seguito, come ho narrato, fu stuprata.
Godevamo dell’incantevole paesaggio di Townsville, cittadina distesa a nord est sull’Oceano Pacifico, dinanzi alla Grande Barriera Corallina, vivace dai mille colori e cosmopolita , quasi che fosse un quadro ‘naif’.
Eravamo all’inizio di una relazione quasi fanciullesca; felici al sol pensiero di appartenerci ed avere qualcuno a cui confidare, parlare se non anche sospirare a un eventuale futuro insieme. Tutto lì! Il brutto doveva ancora venire a distruggere ciò che ora stava sbocciando alla vita. Sgranocchiando pop-corn e sorseggiando Coca Cola acquistate da un ambulante, ci fermammo attratti da qualcosa che ci fece meditare perché era nel carattere precario e imprevisto della nostra esistenza vuota di tante cose, ma piena di tanta solitudine: stavano proiettando alcune immagini del deserto rosso del Western Australia. Raccogliemmo l’ opuscolo che ci veniva offerto dal casuale fotoreporter, dove venivano commentate le immagini che stavamo vedendo.
“Nel 1957 una troupe di esploratori australiani e un aborigeno percorsero in lungo e in largo l’intero centro Australia in cerca degli ‘ultimi nomadi’. Una tribù di aborigeni sapeva dell’esistenza di una coppia di questi, sperduta negli immensi deserti del centro Australia senza confini. Da giovanetti scelsero la vita libera e solitaria facendo perdere ogni loro traccia specialmente dall’ingombrante invasione dei bianchi.
Fu una scelta ben specifica la loro. Fino agli anni ’70 alle coppie aborigene, lo Stato toglieva loro i figli allevandoli in Istituti diversi: li “sprogrammava” della loro identità sociale che li voleva di credo religioso differente dai ‘bianchi’, per cui li consideravano barbari , selvaggi e retrìvi.
Una volta che queste creaturine aborigene furono ‘rapinati’ dalle loro famiglie, li “riprogrammavano” alla nuova cultura europea…(grazia loro!), ritenendo, i loro genitori, non idonei ad assolvere le loro responsabilità; ma non poterono alterare il loro genio. Alcuni di loro divennero professionisti di alto valore sociale nel complesso tessuto multiculturale australiano; ma un aborigeno rimarrà sempre tale: fiero delle proprie origini.
Gli esploratori indagarono presso le diverse tribù per iniziare le ricerche dei due, almeno con un punto di riferimento certo.
Finalmente, nell’entroterra, furono scoperte le loro tracce per cui fu intensificata la ricerca. Trovarono l’uomo e la donna, nel Gibson Desert nello Stato del Western Australia: un deserto allucinante, quasi unico nel suo genere. I due erano completamente nudi, ormai avanti negli anni, che vissero nella completa solitudine. Durante tutto l’arco della loro misera esistenza, non lasciarono nessuna traccia sulle sabbie del tempo. Sembravano di cartapesta, spettrali! Era difficile distinguerli se non da qualche …evidente esteriorità fisica .
La ripresa filmata era da incubo. La vastità del deserto rosso con arbusti bassi quasi rasenti il suolo arido, dava la sensazione dell’infinito. Altri deserti, qui in Australia si differiscono da questi per un’infinità di componenti fisici e vegetali. Altrove si possono godere dei panorama stupendi specialmente il giorno successivo ad uno scroscio di pioggia, il deserto si ammanta di miriadi di colori dove ogni cosa sembra tornare a vivere e a respirare; profondi canyons con un’infinita varietà di flora e di fauna; monolitici unici al mondo come quello di Ayers Rock ; il King Valley spettacolare gola serpeggiante: una gincàna per centinaia di chilometri e, altre, altre meraviglie ancora.
L’operatore commentando le sue impressioni su ciò che fissava con la macchina da presa, disse che simili sensazioni non sono possibili provare altrove. “ Siamo su di un asteroide” – disse- la vastità degli spazi , da queste parti, acquistano dimensioni galattiche perché non ci è possibile fermare un’orizzonte; tutto va all’infinito senza un rapporto fra noi e un albero o fra noi e un’ altura ; avere un punto di paragone, insomma, con le nostre dimensioni fisiche e con quello che esiste intorno a noi; tutto è piatto ed è esasperante , tutt’uno con l’azzurro cupo del cielo di sopra. Abbiamo l’impressione di essere schiacciati, quasi assorbiti da esso, dalla monotonia di quest’immensità azzurra di sopra e il rosso acceso di sotto, come da un tampone di carta assorbente ”.
La donna era quella che provvedeva maggiormente alla sussistenza sia per l’acqua che per le bacche di cespugli. Quando la ripresero, stava uscendo da una tana; una tana praticata nel terreno con alcune radici commestibili tra le mani, quasi che fosse un parto di madre Natura. L’apertura del suolo non era tanto più grande della sua testa. Frantumò con due sassi alcuni tuberi rossi e bacche giallognole, e, dopo averle masticate ben bene, ne fece una poltiglia arancione. Poi, la raccolse su il palmo di una mano e la offrì al suo uomo, abulico e senza alcun dente, affinché non avesse alcuna difficoltà ad ingerirla.
Erano evidenti le condizioni estreme dell’uomo. Gli occhi rossi, bruciati dal sole, esprimevano terrore e rinuncia. Non avevano mai visto la civiltà dei bianchi; lontano in loro il ricordo della convivenza con altri della loro specie, tanto meno il ricordo di una tenda o un qualsiasi riparo se non di qualche roccia sporgente. Erano in completa simbiosi materiale e spirituale con la terra da cui traevano sia i mezzi per sopravvivere quanto quelli spirituale perché “animisti”, convinti da quel retaggio di memorie ancestrale che li voleva tali. Lui era ormai alle soglie del trapasso. Furono caricati sopra un camper e trasportati a Laverton , un piccolo centro a Sud di questo immenso territorio marziano. Solo a salire sul camper ed essere trasportati da quel mezzo meccanico, veloce e traballante, subirono un trauma terribile.Ad ogni scossone del ‘camper’ in movimento si irrigidivano terrorizzati.
Erano visibilmente scioccati. Il ricovero in baracca fu per loro un fatto innaturale. Indossarono una camicetta ciascuno: di coloro rosso quella dell’uomo, bianca quella della sua compagna. Il vecchio morì dopo un solo mese. La civiltà dell’uomo bianco gli fu fatale; affrettò quel processo naturale di disfacimento per un completo riassorbimento di quell’entità, in effetti solo biologica, in madre Natura, mentre la donna, alla morte del suo compagno, come se avesse terminato la sua missione, volle ritirarsi dalla vit,a non volle più alimentarsi e si fece morire d’inedia lentamente; non resistette più di una settimana alla scomparsa del suo uomo di sempre.
Una “lapide” è stata posta sul punto del ritrovo di quella straordinaria coppia e, ivi, anche sepolti.
Un accentuato risucchio nasale attrasse la nostra attenzione: proveniva da un vecchio barbuto accattone aborigeno visibilmente e rumorosamente raffreddato. Fermo e ingombrante nel bel mezzo della via, contava attento, con un mormorio incomprensibile, alcune monetine sul palmo della sua mano inguantata dove facevano capolino alcune dita dalle lunghe unghie orlate di nero. Lacero e consunto era il suo lungo cappotto grigioverde indossato scompostamente, nonostante il sole a quell'ora avesse raggiunto i 36 gradi centigradi. Si era creato un isolamento igienico attorno a sé, emanando un nauseante puzzo di sudiciume e di tabacco. Dov'era il suo mondo? Quale realtà realmente stava vivendo? Quali e quante tragedie erano celate dietro quella maschera di sudiciume nauseante? Perché e come un uomo possa giungere a tanto abbandono se non a causa della solitudine in cui vive? Anch’egli emigrante nella sua propria terra d’origine.
Seduto alla base dei grandi magazzini Mayer, addobbati per una ricorrenza nazionale australiana, un altro aborigeno più nero delle mezzanotte, anch’egli appartenete, suo malgrado, a quell’ambiente dell’emarginazione come la nostra, stava esibendosi in una nenia tribale. Dava l'impressione che fosse cieco, sembrava non avvedersi delle monetine gettate dai passanti fino ad allora distratti, quasi amorfi, nel largo cappello alla ‘cowboy’ posto ai suoi piedi e nel fodero capiente della chitarra.
Cercavo un'espressione in quel buio volto. I tratti terribilmente marcati erano quasi ovattati da una folta e ricciuta barba nera come se fosse di carbon ‘coke ’ ! Impenetrabile quindi, quasi fosse per lui un sistema difensivo alla curiosità del resto dell'umanità aliena da tanto mistero. Di rado sollevava il capo. Fra una nenia tribale ed un'altra si accese una sigaretta e si produsse in un panoramico sbadiglio. Non aveva alcun dente che potesse rompere quel complesso quadro nero, mentre le gengive si mostrarono in tutta la loro ampiezza e profondità di un colore violaceo scuro.
Da quale mondo di usi e abitudini diversi veniva costui? Sembrava disinteressato a tutto ciò che gli era attorno pur riconoscendone la dipendenza. Come avrei voluto dialogare con quell' ‘essere’ apparentemente solo fra le miriadi di persone di un giorno di festa. Finalmente avrei potuto fermare un'immagine, un pensiero di quell'antica civiltà esistente ancor oggi nel cui patrimonio millennario, purtroppo, è arduo il penetrarvi.
Quale dialogo sarebbe stato possibile fra noi? Avrei preso volentieri l'iniziativa se non fosse stato per alcune difficoltà di base, cioè primariamente la diffidenza di queste creature con il mondo esterno al loro, e per il mio precario, se non buffo inglese. Anche in un simile frangente sentii la terribile morsa della sua e della nostra solitudine. Quante volte le esteriorità nascondono realtà diverse.
È nello spirito insito in quelle esteriorità che vanno registrati i drammi della vita. Avrei voluto penetrare in quello spirito. Conoscere ciò che si agitava in quel mondo di mistero; misterioso come la maschera impenetrabile del loro volto. Porsi l'orecchio nel tentativo di isolare alcune note di quell' "inno alla terra" declamata solitamente nella solitudine di quegl'immensi spazi australi.
Era solo anch'egli in un ambiente non certamenete suo! Emigrante nella sua stessa terra, nel suo stesso suolo dove era venuto alla vita. Aveva lo sguardo quasi spento e fisso nel vuoto quasi cercasse qualcosa o qualcuno non certamente fra quella massa di gente non sua. Qualcosa di quell'antica nenia lo avrà riportato lontano, oltre a quella bolgia di dissacranti note di cultura europea, lontano da quel luogo per lui certamente stridulo e confusionario, di quel crogiuolo di contrastanti culture!
Antiche e familiari colline rosse del suo deserto infuocato del Centro-Nord, gli saranno apparse al respiro di ognuna di quelle note di quell'inno millennario alla vita, mentre le alte nuvole, come bianche pecorelle nell'immenso azzurro del cielo gli saranno venute velocemente incontro legate le une alle altre come da un incantesimo.
Il viandante frettoloso lo avrebbe giudicato primitivo, forse solo un accattone senza personalità alcuna, senza partecipazione attiva al ‘momento’ magico, fascinoso di quell'ambiente in festa. Era lì a creare qualcosa che l'europeo intruso considera solo coreografia. Ci trovavamo invece testimoni distratti di tutta una cultura millennaria aleggiante, preziosa sulle note di quei cantici quasi che fossero striduli al non indigeno di questa immensa ‘terra di sotto’, come dicono gli inglesi, per poi confondersi con le stonanti note dei Merry Christmas e Bianco Natale eseguiti lontani dal loro naturale contesto a 38 gradi centigradi.
Suoni striduli, dicevo. Suoni ispirati dalle immense praterie di terra rossa e ruvidi cespugli, terra di fascino selvaggio e di violenti contrasti, dove il canguro e la serpe velenosa, il coccodrillo e l'emu socializzano e convivono in una simbiosi naturale e nel reciproco rispetto. Flash di vita primitiva che fanno vivere la storia inviolata di questa civiltà millennaria patrimonio indelebile di un popolo geloso della propria individualità e della propria cultura trasmessa a beneficio dei posteri.
Tramite queste ‘Nenie tribali’ dal fascino profondo e misterioso ci viene dato di conoscere e apprezzare il popolo di cui siamo ‘ospiti’ loro malgrado.
Cosa c'è nella tua solitudine, amico mio? Sappi che il vuoto è privilegio della morte, mentre la solitudine è popolata di fantasmi che non hai potere di arrestare nella loro costante peregrinazione e fuga verso l'ignoto. I fantasmi sono per chi ha ancora il carico della vita ed è perfettamente inutile cacciarli: questi restano.
E se i tuoi occhi sono rossi e carichi dalle lacrime di un destino avverso, sappi, amico mio, che i problemi non hanno frontiere perché non hanno colore. Hanno radici profonde, pasciute nel cuore di chi la sorte lo rese sensibile; e i cuori dei neri della ‘terra di sotto’ hanno il solito colore del mio.
In quella routine di sempre si affrontavano le solite battaglie della vita , e i fatti e le circostanze di quella vita pionieristica e selvaggia di emigranti esuli si succedevano a ritmo costante, a volte con aspetti tragici. Eravamo uggiati della vita primitiva da vivere ogni giorno. Volevamo affermare che la vita doveva essere differente da quella a cui eravamo destinati; non avevamo alcun interesse a che somigliasse a quella di Ulisse. Ogni eventualità di vita fuori da quei temi cadenzati e perenni veniva accettata per affermare che “essa” è anche divertimento e sensi. Tentavamo in una risata di risolvere l’incertezza, camuffare una delusione. Volevamo non più saperne di sacrifici. Il deserto devastatore degli spiriti e della dignità umana è orrendo per cui maledetto.
Era la fine del mese d’ aprile. Il tempo divenuto più mite dalla fornace estiva conciliava con la vita all’aperto e quindi spesso ci trattenevamo, sotto le stelle, con fisarmoniche e chitarre e organini a bocca fino alle ore piccole. In una di quelle sere su di un terrazzino di legno si festeggiava le nozze d’argento dei Baldini! Con travi e palanche della ferrovia, quel terrazzino fu eretto a ridosso alla casa, dove pendevano salsicciotti e salamini piccanti fasciati di pampini.
Accanto alla coppia dei festeggiati non disdegnava mostrarsi il vecchio e rubicondo prete cattolico con tutta la sua autorità e con le maniche della tunica leggermente rimboccate a scoprire i grossi polsi villosi, quasi scimmieschi. Attento e smanioso, controllava tutto con il suo sguardo disarmante, quasi accusatore, pronto ad intervenire ad ogni circostanza non perfettamente allineata alla sua forma tradizionalistica e conservatrice di concepire l’esistenza.
Anche il prete anglicano, smilzo come un giunco, con il mento sproporzionato rivolto verso l’alto quasi a toccargli il naso adunco, piedi piatti e, leggermente ricurvo, fece capolino sotto quel palchetto, ma vista la presenza del “diavolo nero” come lo chiamava lui, preferì girare alla larga anche se alcuni si affrettarono ad invitarlo.
Disse che il Diavolo mal s’associa con l’acqua santa! In realtà dovevamo ancora stabilire chi dei due fosse il Diavolo e chi l’acqua santa. Per noi, quei due ecclesiastici, erano il “Don Camillo e Peppone” dell’emisfero Sud; si contendevano i “fedeli” dai rispettivi pulpiti e con il suonare più forte le campane, rasentando spesso la farsa e il ridicolo.
Il giorno che Don Cesare Amilcare benedisse, con l’aspersorio, un tratto di binario appena costruito, venne un’acquazzone da far straripare il piccolo ruscello quasi eternamente secco che attraversava quella zona. Fu guerra fra i due gruppi religiosi capeggiati dai rispettivi pastori. Mentre don Cesare, dal pulpito della sua Cappella, sosteneva d’aver indotto il cielo a creare un po’ di refrigerio, il suo contenditore vedeva in quell’alluvione la volontà del Signore di un radicale lavaggio a ciò che il suo antagonista clericale aveva inquinato!
Barili di birra e buon vino delle loggie tedesche torreggiavano su quei rustici tavoli approntati per l’occasione tutti in circolo attorno al gran falò di legna e arbusti dal forte aroma. Furono festeggiamenti spontanei con musichetta improvvisata e con scenette buffe da sbellicarsi dalle risa. Era gaiezza fatta di nulla, partorita dalla volontà di chiudere un capitolo di vita fatta di noia per aprirne un’altro nel quale veniva espressa la vita semplice e calma da tempo perduta.
La presenza del vecchio prete cattolico di antica tradizione, non avrebbe mai permesso balli di coppia, come in casa della Milena il sabato sera: avrebbe gridato allo scandalo e lanciato anatemi dal pulpito della sua parrocchietta mezza sgangherata e semidistrutta dall’abbandono. Sotto quel palchetto, ballavano, quindi, i ferraioli e i cannaioli, i vignaioli e i contadini, mentre le donne, in malinconica attesa, restavano a guardare. Quando la notte divenne profonda e la ‘Southern Cross’ giganteggiava più splendente che mai in quella oscura calotta australe, don Cesare incrociò le braccia pelose su quel rustico tavolo e vi appoggiò quel suo enorme testone dando inizio ad un cadenzato russare.
L’alcool allungò la sua… malefica influenza, conciliando cori e nenie; alcuni si abbandonarono allo sconforto, altri ci risero su, per fugare ogni ricordo di un tempo perduto in quella ‘Terra rossa di cardi e di canguri’.
Esperienze naif, senza pretese, dalle quali si traevano vantaggi per non cedere all’abbandono più completo.
Altre esperienze ci forgiavano alla lotta per riuscire a sopravvivere e raccontarle poi con spavalderia, perché potevamo portare la nostra testimonianza, essere stati valsi a qualche cosa se non altro.
Gary, un giovane mandriano di origine irlandese secco come una fune, rosso di capelli e con innumerevoli tatuaggi sulle braccia e sul torace, stava radunando il bestiame sul far della sera vicino al pozzo artesiano per abbeverarlo. Il suo cavallo s’impennò di botto perché fra le sue zampe attraversava un mulga o meglio conosciuto come il famigerato King Brown (serpente velenosissimo australiano) attivissimo specialmente di notte nel far visite indesiderate nelle tane dei conigli selvatici.
Forse l'Australia detiene il primato per quanto concernono le innumerevoli qualità di serpenti e la loro velenosità. Si dice che i loro morsi siano letali in un breve arco di tempo, per cui, gli aborigeni, hanno sviluppato tecniche particolari per mantenerli distanti se non quando li cacciano per mangiarseli.
Il giovane fu scaraventato a malo modo per terra e trascinato per alcuni metri dal cavallo imbizzarrito riportando gravi lesioni e fratture multiple su tutto il corpo.
Era un bravo ragazzo conosciuto da tutti per il suo tartagliare e per l'approvvigionamento, quasi gratuito, di conigli selvatici. Lo faceva quasi per hobby! Fu lui che un giorno di terribile caldo, estrasse dalla bisaccia legata alla sella del suo cavallo, una manciata di pietre di forma irregolare ma ognuna con una iridescenza differente, spettacolare e quasi illimitata.
Sul primo credetti alla stravaganza di quel monello semplice e bonaccione alla ricerca di una …fresca ricompenza, poi, in seguito, seppi della preziosità di quelle pietre di “opale” di cui non sapevo nemmeno l'esistenza.
Dopo tanti anni mi sono sempre chiesto come avesse fatto a procurarsi quegli opali...! Mah! Chissà da quale prodotto di scambio venivano...
Sono lieto, almeno, di avergli dato per l'occasione, due bottigliette di birra fredda. A lui bastava poco, era sufficiente un sorriso per farlo andare in “paradiso”. Quando lo raccolsero sembrava già morto. Non dava segni di vita. Solo alle prime cure si riebbe e divenne evidente, a noi soccorritori, la gravità del suo stato. Lentamente, su un calesse trasformato in lettiga, il povero ragazzo gravemente ferito fu portato al Postal Office, dove l'Ufficiale postale, quel caro vecchietto ai limiti della pensione, fungeva, come ho detto precedentemente, anche da "dottore".
Era espertissimo di veleni, decotti, suture e soprattutto infondeva coraggio e persuasione. Odiava il fumo ma era continuamente con la cicca di tabacco da masticare in bocca. Tutto quello che sapeva l'aveva imparato assistendo a una serie di conferenze e applicazioni pratiche di “pronto soccorso” prima di assumere l'incarico postale. Snobbava i miei studi classici liceali per corrispondenza per un ‘giornalismo Free Lance’ per indurmi a iscrivermi a un corso di ‘medicina’ ritenuto più consono alle mie precarie condizioni di vita di quel tempo.
Ero felice, insieme con la Tania, collaborare con lui come ormai facevo dal giorno in cui giunsi in quel posto sperduto dimenticato da Dio e dagli uomini. Il medico più vicino si trovava a diverse centinaia di chilometri. L' affabile vecchietto trasmise per via radio un messaggio urgente solo per scoprire che il medico era impegnato da un'altra chiamata e poteva non essere di ritorno per diversi giorni ancora.
Responsabilizzato dalla precarietà delle condizioni di quel giovane infortunato, fra sputacchiate di tabacco e imprecazioni varie, telefonò al medico che gli aveva dato lezioni di pronto soccorso a Brisbane.
Dall'altro capo il medico gli diede istruzioni punto per punto. Con grande trepidazione l'Ufficiale postale operò alla bene e meglio il mandriano ferito che aveva una gamba spezzata e da cui, una grossa arteria, fuoriusciva molto sangue. Servendosi di un coltello affilato , di un rasoio e sotto il raggio di luce di un lume a carburo, sostenuto e opportunamente e da me indirizzato sul punto da operare, produsse il suo capolavoro. In quella circostanza apprezzai maggiormente le pedalate di allora, del povero Gregory, quelle alla ruota della dinamo ora tristemente ferma.
Passarono ore di trepida attesa. Temevamo per la vita di quel povero ragazzo irlandese. Era quasi dissanguato. Dal suo volto scarno traspariva una grande volontà di vivere. I suoi occhioni celesti reclamavano sicurezza e comprensione. "Mother...mother, please come here please...", ripeteva a intermittenza nel delirio e con la voce stanca e straziata.
La ferita mostrava un principio d’infezione. Avevamo fatto bollire per oltre venti minuti il coltello affilato e il rasoio. Ci domandavamo cosa avessimo trascurato per via di quel rossore tutto attorno alla ferita saturata alla bene e meglio che ora faceva presagire il peggio. Quando gli si accostava la Ebony per consolarlo o anche per detergergli il sudore, con quella sua manina delicata e attenta, allora faceva il ‘duro’. Seppi, in seguito che anche lui aveva una cotta terribile per la ragazza; anche a lei, con scopi certamente diversi, aveva offerto degli opali grossi come noci. Infine, ce la fece con un sospiro di sollievo per tutti noi. Questa volta l’aereo dei soccorsi era stato pilotato da un giovane. Era anch’egli un ragazzone scherzoso, per cui allacciammo una amicizia a suon di berzellette . In realtà le sue avevano English humour e, per accattivarmelo, facevo finta di trovarle spiritose. Ridevo quando lui rideva di gusto, ma in effetti mi lasciavano completamente indifferente. Forse anche lui avrà fatto altrettanto con me. Eravamo giovani e per noi tutto era un gioco. In comune avevamo la passione per la filatelia e per le belle ragazze. Ci scambiammo innumerevoli doppioni, solo i francobolli, s’intende! Gradiva, specialmente quelli con l’effigie di Vittorio Emanuele III Re d’Italia e Imperatore d’Etiopa della mia collezione iniziata in Italia.
“Mi hai fatto ricco,,,” - mi diceva festoso - qui in Australia di …questi non se ne vedono in giro”.
Trascorremmo tutta la notte a ridere e a scherzare per cose futili, forse anche poco spiritose, se non anche di poco gusto.
Il giovane irlandese ferito, da parte sua, logicamente, non aveva alcuna voglia di scherzare: aveva altri problemi più urgenti. Beata incoscienza di quell’età. Ci addormentammo appoggiati sulle sponde ai piedi di quel lettino dove Gary, qualche ora prima in quella notte, aveva preso sonno per un’iniezione praticatagli dal medico volante.
Il povero infortunato dovette abbandonarci per potersi meglio ristabilire altrove, lontano dalla precarietà dei nostri mezzi quasi primitivi di assistenza sanitaria.
Thomas, il giovane pilota, dal suo finestrino di pilotaggio incrociò le dita e mi salutò con un “Good Bye, my friend… and thank you for everything”.
Passarono mesi, ed infine sapemmo del felice risultato di quel primitivo soccorso . Fummo felici di ricevere alcune sue cartoline da Sydney. Per lungo tempo furono tenute in bella mostra vicino al telegrafo dell'Ufficio postale, quasi che fossero degli attestati di benemerenza per quell'equipe medica improvvisata in avanguardia selvaggia.
Oltre a queste difficoltà, alcuni emigranti avevano problemi di natura psicologica. Molti avevano dovuto fare notevoli cambiamenti nella loro vita per non soccombere nei travagli dell'adattamento con culture diverse, clima diverso e amici diversi. Quanta nostalgia era nei loro canti! Predominava, quasi sempre, l'emozione e il pianto.
È stata una lotta per la vita che ha dato innumerevoli frutti di esperienza e di saggezza specialmente nel convivere con persone d'altre razze, cultura e nazionalità. Gli emigrati hanno dato un grande contributo al modo di vivere in Australia. Fino a qualche anno fa, prima del mio rientro in Italia, la dieta nazionale, per esempio era di fish & chips, uova e pancetta, prosciutto affumicato, bistecca e uova che l’odore di questi, specialmente di buon mattino in quelle lande desolate per noi europei, era stomachevole. Dopo le sei p.m. (le 18.00) non vi era più accenno di vita sociale. Una delle prime impressioni che un emigrato si formava era che l’australiano stava ancora alla ricerca di una propria identità. Qualsiasi cosa facesse, diventava una sfida personale. Nel suo lavoro doveva essere il migliore; snobbava la nostra cultura e cercava di prevalere su tutti. Il tempo della convivenza e l'esperienza fra culture diverse ha prodotti risvolti positivi. L’Australia, oggi, può vantarsi d’essere una Nazione all’avanguardia della pacifica convivenza del multiculturalismo etnico.
A volte le realtà sconvolgono i sogni fantasiosi di chi nutre paure e speranze. In quell' accavallarsi di sentimenti senza esperienza, lo spirito reagiva, ma a volte si adagiava alla rassegnazione.
É il tempo, che in fretta correndo, sta mutando ogni cosa. Sogno ora, ormai lontano da quelle prime esperienze di vita, le rondini della mia primavera tirrenica; le rondini dal volo veloce e dall’intenso e gioioso carrire come ad annunciare i nuovi germogli di vita al nuovo sole.
Ma la mia rondine non appare ancora sotto il mio tetto e la malinconia nei giorni del tramonto diviene sempre più grave! Dove sei ora, mia piccola rondine? Ho bisogno della tua presenza per marcare un mio bisogno spirituale che si rinnova con te, con il tuo ritorno e il tuo festoso garrire. Con te i miei pensieri si riallacciano al tempo dei fiori odorosi delle siepi mediterranee quelle che nascono selvagge, quasi per gioco, e che al tramonto sembrano scuotersi dal torpore del caldo giorno di una primavera incipiente emanando il soave profumo della giovinezza. L'inverno è triste, specialmente al crepuscolo della vita!
Torna, rondinella mia, e portami fra le tue ali la mia antica primavera. Ma a Melbourne le rondini non fanno mai primavera!
La disperazione di ciò che ho anticamente perduto mi fa costruire, se non altro con la fantasia, gli aspetti più cari, le cose con cui identifico un qualcosa che mi è intimo e m’appartiene, con cui nulla possa interferire.
Ecco rivivo il mio tetto con l'antico nido caldo e pieno di vita. La realtà mi sovrasta. Il risveglio è crudele. Guardo il mio tetto : non esiste più! Anch’esso si è perduto fra lo stupore di chi ha atteso il rinnovarsi fantastico del tempo!
“ Più che invecchio più mi si fa crosta sulla pelle la verità che la vita fugge, implacabile come il giro del sole in un giorno. Le memorie tendono disperatamente con la forza che abbiamo noi uomini di ostacolare la divina forza del tempo”
- (Mario Tobino)
Vanità? Certo! È solo vanità. Le cose di valore che derivano dalla vanità sono destinate a diminuire fino ad estinguersi, ma il desiderio dell’eterna giovinezza rimane in noi perché è insito in un nostro corredo genetico per cui l’eternità del tempo ci appartiene perché appartiene a Dio.
Il carrozzone della vita, con le sue maschere grottesche, stenta la sua progressione negli impervi sentieri stabiliti da un incerto destino di un figurativo deserto rosso di cardi e canguri.
Lento e cigolante carico di uomini quali ultimi nomadi di questo asteroide pazzo, scivola e lentamente scompare a volte affrettatamente, laggiù, nell’immenso infinito azzurro, come la consueta goccia di pioggia su gli appannati vetri d'autunno nell’uggioso clima di Melbourne.
La mia goccia m’appare; ora so che è lei: è quella che mi appartiene, e la vedo ansiosa e incerta di adagiarsi perenne nei siti più bassi, in un posto di sotto, che ha poi il sapore della morte o, fra le radici avide di una nuova vita che si rinnova felice, al caldo sole di primavera.

Umberto POLIZZI



Per contatti: roberto.carson@tiscali.it
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