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GESÙ CRISTO È LO STESSO DALLA GENESI ALL’APOCALISSE

Ultimo Aggiornamento: 14/11/2009 09:39
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Riflessioni basate sulla convinzione di una continuità di fondo in tutta la Bibbia fra i modi di esprimere la fede

Studio di Fernando De Angelis

INTRODUZIONE AD UNA RACCOLTA IN COSTRUZIONE

Dopo un’esperienza di conversione, ho frequentato le lezioni bibliche che Alfredo Terino faceva in casa sua ai giovani di Perugia. Studiando l’Epistola ai Romani (cap. 4), fu chiaro che Dio aveva salvato sempre per grazia e mediante la fede: cioè non solo nel contesto del Nuovo Testamento, ma anche prima della legge di Mosè (Abramo) e dopo la medesima (Davide). Quella pagina bianca posta di solito fra Malachia e Matteo mi sembrò allora (quasi quarant’anni fa) un’indebita aggiunta ed un inganno, perché divide la Parola di Dio in due settori separati, quando non contrapposti.
Nell’ultimo quindicennio ho avuto relazione con persone di varia collocazione geografica e teologica, che mi hanno stimolato ad impegnarmi soprattutto sul creazionismo e su una visione biblica della cultura. Nel gennaio di quest’anno (2008) sono stato però nuovamente invitato a far parte di una Chiesa locale (Siena, via Pian d’Ovile) e l’insegnamento in una Chiesa locale mi ha stimolato a riprendere quella riflessione sulla Scrittura che mi è più gradita di quella culturale. È così successo che il 6 maggio scorso, collegando pensieri vari di per sé semplici, mi si è prodotta nella mente una luce che sta rinnovando tutta la mia visione biblica e che ho sintetizzata nello scritto Giobbe e la fede prima di Mosè.
Per lungo tempo la mia riflessione biblica è stata influenzata dall’aver strappato quella pagina bianca alla quale ho accennato; ci sono però molte altre discontinuità di sostanza che arbitrariamente vengono immaginate e collocate fra la Genesi e l’Apocalisse, mentre altre discontinuità di forma vengono sostanzialmente nascoste. La rivisitazione del libro di Giobbe, allora, ha come riunito le varie considerazioni via via accumulatesi, facendomi vedere una spiritualità universale che permea tutta la Bibbia (Vangeli compresi) e che inquadra le molte discontinuità formali all’interno di una natura di Dio che rimane costante e di fronte alla quale c’è in fondo sempre un solo modo di porsi.
Qualcuno vede la nascita di Gesù come un punto di partenza che si proietta in avanti senza fine, ma senza una vera continuità col passato, cioè separando sostanzialmente Gesù da colui che esisteva in precedenza e che si è incarnato (alcuni lo indicano come Logos, o Figlio di Dio, o Cristo). È una tesi che bisogna prendere in considerazione perché è diffusa anche fra certi studiosi, ma è chiaramente smentita dal Nuovo Testamento e di fatto trasforma l’incarnazione in una reincarnazione, nella quale la nuova persona non ha vera memoria di ciò che era in precedenza. Si potrebbero portare molti passi del Nuovo Testamento a sostegno di una continuità fra Gesù e Colui che si è incarnato (e che indicheremo come Figlio), ma dovrebbero essere sufficienti i rapidi cenni che ne diamo.
È vero che Giovanni colloca il Logos «nel principio» (1:2) e lo descrive come il mezzo attraverso il quale «ogni cosa è stata fatta» (1:3), ma poi chiarisce che proprio il Logos «è diventato carne e ha abitato per un tempo fra di noi» (Gv 1:14). Sempre nel Vangelo di Giovanni c’è poi un’affermazione di Gesù inequivocabile, quando dice ai Giudei: «Prima che Abramo fosse nato, io sono» (8:58). Con quel pronome «io» Gesù indica chiaramente ciò che era in quel momento e lo collega col suo essere al di fuori del tempo, applicandosi addirittura quell’esclusivo «Io sono» che Dio riferì a se stesso parlando con Mosè (Esodo 3:14).
Come si fa a leggere Colossesi 1:13-20 distinguendo un Figlio prima dell’incarnazione e un Gesù posteriore all’incarnazione? Infatti è scritto che il Figlio «è l’immagine del Dio invisibile» … «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» … «sussistono in lui. Egli è il capo del corpo, cioè della chiesa» … «al Padre piacque di far abitare il lui tutta la pienezza e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce». Nell’incarnazione si è conservata «tutta la pienezza» (vedere anche 2:9), perché è stata abbandonata la forma di Dio, non la sostanza (Filippesi 2:5-7); quel Figlio per mezzo del quale sono state create tutte le cose è lo stesso che ha versato il suo sangue per riconciliare tutte le cose col Padre. Insomma, per l’apostolo Paolo c’è un’indubbia continuità e identità fra lo strumento della creazione di Dio e colui che ha versato il sangue sulla croce!
C’è sempre stata una totale sintonia fra il Figlio ed il Padre (Giovanni 8:28-29; 10:30; 14:8-11) e Gesù aveva piena coscienza di ciò che era prima dell’incarnazione (Gv 17:5,24), perciò fin da Genesi 1:1 tutto è orientato anche dal Figlio e prepara la venuta del Figlio, che è stata preordinata «prima della creazione del mondo» (1Pt 1:20), anche se poi è stata preparata lentamente fino a manifestarsi nella «pienezza del tempo» (Gal 4:4; Ef 1:10).
Dove in Ebrei è scritto che «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno» (13:8) è inutile cavillare sull’esegesi di quel «ieri», che potrebbe anche riferirsi al tempo del Vangelo, ma che poi l’intero contesto del Nuovo Testamento rende lecito estenderlo fino a farlo partire almeno da Genesi 1:1; come d'altronde fa la stessa Epistola agli Ebrei precisando subito che Dio ha creato i mondi per mezzo del Figlio (1:1-3). Così com’è inutile cavillare su 1Corinzi 10:4 dove viene detto che la roccia alla quale gli Israeliti bevvero nel deserto «era Cristo», cercando di non vedere la presenza anche di Gesù Cristo nell’Esodo: perché come Gesù risorto non ha cancellato la sua incarnazione e crocifissione (conservandone le ferite, Gv 20:19-27; Ap 5:6), così l’incarnazione non ha cancellato ciò che Gesù era prima, infatti colui «che fu morto e tornò in vita» è «il primo e l’ultimo» (Ap 2:8): ciò rende impossibile che nel mezzo ci sia una discontinuità di persona.
Il filo conduttore dell’Antico Testamento è quella presenza di Gesù che ai due discepoli sulla via di Emmaus era ancora poco chiara (Luca 24:13ss): piuttosto che cercare i contrasti fra Antico e Nuovo Testamento, vogliamo perciò cogliere nell’Antico Testamento le sintonie lì presenti col Nuovo (e viceversa). Perché tutti sappiamo, ma poi è facile dimenticarlo, che nel Nuovo Testamento c’è lo stesso Dio dell’Antico Testamento, il quale non ha certo bisogno di cambiare strada, perciò è inutile cercare contrasti, dove invece vanno colti quegli sviluppi che portano coerentemente a compimento un piano non improvvisato via via a seconda degli eventi, ma concepito fin dall’inizio e portato avanti con costanza, fino al compimento dei nuovi cieli e della nuova Terra (Ap 21), e oltre.



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PRIMA PARTE
MISCELLANEA


CAP. 1
DALLE CHIESE GIUDEO-CRISTIANE ANTICHE
A QUELLE ODIERNE


Sintesi: Gesù ha operato all’interno dell’ebraismo e le chiese del Nuovo Testamento — sia quelle di lingua ebraica che quelle di lingua greca — sono state fondate in genere da ebrei. Su tutte, comunque, veniva esercitata una funzione di guida chiaramente ebraica (apostoli, chiesa di Gerusalemme). La distruzione del Tempio e la dispersione degli ebrei hanno poi fatto prevalere l’elemento culturale greco e quello politico romano, introducendo nelle chiese distorsioni e stravolgimenti. Il ritorno degli ebrei in Terra Santa, con il loro essere di nuovo in possesso di Gerusalemme, ci sembra che indichi come il «tempo dei Gentili» (Lc 21,24) stia ormai per essere superato. In ogni modo, il riemergere di chiese di lingua ebraica o costituite prevalentemente da ebrei ci costringe a riscoprire le radici ebraiche del cristianesimo.



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1. La preminenza degli ebrei nel Nuovo Testamento

Le prime chiese nacquero in Giudea, furono fondate sotto il diretto influsso degli apostoli ed erano esclusivamente «giudeo-cristiane»; le loro caratteristiche sono riportate nel Nuovo Testamento, all’inizio del libro degli Atti. La caratteristica che qui mettiamo in primo piano è lo stretto collegamento di queste chiese con l’ambiente ebraico, anche di quelle esentate dall’osservanza della Legge di Mosè (At 15). Anche le chiese composte da Gentili, infatti, erano state per lo più fondate da ebrei. In ogni caso, tutti gli apostoli erano ebrei e, almeno nei primi tempi, erano le chiese d’estrazione ebraica (quella di Gerusalemme in particolare) a svolgere una funzione di guida.
Le cose cominciarono a cambiare nell’anno 70, con la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, episodi che sconvolsero anche gli ebrei divenuti cristiani. Il colpo finale, però, avvenne circa 65 anni dopo (intorno al 135), quando i Romani repressero un’ulteriore rivolta ebraica (guidata dal supposto Messia Bar Kochba), con la cacciata degli ebrei da Gerusalemme e dall’intera Giudea. Non essendoci più territori a prevalenza ebraica, finirono per sparire anche le chiese con quel tipo di preminenza. Insomma, dalla situazione descritta all’inizio del Nuovo Testamento, si è poi passati a una condizione diversa, perciò già le chiese posteriori al 200 si discostano dal Nuovo Testamento.



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2. La successiva preminenza dell’elemento greco

Le chiese di lingua greca, che già erano arrivate a essere una larga maggioranza, erano guidate chiaramente fin dall’inizio da gente locale (At 14,23); se all’inizio i contatti verso il cristianesimo giudaico erano frequenti (cfr. At 15,22s), questo aspetto andò sempre più ad affievolirsi, quando morì la generazione dei missionari giudaici e il cristianesimo giudaico diventò minoritario. Verso il 200 poi le chiese di lingua ebraica erano divenute del tutto irrilevanti. Successe allora che al contesto ebraico del Vangelo si sostituì un contesto culturale derivato dalla filosofia greca, un’operazione facilitata dal fatto che il Nuovo Testamento era scritto in greco e già da tempo circolava la famosa traduzione greca dell’Antico Testamento (avviata due secoli prima di Cristo). Questa diversità di contesto fece sempre più sbiadire l’ebraicità di Gesù, che così finì per non essere più realmente visto come un «Figlio di Davide nato a Betlemme», ma lo si cominciò a vedere per lo più come «Salvatore e cittadino del mondo».
Dalla concretezza unitaria ebraica, allora, si passò sempre più ai dualismi greci, con la contrapposizione anima-corpo, cielo-terra, spirito-materia: deformazioni largamente presenti e sostanzialmente inestirpabili in tutta la cristianità posteriore.
Gesù cominciò a non essere visto più in continuità con l’Antico Testamento, ma in contrapposizione con esso (dualismo Antico - Nuovo Testamento), iniziò così a consolidarsi la millenaria tendenza a cercare i possibili contrasti fra prima e dopo Cristo, fra Mosè e Gesù, fra la Legge e la grazia, fra il corpo e lo spirito, per citarne solo alcuni. La proibizione delle immagini, codificata perfino nei dieci comandamenti, venne ritenuta superata. Con la qualifica d’ebrei vennero sempre più indicati non Cristo e coloro che avevano fatto nascere il cristianesimo, bensì coloro che avevano crocifisso Gesù (sottacendo che la massima responsabilità giuridica fu di Pilato, rappresentante di Roma). Ancora oggi, a livello popolare, quando s’ascolta che Gesù e gli apostoli erano ebrei, si rimane increduli! Chi invece è più informato ormai ne ha preso atto, salvo che poi si limita in genere a riconoscere che Gesù era ebreo, rifiutando sostanzialmente che lo sia ancora (come se Gesù si fosse convertito abbandonando l’ebraismo).
È allora evidente che dopo il 200, pur mantenendosi certi principi base del cristianesimo, si vennero a costituire delle chiese con una sensibilità diversa da quella degli apostoli, che s’espresse anche in teologie nuove. Agli ideatori di questa nuova realtà venne dato il nome di «Padri della Chiesa», nome che si può ritenere corretto solo se s’aggiunge una precisazione, indicandoli cioè come «Padri della Chiesa post-apostolica», altrimenti si dà l’impressione che la Chiesa cominci con loro e non con gli apostoli.
I greci, si sa, hanno sempre avuto difficoltà ad aggregarsi e così, parallelamente, anche le chiese di lingua greca rimasero abbastanza indipendenti le une dalle altre.




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3. Le chiese di lingua latina

Quando Paolo scrisse la famosa Lettera ai Romani, usò la lingua greca, perché nelle chiese cristiane di Roma prevalevano le persone provenienti dall’Oriente e perciò di lingua greca. Presto si convertirono sempre più anche quelli di lingua latina i quali, in Occidente, divennero la maggioranza, apportando nella Chiesa la loro cultura. La cristianità romana acquistò improvvisamente grande forza con l’editto di Costantino (313), col quale il cristianesimo venne sempre più a definirsi come «religione di Stato» e l’Occidente cominciò a crescere come centro decisionale parallelo all’Oriente. Alla cornice culturale greca venne aggiunta la tipica struttura di governo imperiale: il titolo di Sommo Pontefice, non a caso, era in precedenza un titolo spettante all’imperatore. La Chiesa si trasformò da «sinagogale» (insieme di persone) a «territoriale» (il vescovo intendeva esercitare la sua autorità su tutto un suo territorio definito) e così l’adesione alla Chiesa non fu più libera, ma divenne obbligatoria, con l’imposizione del credo cristiano e del battesimo anche ai neonati (pedobattismo). L’organizzazione si gerarchizzò sempre più, fino ad arrivare al dogma dell’infallibilità papale (1870).
Le rivolte ebraiche contro Roma, con le impegnative e prolungate guerre che ci furono (nel 70 e nel 135), accentuarono i sentimenti antiebraici dei Romani e così Gesù divenne ancor meno «Figlio di Davide». Arrivando a dipingere Gesù (un ebreo che rifiutava le immagini) come biondo e con gli occhi azzurri (caratteristiche a dir poco inusuali fra i nativi del Medio Oriente). L’odio antiebraico è cresciuto fino a promuovere delle adunate di popolo pronte al massacro e ciò in quasi tutta la cristianità (dall’Oriente russo all’Occidente spagnolo). Fino a negare per gli ebrei (nella Germania di Hitler) finanche la validità d’una loro eventuale conversione a Gesù, anche se già formalizzata col battesimo!



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4. Il riemergere dell’elemento ebraico (chiese giudeo-cristiane odierne)

Lutero e Calvino dichiararono di voler tornare alla Scrittura ma, nel loro percorso verso le origini della Chiesa, si fermarono risolutamente a dopo Costantino, mantenendo il battesimo dei neonati e la struttura territoriale della Chiesa. Gli anabattisti volevano invece ritornare a una Chiesa «sinagogale» separata dallo Stato e alla quale s’aderiva per libera decisione personale: Lutero e Calvino, non avendo validi argomenti estraibili dal Nuovo Testamento, per contrastare gli anabattisti decisero d’usare la spada dei loro protettori. La tendenza espressa dal variegato mondo anabattista riemergerà poi nei battisti, che hanno trovato fertile terreno negli Stati Uniti, nazione formatasi sotto il loro prevalente impulso (pluralità delle religioni e loro separazione dallo Stato). Proprio da questo tipo di chiese è sorto un atteggiamento nuovo verso il popolo d’Israele, con una nuova sottolineatura dell’ebraicità di Gesù.
A ciò si è aggiunto un fatto molto significativo: il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa, con la costituzione d’un loro Stato (1948) e con la successiva presa di possesso di Gerusalemme (1967). Il rinascere della lingua ebraica e d’un territorio ebraico ha consolidato e dato incremento alla rinascita di chiese a prevalenza ebraica, che riconoscono Gesù quale «Messia, Figlio di Davide».
Tutte le chiese cristiane fatte in prevalenza da Gentili, allora, sono di nuovo costrette a confrontarsi con le consorelle ebraiche e alcune situazioni assomigliano a quelle che illustriamo con una storiella.
Una giovane donna sposò un uomo più maturo e andò a stare nella casa del marito, che le diede alcuni figli e poi partì in guerra. Dopo un po’ il marito venne dichiarato disperso e tale ufficialmente rimase per diversi anni, dopo i quali però si ripresentò inaspettatamente a casa sua. In che situazione avrà trovato la moglie? Che reazione ha avuto rivedendo il marito? Nel caso di Penelope, essendo rimasta fedele, accolse con gioia il marito Ulisse. Se invece ha voluto credere che il marito fosse morto e ha accolto un altro uomo, farà di tutto per non far rientrare in casa colui che ne ha invece tutti i diritti.
Il Vangelo di Matteo comincia con la semplice frase «Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide», ma se ci si riflette coerentemente bisogna cacciar via dalla Chiesa le distorsioni greco-romane, per ripristinare quella radice ebraica del cristianesimo che è l’unica a essere legittima; chiaramente ciò deve avvenire in sintonia con le decisioni prese nel cosiddetto Concilio di Gerusalemme (At 15).
Per l’apostolo Pietro il Vangelo di Matteo costituiva l’inizio del Nuovo Testamento, mentre per Cornelio e per i suoi amici (At 10,24), cioè per coloro che non hanno un solido retroterra ebraico, il Vangelo di Matteo può essere compreso solo alla fine d’un percorso che deve necessariamente cominciare con un riassunto semplificato dell’Antico Testamento, contesto nel quale ha vissuto e operato Gesù. Ciò si può vedere facendo un confronto fra il messaggio rivolto da Pietro agli ebrei (At 2,22-40; 3,12-26) e quello nella casa di Cornelio (At 10,37-43), come pure confrontando la predicazione di Paolo nella sinagoga d’Antiochia di Pisidia (At 13,16-41) con quelle fatte in ambiente non ebraico, cioè a Listra (At 14,11-18) e all’Areopago (At 17,22-31). In ogni modo, i missionari giudei non imposero ai Gentili l’elemento culturale e devozionale giudaico, perché la cosa importante era la massima dottrina del nuovo patto: la persona e l’opera di Gesù Cristo, ossia l’Evangelo, rispetto al quale tutto diventava «contorno». Gli elementi principali della loro predicazione ai Gentili non erano l’ubbidienza alla legge e la circoncisione, ma la fede in Gesù e la rigenerazione mediante lo Spirito Santo (cfr. At 10,36ss.44ss; 11,15ss).



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5. Una predizione da meditare

«Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili, finché i tempi dei Gentili siano compiuti» (Lc 21,24). Questa profezia di Gesù mi sembra chiara, anche se so che per qualcuno non lo è. Il calpestamento di Gerusalemme da parte dei Gentili è facilmente collegabile, sia con la distruzione operata dai Romani nel 70, sia con la successiva espulsione da essa (circa 135) di tutti gli ebrei. Gesù usò il verbo «calpestare» perché nessuno cammina su Gerusalemme col il rispetto e il senso di sacralità di quei luoghi che hanno gli ebrei.
Gesù però annunciò anche che questo calpestamento sarebbe cessato e ciò quando i Gentili avrebbero esaurito il loro compito (che è quello di diffusori del Vangelo nel mondo). Gerusalemme sarebbe allora tornata in mano ebraica (come è successo nel 1967) e ciò sarebbe stato l’indice dell’avvio di un’era nuova (1).
Sono passati ormai quattro decenni dalla riconquista ebraica di Gerusalemme e qualcuno potrebbe dire che non è successo granché. Chi però ha seguito le vicende di quest’ultimo quarantennio, una piccola cosa l’ha notata: è il progressivo crescere, sulla scena mondiale, dell’importanza delle questioni collegate con Gerusalemme.
Dio comunque non ha la nostra fretta. Quando Gesù venne nel mondo, a Roma non ci fecero caso; e per prendere atto che aveva spaccato in due la Storia (prima e dopo Cristo) ci misero cinque secoli: eppure era tutto successo dentro i confini dell’impero! Abramo percorse la Terra Promessa con la convinzione che Dio gliene avesse fatto dono, ma morì dopo aver preso possesso solo d’un campo da usare come cimitero (Gen 23,17-20). Quelli del posto probabilmente avranno anche riso di quest’anziano visionario che pensava d’aver avuto da Dio tutto e invece era morto senza aver ottenuto niente. Quei popoli ci misero quattro secoli per accorgersi che, mentre loro continuavano a ridere, Dio continuava a far crescere il suo progetto in un appartato territorio dell’Egitto (Gen 15,12-21; 47,6; Es 12,41).
Le chiese messianiche (cioè fatte in prevalenza d’ebrei che credono nel Messia Gesù, Figlio di Davide) si sono da tempo formate e stanno rapidamente crescendo all’interno dello Stato d’Israele: un fatto che interpella tutti i cristiani del mondo. Gruppi d’ebrei messianici, però, sono nati anche in Italia e interpellano le chiese italiane in modo speciale. Certo la Storia non può tornare indietro e le chiese d’oggi non saranno mai come quelle del tempo degli apostoli. Come successe dopo Atti 15, però, possiamo di nuovo dare alle chiese quell’equilibrio e quella forza derivante dalla diversità delle due componenti (quell’ebraica e quella non ebraica) che, quando si coordinarono, ebbero una grande forza.

(1) Bisogna ammettere comunque che nessuno sa con precisione quando «i tempi dei Gentili saranno compiuti» né quando la «cattività fra tutte le genti» effettivamente finirà per l’intero popolo; il v. 25 parla del tempo della tribolazione. (Nota di Nicola Martella)



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CAP. 2
GIOBBE E LA FEDE PRIMA DI MOSÈ


1. INTRODUZIONE

Molte esposizioni teologiche sono fatte come un ponte e tracciano un percorso che poggia principalmente sui due capisaldi di Mosè e Cristo, visti per lo più in contrasto. Invece tutti i primi cristiani (fino a Cornelio, At 10) erano ebrei che non abbandonavano la Legge di Mosè, verso la quale continuavano ad essere zelanti (At 21:20-24) anche dopo che essa non era stata resa obbligatoria per i Gentili (At 15:22-29). Se si tiene conto di ciò, non poche pagine di teologia perdono senso. Anche le contrapposizioni di Gesù («Ma io vi dico…», Mt 5) vanno interpretate come contrasti con l’interpretazione farisaica: Gesù infatti non vuole abolire Mosè, quanto piuttosto interpretarlo correttamente e applicarlo nelle nuove circostanze.
L’apostolo Paolo fa notare che la Legge di Mosè va inquadrata all’interno del patto di Dio con Abramo e, così collocata, ha un significato diverso da quello che i Farisei volevano dargli. Abramo, pur essendo un uomo di fede, non può però essere definito come il “padre della fede”, perché prima di lui ci sono stati altri campioni della fede e, non a caso, il cap. 11 dell’epistola agli Ebrei gli fa precedere altri tre “campioni”: Abele, Enoc e Noè. Anche la vocazione di Abramo, perciò, va inquadrata nel più ampio contesto del rapporto di Dio con tutta l’umanità. È molto significativo, a questo proposito, che al tempo di Abramo esistesse un Melchisedec che, proprio sul piano spirituale, era superiore a lui, (Gen 14:17-20; Eb 7:1-10). L’apostolo Paolo non ignorava questo rapporto generale di Dio con tutta l’umanità e, prima di introdursi nel contesto ebraico, premette una significativa cornice generale riguardante tutti gli uomini (Rm 1:18 a 2:15).



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2. LA LEGGE DI MOSÈ PRIMA DI MOSÈ

Nella stessa Bibbia ci sono tracce di questa religiosità generale che precede Abramo e Mosè, perciò la rivelazione sul Sinai (Es 19ss) in parte recepisce, amplia e mette ordine su un nucleo che già esisteva. Elenchiamo ora telegraficamente quei passi biblici che precedono la Legge di Mosè e che hanno delle sintonie con quelle disposizioni.

Gen 1 ha al centro la separazione delle specie (cfr. Dt 22:9-11).
Gen 1:27-30; 2:15-23. Prima di dargli la Legge, Dio incontra Mosè (Es 19:3; 24:18). Anche con Adamo c’è un rivelarsi di Dio che comincia con l’incontro.
Gen 2:24. Istituzione del matrimonio (cfr. Lev 18).
Gen 3:21. Dio sacrifica degli animali per le pelli, con le quali rivestire la prima coppia, aiutandola così a superare il senso di peccato (cfr. Lev 4).
Gen 4:4. Abele sacrifica agnelli con il loro grasso (cfr. Lev 3:3).
Gen 6:7-8. Il mondo pre-diluviano poteva essere condannato solo per aver violato una forma di legge della quale erano consapevoli (cfr. Rm 4:15) e Noè trovò grazia perché evidentemente conosceva il modo di piacere a Dio.
Gen 7:1-2. Noè distingueva fra animali puri e impuri (cfr. Lev 11).
Gen 8:20. Noè sapeva offrire olocausti, cioè in sostanza sapeva compiere le funzioni tipiche dei sacerdoti (cfr. Lev 1).
Gen 9:6. È con Noè che comincia la pena di morte per gli assassini (cfr. Lev 24:17).
Gen 14:18-20. Melchisedec è sacerdote dello stesso Dio di Abramo (e perciò di Mosè).
Gen 14:20. Dare la decima al sacerdote è una prassi già di Abramo verso Melchisedec, che conosce anche Giacobbe (Gen 28:22). Cfr. Num 18:20-24.
Gen 15:16. Anche l’iniquità degli Amorei poteva essere tale solo rispetto ad una legge di Dio in qualche misura nota (cfr. Rm 4:15).
Gen 26:5. Abramo conosceva comandamenti, statuti e leggi di Dio (notare la forma plurale); a parte la circoncisione (Gen 17:10), non c’è però traccia di una legislazione datagli da Dio in modo specifico. Ciò spinge a pensare che si trattava per lo più di un complesso di norme che permeavano quella cultura e che venivano riconosciute come provenienti da Dio. Dalle genealogie si può vedere che Enoc aveva convissuto per tre secoli con tutti i prediluviani (essendo nato nel 622, mentre Adamo è morto nel 930) e un insegnamento, per passare da Adamo ad Abramo necessitava di solo due passaggi: Metusela, figlio di Enoc e nonno di Noè, nacque nel 687, mentre Noè è morto nel 2006, cioè 58 anni dopo la nascita di Abramo.
Gen 28:18. Giacobbe fa l’unzione con olio come atto di consacrazione (cfr. Es 37:29; Lev 8:10).
Gen 35:2. Giacobbe proibisce l’idolatria (cfr. Es 20:3) e ordina di purificarsi (cfr. Num 8:5).
Gen 35:14. Giacobbe offre una libazione (vino), pratica riportata anche in Num 15:5.
Gen 38:24. Pena di morte per chi si prostituiva (cfr. Dt 22:20).
Es 3:18; 8:26; 10:25-26. Mosè parla di sacrifici ed olocausti prima di partire dall’Egitto (cfr. Lev 1-9) ed è evidente che gli ascoltatori capissero di che parlava (erano abominevoli per gli egiziani perché per loro, per esempio, i bovini erano sacri).
Es 12:1-28. Rituale di Pasqua, col sangue dell’agnello che proteggeva le case dal giudizio di Dio. Evidentemente era qualcosa di comprensibile anche prima del Sinai (cfr. Lev 4:4-7).
Es 17:15. Mosè costruisce un altare prima del Sinai, mettendo in atto una pratica molto diffusa anche in Genesi (8:20; 12:7; 13:18; 22:9; 26:25; 33:20; 35:1-7).
Es 18:1-27. Sintonia spirituale di Mosè col suocero Ietro, che esercitava il sacerdozio fra i Madianiti (tribù discendente da Abramo e Chetura, un’altra moglie di Abramo, Gen 25:4): nonostante la presenza di Mosè e di Aronne, è Ietro che offre a Dio un olocausto e dei sacrifici. Già in Es 19:24-29 (cioè prima della loro formale istituzione) vengono poi citati dei sacerdoti ebrei. Il sacerdozio di Aronne e dei suoi figli, codificato solo in Es 29, non è perciò una novità assoluta.



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3. GIOBBE COME ESEMPIO DI “NOACHIDE”

La religione dell’umanità in generale, cioè al di fuori del popolo ebreo, viene fatta risalire a Noè e perciò detta noachide. Su di essa sembra che la Bibbia dica poco e così si cerca di ricostruirla in vari modi.
Argentino Quintavalle, a proposito della pena di morte, mi ha fra l’altro così scritto: «La pena di morte è uno dei sette comandamenti “noachidi”, che in pratica riguarda il comando di istituire dei tribunali, ed è “dovere” di tutta l’umanità. Le sette leggi di Noè sono i principi fondamentali sui quali si deve basare ogni società civile e ogni regola di convivenza che ciascun uomo deve assolutamente osservare. Si tratta di un argomento in genere poco conosciuto, ma in pratica costituisce una sorta di religione civile universale, valida anche per coloro che non hanno la Legge di Dio. Sono leggi che tutti i popoli devono seguire se vogliono considerarsi civili. Dio disse a Noè: “Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a immagine sua” (Gen 9:6). Nell’applicazione della legge noachide bisogna nominare dei giudici in ciascuna città. Si devono trattare le parti in causa imparzialmente di fronte alla legge […] Il giudice non deve accettare somme o doni da una delle parti in causa. Il giudice non deve favorire la parte in causa che sia povera, per compassione […] Nessuno deve farsi giustizia da sé, uccidendo l’esecutore di un delitto capitale. Non si faccia falsa testimonianza. Queste sono regole obbligatorie per tutti i popoli e tutte le nazioni, e la pena di morte vi è giustamente compresa».
Il rabbino livornese Elia Benamozegh (1823-1900) si è molto addentrato in questo tema e riporta il più antico elenco tratto da scritti rabbinici, ammettendo che altre fonti presentano delle variazioni: «Sette comandamenti sono stati imposti ai figli di Noè: il primo prescrive loro di istituire magistrati; gli altri proibiscono: 1) il sacrilegio; 2) il politeismo; 3) l’incesto; 4) l’omicidio; 5) il furto; 6) l’uso delle membra di un animale vivo» (Israele e l’umanità, Marietti, Genova, 1990, p. 222).
Insomma, una “religione di Noè” evidentemente esisteva, ma nel cercare di definirla si attinge soprattutto a fonti esterne alla Bibbia. La mia sorpresa è stata quella di essermi reso conto che la Bibbia stessa dice invece molto su quella religione e lo fa attraverso il libro di Giobbe. Certo non sono in grado di dimostrare inequivocabilmente che Giobbe vada collocato fra Noè e Mosè, ma ci sono alcune motivazioni che mi convincono a farlo: 1) nelle dispute riportate non si cita direttamente ciò che va dall’Esodo in poi; 2) si hanno invece ben presenti i primi capitoli della Genesi (il Dio di Giobbe è il Creatore del cielo e della Terra, che ha fatto l’uomo a sua immagine e col quale ci si può dunque rapportare); 3) Giobbe appare come un tipico patriarca, perciò si colloca bene il quel periodo; 4) i parallelismi con la Legge di Mosè sono ben inquadrabili all’interno della conoscenza universale vista nel paragrafo precedente; 5) a differenza della maggior parte della Bibbia, il libro di Giobbe non è esplicitamente inserito nella storia ebraica e non vi è indicato il periodo nel quale si è svolta la storia: ciò ne rafforza il carattere universale e fuori dal tempo; 6) anche i temi trattati e le argomentazioni portate riflettono orizzonti molto vasti, che rimandano a tempi molto antichi e ad una veduta universale; 7) la sua diversità rispetto agli altri libri della Bibbia si può ricavare anche da un tipo di ebraico molto specifico e di più difficile traduzione.
Che la storia di Giobbe si collochi in un’area di confine, rispetto al popolo d’Israele (come mi ha aiutato a comprendere Stefano Gotta), lo si può ricavare anche dai luoghi di provenienza suo e dei suoi tre amici: tutti verso il sud e l’est del Mar Morto e tutti abitati da popoli imparentati con Abramo. Giobbe era di Uz (Gb 1:1), che è il nome di un discendente di Edom, cioè Esaù (Gen 25:30; Lam 4:21). Dei tre amici (Gb 2:11), uno era di Teman (nome anche questa volta di un discendente di Esaù, Gen 36:1-42), un altro di Suac (nome di un figlio di Abramo e Chetura, cioè fratello del più noto Madian, Gen 25:2) e l’ultimo di Naama (città di Giuda ai confini con Moab, che è il nome di un figlio di Lot, a sua volta nipote di Abramo, Gen 12:5; 19:36-37; Giosuè 15:21,41).
Comunque sia, la spiritualità che emerge dalle parole di Giobbe riflette bene l’epoca patriarcale e può essere associata a quella di Melchisedec e di Abramo. Il libro di Giobbe è spesso tenuto nell’angolo e si ritiene “specializzato” sul tema della sofferenza, mentre è una vera miniera di informazioni su un modo di rapportarsi a Dio che interpella tutti gli uomini. Vedremo ora più in dettaglio questa spiritualità di Giobbe, ricavandola soprattutto dalle sue parole.



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4. LA SPIRITUALITÀ DI GIOBBE

1:1. «Temeva Dio e fuggiva il male». Non dice «Faceva il bene e fuggiva il male», perché ciò che ci fa essere graditi a Dio è la fede, cioè qualcosa che sta alla base del comportamento e che è in sintonia col timore di Dio. Di Noè, per esempio, vien detto che “trovò grazia” (Gen 6:8), non che meritasse in sé stesso la benevolenza di Dio.
1:5. Giobbe offriva olocausti come mezzo per il perdono dei peccati, era perciò sacerdote come Noè (Gen 8:20) ed aveva la tipica teologia biblica sul sacrificio espiatorio.
1:7. Satana compare e agisce secondo lo stile di Gen 3.
1:10. Vedere nella prosperità una benedizione di Dio percorre tutta la Bibbia e l’accento sul bestiame è tipico dell’epoca patriarcale (Abramo, Giacobbe).
1:21; 2:10; 12:13 a 13:2; 19:6-8. «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto», riflette la ferma convinzione di Giobbe sulla sovranità di Dio e sul fatto che nulla sfugge alla sua volontà; anche quando permette che operi il Diavolo, Dio resta il Signore dell’universo ed a lui spetta l’ultima parola; questi concetti, fortemente e ripetutamente ribaditi nel libro di Giobbe, sono ben evidenti anche nel resto della Bibbia.
2:3. Giobbe è un giusto che soffre ingiustamente e constata che «la terra è data in balìa dei malvagi» (9:24; 16:11): ciò evidentemente contrasta con la signoria di un Dio buono e perciò Giobbe ne rimane scandalizzato. Egli è preso da questa contraddizione (cfr. anche 21:7-21; 24:1-4; 24:22-23), ma il tema è ben presente ovunque nella Bibbia, a cominciare da Abele e per finire col prevalere temporaneo di Satana descritto nell’Apocalisse (capp. 12-13), passando per Davide che scrive “Perché mi hai abbandonato?” (Sal 22), parole riprese addirittura da Cristo (Mt 27:46). Seppure la sofferenza del giusto sia il tema prevalente del libro di Giobbe, emergono qua e là altre questioni tipiche della Bibbia (vedere sotto), perciò il libro risulta una specie di condensato.
6:10. «Non ho rinnegato le parole del Santo». Questa espressione fa riferimento ad una rivelazione di Dio che evidentemente era conosciuta, senza però che ci si riferisca ad uno specifico testo scritto.
6:15. «I fratelli miei si sono mostrati infidi» (cfr. anche 19:19). Il tema dell’abbandono da parte dei fratelli (di sangue o di fede) fa pensare a Giuseppe (Gen 37), a Davide (1 Sam 17:28; 23:1-12) a Gesù (Gv 7:5; Mr 14:50) ed a Paolo (2 Tim 4:16). Ancora una volta troviamo in Giobbe dei temi che percorrono tutta la Bibbia, cioè sia prima che dopo Mosè.
7:21. Giobbe è cosciente di essere un peccatore e che Dio può perdonare i peccati: quello che non accetta è di essersi comportato particolarmente male, cioè di essere più peccatore di altri.
9:9; 10:18; 12:10; 26:7-14; 28:25-26. Giobbe ribadisce continuamente che Dio è il diretto Creatore di tutto.
12:4. «Invocavo Dio e egli mi rispondeva». Dio era per Giobbe un amico, come per Abramo (Is 41:8); anche Gesù lo era per i suoi discepoli (Gv 15:15). La fede di Giobbe era basata su un rapporto personale e diretto con Dio, perciò non sopportava quello che gli appariva come un tradimento.
13:18; 19:25-27; 23:6; 27:6. Giobbe ha una certezza assoluta che Dio non può condannarlo: come potrebbe essere così sicuro, nel suo spirito, se non fosse per la presenza in lui dello Spirito di Dio? (Cfr. Rom 8:16).
23:11-12. Per Giobbe la fede era seguire le orme di Dio, la via di Dio, i comandamenti di Dio: un linguaggio del tutto affine a quello del Nuovo Testamento (1 Pt 2:21; Gv 14:6,15; Eb 10:20). Comandamenti che Giobbe aveva ricevuti dalle “labbra” e dalla “bocca” di Dio!
29:1-25. In questo capitolo Giobbe descrive la sua etica prima della prova e ciò può considerarsi una sintesi di quello che poteva essere il “noachismo”:
3. Dio era per lui una luce fra le tenebre.
4. Sentiva che Dio vegliava come un amico sulla sua casa.
8-9. Era circondato da grande stima da parte di tutti.
11, 22, 23. Apprezzatissime le sue parole (simile a Salomone).
14-16. Sapeva unire la giustizia e la rettitudine con l’essere compassionevole e protettore dei deboli (non s’inorgogliva delle sue virtù).
18-20. Era fiducioso nell’avvenire, sicuro che a Dio piacesse il suo operare luminoso, che investiva l’intera società e che intendeva sempre più allargare.
23-24. Tutto questo operare era fatto con grande pace, così il suo volto risplendeva ed il solo vederlo rincuorava gli scoraggiati.
25. La sua influenza non era solo sul piano morale, ma era trattato come un re. Interessante, a questo proposito, come anche Melchisedec fosse sacerdote, re e profeta. In Abramo pure, avendo egli combattuto e vinto diversi re (Gen 14), può essere rintracciata l’unione di queste caratteristiche che poi troveremo separate (per esempio, fra Saul e Samuele), ma che sembra fossero tipiche delle più elevate personalità dell’epoca patriarcale. Anche in Cristo convergono di nuovo le tre caratteristiche di re, profeta e sacerdote.
31:1,39. Anche nel cap. 31 Giobbe descrive la sua etica, che continua ad avere un chiaro sapore neotestamentario.
1,9. Era ricco e stimato, ma verso le donne irreprensibile, non solo nel comportamento, ma anche con gli occhi.
13-15. Quando c’era qualche contrasto con un suo dipendente, non approfittava della sua posizione di forza, riconoscendo un’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. Forse per questo pensava che anche Dio non avrebbe approfittato della sua forza per schiacciare la contestazione che gli rivolgeva.
16-21. Era un sostegno per poveri, vedove e orfani, astenendosi dalle contese con questi ultimi, contro i quali avrebbe potuto far pesare il suo prestigio sociale.
24-25. Non idolatrava le proprie ricchezze, cioè non poneva in esse la sua fiducia.
26-27. Nemmeno si faceva tentare dall’adorazione di sole e luna, il culto dei quali sarebbe stato certamente meno impegnativo ed eticamente poco vincolante.
29-32. Notevole il suo estendere la propria compassione anche ai nemici e agli stranieri (come sono antiche certe novità di Cristo!).
33. Senza coprire i propri errori, nemmeno quelli del cuore: perché viveva davanti a Dio e voleva piacere a lui, più che agli uomini, avendo capito che sarebbe stato sciocco fare il “sepolcro imbiancato” (cfr. Mt 23:27).
39. Generoso con i dipendenti.
42:2. Giobbe alla fine riconosce che Dio è più grande di lui e che perciò non può chiamarlo in giudizio, accettando che Dio può dare un senso anche a ciò che ci appare senza senso.
42:7-8. Dio riconosce che Giobbe era migliore dei suoi amici, verso i quali si comporterà da sacerdote.




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5. CONCLUSIONE

A volte si applicano alla Bibbia i soliti schemi evoluzionisti e allora succede che Adamo venga immaginato più simile ad un “ominide” che a Dio; succede che la Legge di Mosè venga ritenuta semibarbara e lo stesso Nuovo Testamento rifletterebbe alcune concezioni ormai superate. Tutta la Bibbia, perciò, sarebbe solo una “storia della fede”, cioè una testimonianza di come un tempo si concepiva il rapporto con Dio, che certamente non va presa troppo alla lettera dall’uomo di oggi, ormai “evoluto”.
Dopo aver considerato meglio la spiritualità di Giobbe, però, mi si è rafforzata la convinzione che nella Bibbia ci sia uno “sviluppo nella continuità”, con evidenti aspetti di crescita della conoscenza (basti pensare alla venuta di Gesù ed alla successiva opera dello Spirito Santo), ma anche con paurosi regressi (peccato di Adamo, corruzione del mondo e Diluvio, crocifissione di Gesù): progresso e regresso, insomma, sembrano intrecciarsi. Quando sulla Terra tornerà il Cristo glorioso, non a caso, quel massimo splendore si incrocerà con la potenza globalizzata del suo contrario, cioè dell’Anticristo (2 Tes 2:1-8).
Da un certo punto di vista, perciò, la migliore conoscenza di Dio potrebbe essere stata proprio quella di Adamo, perché in seguito nessuno ha vissuto un tempo di tranquilla amicizia e condivisione con Dio (Gen 1-2) e lo stare insieme fa comprendere qualcosa di intimo che non è possibile trasferire sulla carta. Adamo visse molto a lungo e così ebbe tutto il tempo di comunicare la sua conoscenza di Dio ai suoi posteri, controllandone la corretta comprensione da parte di un’intera comunità alla quale veniva affidata. Un segno dell’efficacia di questa trasmissione è la vita di Enoc, così in intimità con Dio da essere preservato dalla morte, ottenendo subito un corpo risorto (Gen 5:22; Eb 11:5-6). Anche Noè dimostra la grande vicinanza e intimità che a quel tempo si potevano avere con Dio.
Dopo il Diluvio la vita media si è progressivamente raccorciata, ma la trasmissione orale consentiva ancora una conoscenza di Dio profonda, come dimostra non solo Abramo, ma soprattutto Melchisedec (Gen14:17-20), al quale Gesù (non a caso!) viene intimamente associato (Eb 7). Giobbe si inserisce bene in questo contesto e mostra con più dettagli la profondità di quella conoscenza originaria, basata su una sensibilità ricevuta dagli anziani padri e sul contenuto ben assimilato dei primi quattro capitoli della Genesi. In seguito si è aggiunta la conoscenza di tanti altri fatti, ma si è persa quella sensibilità che veniva trasmessa da persona a persona; i primi capitoli della Genesi, poi, sono stati sempre più minati: prima dalla filosofia greca (i cosiddetti Padri della Chiesa) ed ora dall’evoluzionismo.
Giobbe sapeva trasformare i suoi fondamenti, pochi ma solidi, in comportamenti adeguati in ogni campo; Mosè invece dovette dare, ad un popolo abbrutito da quattro secoli di schiavitù, molte norme dettagliate attraverso le quali recuperare i principi che le ispiravano. Quando Gesù precisa che tutta la Legge di Mosè è in fondo l’applicazione di due soli principi (Mt 22:36-40), in qualche modo ritorna a Giobbe. L’obiettivo finale di Gesù, a pensarci bene, è in fondo un ritorno al giardino d’Eden, dove l’uomo stava in pace con se stesso, con Dio e col creato (Gen 1:31; 2:25). La sintonia fra Gesù e Giobbe va però ben oltre, se consideriamo che Giobbe ha sofferto pur essendo un giusto e che, dopo aver accettato il peso che Dio gli aveva assegnato, diviene strumento di salvezza per gli altri (Gb 42:8). Attraverso Giobbe, Dio ha cercato di preparare l’umanità alla venuta di Gesù, ma anche questa parte della Parola di Dio fu allora poco compresa.
Quando, dopo il cap. 2, a Giobbe finisce la pazienza, per noi è più facile trovarci in sintonia con le parole dei suoi amici, perché le espressioni che Giobbe rivolge a Dio ci sembrano quantomeno irrispettose. Invece Dio ci dice che ha gradito molto di più le parole di Giobbe (42:7) e questo ci fa capire che, da quell’uomo vissuto nelle profondità della Storia, abbiamo molto da imparare.



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SECONDA PARTE
NOTE AL VANGELO DI MATTEO


CAP. 3
GESÙ FIGLIO DI DAVIDE (1:1A)


Appunti della predicazione mensile nella Chiesa evangelica di Siena, via Pian d’Ovile, (febbraio-giugno 2008).

1. INTRODUZIONE

Le genealogie non mi dicevano quasi nulla, ma della Scrittura sono importanti anche i dettagli e questo elenco di progenitori l’ho via via trovato sempre più ricco di significati. Quando due giovani s’incontrano, sono in genere poco interessati alle rispettive famiglie e questo ci fa vedere la distanza che passa fra il contesto ebraico, nel quale ha operato Gesù, e la mentalità odierna: una distanza che rende difficile capire perché, prima di parlare di Gesù, ci vengano precisati tutti questi antenati. Se non ci sforziamo di entrare nel contesto nel quale ha operato e parlato Gesù, però, difficilmente capiremo bene il senso della sua vita e come dobbiamo modellare la nostra.
Il Vangelo di Matteo si presenta come l’ultima pagina di un “libro di famiglia” cominciato da Adamo, che è il tronco dell’albero dal quale tutti gli esseri umani hanno origine. Gesù è rappresentato come la foglia più alta, che poggia su certi particolari rami curati da Dio nel corso dei millenni.
Questa linea genealogica la possiamo vedere in Gen 5:1,30; 6:9; 10:1,32; 11:10,31; 25:12,19; 37:2; 46:8 e infine 49:9. In quest’ultimo passo si parla del progenitore Giuda, uno dei dodici figli di Israele, al quale sarà affidato «il bastone del comando», finché questo bastone non sarebbe stato preso da «colui al quale appartiene», cioè Gesù, nato dalla tribù di Giuda (v. 3) e morto come «re dei Giudei» (Giov 19:19). Anche i magi cercarono «il re dei Giudei» che si sapeva dover nascere da «Betlemme, terra di Giuda» (Mt 2:2-6).

Fra i vari progenitori di Gesù, viene messo prima di tutti Davide, anche se si colloca in una parte mediana della lista: ciò è segno che è il progenitore più significativo. Bisognerebbe allora conoscere bene la storia di Davide, per poter capire meglio quella di Gesù.
Davide era stato un re d’Israele molto gradito a Dio, il quale gli aveva fatto una straordinaria promessa: «La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te e il tuo trono sarà reso stabile per sempre» (2Sam 7:16). L’annuncio dell’angelo a Maria richiama chiaramente questa promessa (Lu 1:32-33), alla quale si rifà anche il padre di Giovanni Battista, ripieno di Spirito Santo (v. 69). Diviene perciò evidente che non era sbagliata l’attesa di un Regno politico guidato dal Messia Gesù e ciò è ancor più evidente se consideriamo le ultime parole da lui dette agli apostoli (At 1:3-9).



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2. ATTI 1:3-9: LEGITTIMO ATTENDERE IL REGNO POLITICO,
MA SENZA FRETTA


L’attesa del Regno politico non era solo di chi non aveva capito Gesù, ma anche degli apostoli e dopo essere stati ben 40 giorni col Risorto. Gesù stava per salire al cielo, ma per gli apostoli c’era ancora un’ultima questione da risolvere e sulla quale avevano bisogno di una parola chiara: «Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?». Gesù rispose:
«Non spetta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità. Ma riceverete potenza, quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme […] e fino all’estremità della terra». (At 1:7-8).
Qualcuno vede la risposta di Gesù come un rimprovero agli apostoli, considerati come ancora troppo materialisti e poco spirituali; invece Gesù rimprovera solo la fretta, confermando implicitamente la legittimità dell’attesa (infatti assicura che, prima o poi, la promessa del suo regno politico si adempirà). Ho messo in evidenza quel “Ma” perché dimostra come le due parti della risposta di Gesù siano collegate ed il tipo di relazione si comprende bene solo se si vede l’evangelizzazione non come sostitutiva del Regno, ma come sua preparazione.
Gesù non impone subito il suo Regno politico, ma dimostra la sua signoria attraverso lo Spirito Santo, che imporrà una irresistibile avanzata del Vangelo in tutto il mondo (vedere Atti), con lo scopo di raccogliere credenti di ogni popolo con i quali realizzare il suo Regno universale. D’altronde anche Davide, dopo essere stato unto re (1Sam 16:13), non cominciò subito a fare il re. Essendo perseguitato proprio da quel suo popolo che aveva salvato da Golia (17:51), dovette rifugiarsi fra i pagani, accogliendo con sé coloro che vollero seguirlo e che rappresentavano non i migliori, ma i peggiori (22:1-2; cfr. Mt 9:10-13).
Questa attesa di un Regno che potrebbe arrivare da un momento all’altro è presente anche nella predicazione di Pietro agli ebrei, subito dopo che gli apostoli sono stati riempiti dallo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (At 2:29-30,36; 3:19-21).
Il citare Gerusalemme non è casuale. Il traguardo di Davide fu di regnare da Gerusalemme (2Sam 5:4) e per Gesù il rapporto con quella città può concludersi solo quando lo inviteranno a tornarci (Lu 13:35). Dio ha legato il suo nome a Gerusalemme (1Re 11:13), dove aveva fatto fare a Salomone un Tempio verso il quale tutti i popoli erano invitati a rivolgersi (1Re 8:43). A Gerusalemme, per Gesù, c’era la casa del Padre suo, cioè la sua casa (Lu 2:49; Gv 2:16). Quando Gesù ha detto agli apostoli che gli sarebbero stati testimoni a Gerusalemme, voleva riaffermare e tranquillizzarli che la sua centralità, continuamente ribadita dall’Antico Testamento, non era stata eliminata a causa della crocifissione. Anche l’apostolo Paolo manifestò un amore per Gerusalemme superiore all’amore per la sua stessa vita (At 21:10-15).
La riaffermazione dell’universalità del Regno di Dio non è secondaria. Già l’autorità di Davide si era estesa ad altri popoli (1Cro 18-20) e la fama di suo figlio Salomone era arrivata a «tutti i re della terra» (2Cro 9:22-23). Il regno del futuro Messia, perciò, non poteva limitarsi ad Israele (Is 49:5-6). Gesù si definì come «più che Salomone» (Mt 12:42), cioè non in contrapposizione a quel suo progenitore, ma sviluppandone il modello che già tendeva all’universale. Il tema della salvezza dell’intero mondo è pure presente nell’Epistola ai Romani (8:19-23) e non poteva infine essere ignorato dall’Apocalisse, che lo colloca alla fine dei tempi, con al centro ancora Gerusalemme (Ap 20:4; 21:1-4).
Abbiamo voluto vedere uno dei tanti casi che diventano molto più chiari e significativi se teniamo presente che Gesù è “Figlio di Davide”. Ora affronteremo una recente obiezione che mi è stata fatta e che ha le sue ragioni, ma anche i suoi torti.



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3. IL VANGELO È INADATTO AI CRISTIANI? TRE LIVELLI DI FEDE

Un gruppo di evangelici mi ha recentemente obiettato: «A noi non interessano le storie del Vecchio Testamento e il Vangelo riflette un periodo di transizione. Il cristianesimo compiuto è quello delle lettere degli apostoli». Ho risposto sbalordito: «Come facciamo a chiamarci evangelici e a disconoscere il Vangelo?». Dalle contestazioni c’è però sempre da imparare e così ho continuato a riflettere, arrivando a rendermi conto che i miei oppositori avevano più ragione di quanta gliene avessi data e che la mia risposta poteva essere migliore. Ecco di seguito come ora argomenterei, prendendola un po’ alla larga.
Cominciamo col vedere più da vicino quanto Pietro disse agli ebrei:
Ravvedetevi dunque e convertitevi, perché i vostri peccati siano cancellati [salvezza individuale] e affinché vengano dalla presenza del Signore dei tempi di ristoro […] fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose; di cui Dio ha parlato fin dall’antichità per bocca dei suoi santi profeti [salvezza del mondo]. (At 3:19-21).
La salvezza individuale e la salvezza del mondo, attraverso il Regno universale di Gesù, erano insomma strettamente connesse. Quando però il Vangelo fu per la prima volta predicato ad un non ebreo (Cornelio, At 10) successe qualcosa di particolare. Pietro ricapitolò la vita di Gesù per sommi capi, senza i molti riferimenti all’Antico Testamento presenti nel discorso fatto agli ebrei (At 3:13-25) e arrivando alla prima tappa essenziale della salvezza individuale: «Di lui [Gesù] attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome» (At 10:43). C’è da supporre che Pietro avrebbe desiderato anche qui completare la sua esposizione illustrando la salvezza del mondo, ma ci fu una grande sorpresa: «Mentre Pietro parlava così, lo Spirito Santo scese su tutti quelli che ascoltavano la Parola […] Allora Pietro disse: “C’è forse qualcuno che possa negare l’acqua e impedire che siano battezzati questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi?”» (At 10:44-47).
Dio ha insomma ritenuto che per un non ebreo la prima dose si limitasse alla salvezza individuale, necessaria per rinascere in Cristo. Per la successiva crescita bisognava dare tempo a Cornelio, aprendolo gradualmente ad orizzonti più ampi. Il tema della necessità della crescita, d’altronde, è chiaramente esposto proprio da Pietro, la cui prima epistola è rivolta a cristiani residenti nell’attuale Turchia, cioè a non ebrei (1Pie 1:1) come si deduce anche dall’espressione «Voi che prima non eravate un popolo» (2:10). Questa epistola, insomma, sembra diretta a quelli come Cornelio i quali, dopo aver in fretta afferrato la “scialuppa di salvataggio”, avevano bisogno di irrobustire quel fragile mezzo, inadatto ad affrontare le tempeste della vita che, prima o poi, c’è da aspettarsi che capitino. Pietro scrive: «Come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza» (1Pie 2:2); questa epistola è perciò un condensato di quei primi elementi che sono necessari per crescere in Cristo.
Discorso analogo può farsi per la 1 Corinzi, dove l’apostolo Paolo corregge i difetti infantili presenti in quella chiesa e che non aveva potuti affrontare all’inizio, quando erano ancora “bambini in Cristo” (1Cor 3:1-2). Anche nell’Epistola agli Ebrei si fa cenno al “latte” e al “cibo solido”, ma qui non si tratta di persone che erano rimaste allo stato infantile, ma di credenti che col passare degli anni si erano stancati, regredendo ad una forma di fede elementare (Ebr 5:11-14). Essere “bambini in Cristo” può essere anche una bella cosa, se si è nati da poco, ma rimanere a lungo tali e considerarsi maestri è un’altra faccenda. Partire da una enunciazione semplificata del Vangelo può essere anche necessario, ma poi bisogna proporsi il traguardo di ricevere «tutte quante le cose» che Gesù ha insegnate, come ha raccomandato alla fine del Vangelo (Mat 28:20).
Anche la fede dell’apostolo Pietro aveva qualche difetto. Infatti si adattò malvolentieri per andare da Cornelio (At 10:14) e successivamente ebbe tali tentennamenti da porre a rischio tutta l’opera di Dio (Gal 2:11-14). Per portare a compimento la sua nuova opera, così, Dio elesse e modellò l’apostolo Paolo, il quale aveva una fede ben strutturata come Pietro, ma era anche capace di applicarla nelle svariate circostanze concrete nelle quali annunciava il Vangelo (1Cor 9:19-22). Abbiamo così l’esempio di tre livelli di fede: quella “elementare” di Cornelio, quella “strutturata ma statica” di Pietro e quella “strutturata e dinamica” di Paolo.
Quando Timoteo era bambino anche di età, fu fatto crescere spiritualmente attraverso l’Antico Testamento, che per Gesù e gli apostoli era semplicemente la Parola di Dio, non essendo ancora disponibile il Nuovo Testamento. Lo sfondo dell’Antico Testamento, insomma, è quello sul quale è stato proiettato il Nuovo, ma l’urgenza dell’annuncio della salvezza a persone come Cornelio, non consente di raccontare prima tutto l’Antico Testamento, perciò il Vangelo di Matteo non è inizialmente adatto a questi casi. Finché però un cristiano non comprende le dirette parole di Gesù, finché non le colloca nel giusto contesto ebraico, finché continua a dipendere dalle semplici frasi riassuntive che lo hanno fatto nascere, è difficile che faccia molta strada.



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4. REGNO GIÀ PRESENTE O NEL FUTURO? NEI CIELI
O DEI CIELI? TERRESTRE O CELESTE?

A. Esame all’interno del Vangelo di Matteo


Fra i cristiani ci sono opinioni diversi sul Regno del quale si parla nel Vangelo e che è chiamato in modi diversi (“dei cieli”, “di Dio”, “di Gesù” o semplicemente “Regno”). Il Vangelo di Matteo insiste molto su questo concetto e perciò è bene fare un primo esame limitandosi ad esso.
Giovanni Battista annuncia subito che «Il regno dei cieli è vicino» (3:2) e ciò potrebbe far pensare che sarebbe arrivato con l’inizio dell’impegno pubblico di Gesù, ma anche per lui il Regno è «vicino» (4:17), come pure per gli apostoli (10:7). A volte viene descritto così vicino da poterlo afferrare; infatti esso «è» (tempo presente) dei poveri in spirito e dei perseguitati (5:3,10); bisogna cercarlo prima del cibo (6:33) e non si può certo stare a lungo a digiuno; addirittura sembra essere già arrivato (12:28).
In ogni caso, alcuni di coloro che stavano ascoltando Gesù, sarebbero morti solo dopo aver visto Gesù «venire nel suo regno» (16:28; cfr. 10:23; 23:36; 24:34). Da questo passo alcuni deducono che il Regno di Gesù è presente ormai da duemila anni su questa Terra e certamente non hanno tutti i torti; purché non esagerino, perché da altri passi si deduce chiaramente (per non dire dall’esame della realtà che ci circonda) che a Gesù resta ancora molto da fare.
Un segno della potenza di Gesù, per gli apostoli, è stato certamente il poter toccare con mano un Gesù risorto e glorioso, salito al cielo alla destra del Padre (At 1:1-11; Lc 22:69); un altro anticipo di Regno è stato il diffondersi incontenibile del Vangelo fino al centro dell’impero (At 1-28). I cristiani che infine sono arrivati a vedere la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 d.C.) non credo proprio che se ne siano rallegrati, ma ci avranno visto l’adempiersi della profezia di Gesù (At 24:1-2). Ciò non toglie, però, che molte delle promesse di Gesù si realizzeranno quando tornerà nella sua gloria e nella sua potenza (Mt 16:27; 24:30) e questa miscela di “già” e “non ancora” è ben evidente da altri passi.
Nella parabola delle zizzanie (13:36-43) i figli del Regno sono già presenti, ma avranno l’esclusiva solo «alla fine dell’età presente», cioè di quel mondo che c’era al tempo di Gesù e che, con tutta evidenza, non è ancora finito: la zizzania (cioè i non credenti) continuano infatti ad essere presenti insieme ai credenti, anzi spesso sono in netta maggioranza!
Anche nella parabola dei talenti (25:10-30) c’è prima un tempo di attesa, nel quale i servi (credenti in Gesù) sono chiamati a far fruttare i doni ricevuti, ricevendone la ricompensa o il castigo al ritorno del loro padrone. Subito dopo (vv. 31-32) Gesù dice: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli, prenderà posto sul suo trono glorioso. E tutte le genti saranno riunite davanti a lui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri». Un ritorno ed un giudizio di questo genere evidentemente non ci sono ancora stati, anche se Gesù continua ad usare la sua potenza per allargare la diffusione del Vangelo «fino alle estremità della terra» (At 1:8; 13:47).



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B. Successivi chiarimenti degli apostoli

Certamente il Vangelo va preso con la massima serietà, ma esso stesso dichiara il proprio limite, infatti Gesù dice agli apostoli: «Ho ancora molte cose da dirvi; ma non sono per ora alla vostra portata» (Gv 16:12). Quando Gesù provò ad avvertire che sarebbe stato crocifisso e poi sarebbe risorto (16:21-23) gli apostoli non capirono e si disorientarono. Come potevano allora comprendere il significato e le conseguenze di quegli stessi fatti che pure sono il cuore del cristianesimo? Altro evento imprevedibile fu l’ascensione di Gesù al cielo (At 1:9) e grandi cambiamenti produsse la discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (At 2). Sul piano dottrinale una svolta sostanziale si ebbe con il battesimo del primo incirconciso (Cornelio, At 10:47-48) e con il successivo riconoscimento generale di questo nuovo tipo di credente in Gesù (At 15).
In altre parole, certe cose nel Vangelo sono solo abbozzate e viste in un’ottica ancora incompleta, per poi trovare un’esposizione molto più chiara nei successivi sviluppi della dottrina da parte degli apostoli. Mentre all’inizio è soprattutto Pietro che porta avanti l’opera di Dio (At 1-12), sarà poi Paolo a dare al cristianesimo la sua forma definitiva, facendo un’opera di approfondimento e di chiarificazione che anche Pietro finirà per apprezzare, pur trovandola non facile da comprendere (2 Pt 3:15-16): significativo è che questa affermazione dell’apostolo Pietro si trova proprio dopo che ha trattato il tema degli eventi finali. Tutto ciò per dire che, se ora prenderemo alcuni versetti dell’apostolo Paolo per avere un orientamento complessivo, non è perché andiamo a sceglierci ciò che più ci gradisce, ma per affermare un metodo che ci pare emerga dalla Scrittura stessa.
Fra i primi cristiani qualcuno si stancò di aspettare la risurrezione e cominciò a considerarla come già avvenuta (2 Tim 2:18). A Corinto invece alcuni la negavano del tutto (anche oggi, per inciso, la risurrezione è un tema tendenzialmente schivato da certi cristiani, che ufficialmente lo credono, ma di fatto lo ignorano). Proprio ai Corinzi l’apostolo Paolo espone una chiara successione degli eventi (1 Cor 15:23-25), che elencheremo aggiungendo qualcosa [tra parentesi quadra] per maggiore chiarezza:
1) prima c’è stata la risurrezione di Cristo.
2) poi ci sarà la risurrezione di tutti i cristiani, QUANDO CRISTO TORNERÀ PER REGNARE [in una Terra rinnovata] riducendo a nulla ogni principato potestà e potenza (cfr. Millennio, Ap 20:1-4).
3) poi verrà la fine [di questa Terra] e Gesù consegnerà tutto nelle mani di Dio Padre, che così sarà «tutto in tutti» (cfr. nuovi cieli e nuova Terra, Ap 21).

Quando si affrontano in modo teologico le questioni relative alla fine dei tempi (escatologia) si comincia con l’elencare i tre sistemi principali: premillenarista, postmillenarista ed amillenarista. I discorsi si fanno molto complessi e ognuno cerca di imporre all’altro la propria soluzione coordinata, che va accettata in ogni dettaglio, altrimenti non sta in piedi. La lite è assicurata e si capisce perché molti cristiani evitino di parlare di escatologia.
Se si affronta invece il tema in modo biblico, cominciando da ciò che è chiaro e condiviso, allora si può facilmente scoprire che le convinzioni che uniscono sono molto più importanti dei dettagli che dividono e perciò l’escatologia può tornare ad essere (come per i primi cristiani) un elemento di unità e consolazione. In fondo c’importa poco del Millennio, perché il nostro traguardo è quello di incontrare Gesù: se poi egli realizzerà il piano di Dio in due fasi o tutto insieme lo vedremo a suo tempo. Ora bisogna contrastare solo quelli che dicono che Gesù non tornerà per regnare, oppure che vogliono farci credere che Gesù già regna: questi ultimi ragionano come se regnare può non riguardare la sfera politica, come se la potenza e l’autorità di un Berlusconi o di un Prodi o di un qualsiasi papa fosse paragonabile a quella di Gesù quando tornerà glorioso su questa Terra. Come può dire, un cristiano, che Gesù sta regnando, quando ci sono almeno tre miliardi di persone governate da chi perseguita o lascia perseguitare i cristiani? Certo, Dio resta il creatore del cielo e della Terra e tutto gli è sottoposto, ma ora sta esercitando la sua pazienza come quando ha lasciato che Cristo fosse crocifisso, mandando ancora i suoi testimoni “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10:16) e manifestando la sua potenza soprattutto nell’irresistibile avanzata della testimonianza del Vangelo. Verrà poi il tempo che la sua pazienza finirà e metterà in atto la sua giustizia, ma come si può affermare che oggi ci sia già la sostanza del Regno di Dio?

Vediamo ora brevemente altri due passi del Nuovo Testamento che confermano il quadro sopra esposto, per poi passare a quelli che invece sembrano contraddirlo.
In Ebrei 2:8-9 viene detto che è stata posta «ogni cosa sotto i piedi» di Gesù, che è già «coronato di gloria e di onore». Ciò farebbe pensare ad un Regno già in atto, ma il contesto dell’epistola è drammatico, come di chi sta attraversando ancora il deserto, non come di chi ha trovato già riposo nella Terra Promessa. La vittoria di Gesù c’è già stata ed egli è già «il principe dei re della terra» (ap 1:5), ma ancora non ha preso possesso di ciò che gli spetta e infatti viene precisato che «al presente però non vediamo che tutte le cose gli siano sottoposte» (Eb 2:8).
Qualcuno dice che, da quel “presente”, sono passati duemila anni e che ci sono stati notevoli cambiamenti. Liberi di affermarlo, ma allora il Nuovo Testamento sarebbe superato e così i cristiani dovrebbero seguire un “Nuovissimo” Testamento. In effetti, l’opera dei cosiddetti “Padri della Chiesa” (Origene, Agostino e altri) ha partorito un’altra Chiesa che non può dirsi più “neotestamentaria”. Noi però continuiamo a credere che il Nuovo Testamento sarà superato solo al ritorno di Gesù e che Gesù non è ancora tornato.
In 2 Tes 2:7-8 ci viene descritta una perversità che è già in atto e che, quando Gesù tornerà, sarà al massimo (cfr. 2 Tim 3:1-5). Anche qui non ci si fa nessuna illusione sul fatto che Gesù stia regnando e non c’è la prospettiva di un suo progressivo prendere possesso del mondo, ma si aspetta il suo irrompere improvviso su una Terra non arrivata certamente alla santità (cfr. Ap 6:15-17).



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C. Versetti in contraddizione?

Ci sono alcuni passi del Nuovo Testamento che sembra contraddicano quanto sopra tracciato e che ora esamineremo rapidamente.
In 2 Pie 3:1-13 c’è una sintesi dell’escatologia della quale va certamente fatto tesoro. Si paragona la situazione del mondo di allora (e di oggi) a quella pre-diluviana, con un giudizio che prima o poi arriverà e distruggerà tutta la Terra col fuoco, dopo di che ci saranno nuovi cieli e nuova Terra. Pietro è rimasto ancorato al quadro anticipatogli da Gesù (Lc 17:26ss) e non contempla un Millennio prima di nuovi cieli e nuova Terra. È una visione riassuntiva che non può dirsi sbagliata: così come era riassuntiva e non sbagliata la descrizione della venuta del Messia fatta dall’Antico Testamento, che non distingue bene fra prima e seconda venuta.
Crediamo che il Millennio ci sarà, ma se un credente lo nega perché prende alla lettera la seconda epistola di Pietro, non ci metteremo certo a contendere, ma lo abbracceremo calorosamente: perché anche lui sta aspettando Gesù, anche lui vuole conformarsi al nuovo mondo e non a questo, anche lui vuole servire Gesù annunciando il perdono che offre (e non cercando compromessi col potere). Come non mettere in secondo piano tutto il resto? Se poi c’è occasione e in un clima di amicizia, gli si può far notare che subito dopo (2 Pie 3:14-16) Pietro stesso invita ad approfondire la dottrina leggendo gli scritti di Paolo, consigliandogli così di prendere come base 1 Cor 15.

In 1 Tes 4:13-17 l’apostolo Paolo parla del rapimento della Chiesa ed il passo è spesso travisato o usato male. Il travisamento deriva dai presupposti greco-pagani con i quali si legge questo passo, che invece presuppone una cornice ebraica. Nella Bibbia il corpo non ha in sé niente di negativo o peccaminoso. Prima della caduta il corpo di Adamo non gli impediva certamente una profonda comunione con Dio e Gesù ha amato il suo corpo al punto da portarselo per sempre in cielo. Nel Nuovo Testamento non si parla di essere liberati dal corpo, ma i credenti che sono morti vengono concepiti come in attesa di tornare completi, cioè con un proprio corpo, in modo da poter essere veramente come il risorto Gesù. Pensare che le anime vaghino beate senza corpo, in un mondo di luce senza concretezze, non è certo il Paradiso della Bibbia, ma quello dei greci. Paradiso significa “giardino” e si riferisce principalmente a quello in Eden, dove Dio pose l’uomo (Gen 2:8; 2 Cor 12:2-4; Ap 2:7). Non è biblico immaginarsi che Gesù ci rapisca per portarci per sempre in cielo, come non è biblico immaginarci che, dopo la morte, saremo per sempre beati in cielo anche con la sola anima, svalutando la risurrezione.
Gesù rapisce la Chiesa non per lasciare la Terra ai malvagi, ma perché andremo ad incontrarlo mentre lui sta scendendo sulla Terra: come i credenti di Roma andarono ad incontrare Paolo che stava per arrivare (At 28:15-16). Gesù non è andato in cielo per aspettarci lì, ma in attesa di tornare a Gerusalemme (At 1:11) e da lì regnare sul mondo. A Gesù non piace prendere possesso del suo Regno in solitudine, ma ama essere circondato dai suoi amici festanti (Lc 19:37-40), vuole allora risuscitarli tutti e con loro avere la gioia di prendere possesso del Regno di Davide che gli spetta: un Regno che non è certamente collocabile nelle vaghezze aeree, ma ben radicato nelle concretezze di una Terra rinnovata dalla presenza di Gesù, che così potrà proseguire il suo soggiorno iniziato duemila anni fa e improvvidamente interrotto dagli uomini.
L’uso distorto di questo passo consiste nel farne oggetto di contesa su quando ci sarà il rapimento e su come si relaziona rispetto alla “grande tribolazione” (Mr 13:19; Ap 7:14). Se ne discute perché, evidentemente, la Scrittura non risolve esplicitamente il problema e sorprende che, molti di quelli che ci imbastiscono polemiche, affermano giustamente che anche i silenzi della Scrittura sono ispirati; poi però se ne dimenticano e vogliono riempire quei silenzi imponendo le loro certezze! Che la Chiesa sarà risparmiata dalla grande tribolazione si può anche crederlo, ma non si può certo starsene tranquilli: basta pensare a quei cristiani eritrei che sono rinchiusi nei container messi sotto il sole cocente e che muoiono soffocati! Il contesto del Nuovo Testamento è un contesto di persecuzione e anche oggi di cristiani maltrattati ne è pieno il mondo (certo, i telegiornali tacciono, ma se si sfogliano le pagine di “Porte aperte” ce se ne può rendere subito conto). Comunque sia, è vero che dobbiamo essere sempre pronti, perché Gesù ci ha detto una frase che costringe tutti a stare all’erta, specie quelli che non lo fanno: «Nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo verrà» (Mt 24:44). Anziché disputare ed amareggiarci sui questi dettagli in fondo secondari, insomma, è meglio unirci nella solidarietà verso i perseguitati e nell’esortazione ad essere tutti e sempre vigilanti.

In Giovanni 18:33-37 Gesù dice a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo» e, se siamo impregnati di mentalità greco-pagana, pensiamo che il regno di Gesù sia spostato nello spazio. Nella mentalità ebraica, che costituiva il retroterra di Gesù, non è invece il luogo che fa la differenza («Dovunque due o tre sono riuniti… Mt 18:20), ma la qualità della persona e il tempo. Insomma, il Regno di Gesù non è in un luogo diverso (cioè il cielo) rispetto a quello nel quale regnava Pilato, ma in un tempo diverso e con un regnante di tipo diverso.

Giovanni 14:1-4 sembra proprio indicare un Regno nei cieli, ma è proprio così? Gesù dice agli apostoli: «Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore […] Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me». Sembrerebbe evidente che un cristiano, dopo la morte, vada in questa celeste “casa del Padre” e lì resti beato per l’eternità: la risurrezione, in questo schema, ci può anche in qualche modo entrare, ma diviene un dettaglio fastidioso. Già abbiamo scritto che, prima della crocifissione di Gesù, gli apostoli non erano in grado di capire molte cose (Gv 16:12). Non vogliamo abusare di questo argomento, come se non ci si potesse fidare del Vangelo, ma è significativo che Gesù avverta gli apostoli della loro limitatezza proprio alla fine del discorso che stiamo esaminando (cioè Gv 14:1-14) e ciò autorizza a pensare che egli abbia ritenuto opportuna una descrizione un po’ vaga nei dettagli: come potevano capire bene il suo ritorno se non capivano ancora la sua crocifissione, la risurrezione e l’ascesa al cielo? L’argomento decisivo è però interno a ciò che Gesù afferma. Gesù non dice che è pronto per noi un “appartamento” in cielo dove ci sta aspettando, ma solo che è andato a prepararlo e che quando è pronto tornerà. Dato che Gesù non è ancora tornato, allora l’appartamento non è ancora finito ed i cristiani già morti non hanno nessuna stanza pronta. Perché poi dovrebbe tornare se siamo noi che andremo a stare lassù permanentemente e beatamente? In tutta la Bibbia, a partire dal giardino d’Eden e ancor più in Gesù, il moto è discendente (Dio che scende fra gli uomini), non ascendente (l’uomo che va a stare in cielo). Certo è un po’ strano che si preparino appartamenti in cielo se poi non ci andremo ad abitare, ma a me sembra che tutto quadri se pensiamo che la nuova Gerusalemme è sì preparata in cielo, ma per farla poi scendere sulla terra! (Ap 21:9).

Un’altra affermazione equivocata è quella che Gesù fa al buon ladrone, crocifisso insieme a lui: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23:42-43). Il capire male dipende ancora una volta dal dare significati greci a parole ebraiche. Abbiamo già visto che “paradiso” significa “giardino” e il trono di Dio non è lì, ma nel “cielo”. Tre giorni dopo la morte Gesù non era ancora salito al Padre (Gv 20:17), perciò non è lassù che Gesù aveva già portato il buon ladrone, ma in un posto molto più terrestre, seppure gradevole, dove c’è una presenza di Dio più indiretta rispetto al cielo. Le anime del Paradiso non stanno certo male, ma aspettano una risurrezione che può finalmente restituirle ad una vita vera, liberandole dall’inconsistenza delle ombre.

«La nostra cittadinanza è nei cieli…», scrive l’apostolo Paolo ai Filippesi, ma attenzione alle citazioni fuori contesto, perché anche in questo caso viene poi precisato un movimento discendente: «…da dove aspettiamo anche il Salvatore» (Fil 3:20). Una dinamica simile si trova nell’epistola ai Colossesi: «La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria» (Col 3:3-4). Insomma, lassù nel cielo fervono grandi preparativi e c’è una “cassetta di sicurezza” dove vengono collocati i tesori che stiamo conquistando sulla Terra (Mt 6:20; 19:21), ma recupereremo quella ricchezza non subito dopo la nostra morte, bensì alla risurrezione dei giusti» (Lc 14:14), quando vivremo col nuovo corpo nel Regno dei cieli insieme al Risorto.



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D. Ricapitolazione e conclusione

Torniamo ora alle domande iniziali, sintetizzando le risposte date.
1) Regno nei cieli o dei cieli? Dato che il Regno di Gesù è uno sviluppo di quello di Davide, non può collocarsi nel cielo, ma deve realizzarsi necessariamente su questa Terra (nel cielo, d’altronde, Dio regna da sempre). Sarà Regno dei cieli nel senso che rifletterà quei valori che si vivono lassù e che, qui ed ora, scarseggiano. Quelli che perciò qui ed ora sono ultimi, nel Regno di Gesù potranno invece essere fra i primi (Mt 19:30). Per dare solo qualche cenno, ci sarà certamente la giustizia, ma le caratteristiche più evidenti saranno altre: amore fra le persone, vera conoscenza di Dio, purezza di vita (Gv 13:34-35; Eb 8:10-11; Is 11:1-10).
2) Terrestre o celeste? La risposta è per lo più contenuta nella precedente. Aggiungiamo solo che questa contrapposizione sta in piedi solo finché sulla Terra è diffuso il peccato. Quando invece sulla Terra c’è santità, allora le cose terrestri diventano celesti e viceversa. Gesù, dopo la risurrezione, era terrestre o celeste? E prima della risurrezione era solo “terrestre”? Appena Dio ebbe finita la creazione, la Terra non era piena di valori celesti? Essendo l’uomo “immagine di Dio”, non ha sempre qualcosa di celeste in sé? Se in un cristiano c’è la dimora dello Spirito Santo (1 Cor 3:16), non è allora un intreccio fra terrestre e celeste? La contrapposizione fra terrestre e celeste è spesso un altro riflesso della mentalità greco-pagana e bisogna evitare di mettere i contenuti biblici in contenitori inadeguati.
3) Già presente o nel futuro? Gesù ha certamente iniziato una nuova fase, ma al tempo del Nuovo Testamento la sua Signoria si è manifestata, come abbiamo sottolineato, per lo più nell’efficacia con la quale si è diffuso il Vangelo. Vedremo ora due passi del Nuovo Testamento che sintetizzano bene questa potenza di Gesù che si autolimita; da un lato ci troviamo una miscela di umiltà e pazienza che riflette ancora la crocifissione, ma dall’altro si vede una forza che mostra qualcosa della potenza della sua risurrezione.

Nel cap. 12 degli Atti viene descritto un re orgoglioso e che ha in programma di eliminare la testimonianza di Cristo (vv. 1-3). Venne però colpito da un angelo del Signore e morì subito roso dai vermi (v. 23). Il potere politico sembra essere stato poi assunto da un altro re meno contrario alla testimonianza, comunque non fu certo un apostolo ad occupare quel trono. L’obiettivo di Dio non era la presa del potere politico, ma quello espresso chiaramente a conclusione del brano: «Intanto la Parola di Dio progrediva e si diffondeva sempre più» (v. 24).
Quando scrive l’epistola ai Filippesi, l’apostolo Paolo sente di essere prossimo al suo martirio (Fil 2:17). Come Giovanni Battista (Mt 14:10), come Gesù. Nulla sembra cambiato, ma se si legge l’epistola, si sente un Paolo che ha incontenibili sentimenti di vittoria: aveva infatti realizzato il suo grande desiderio di portare il Vangelo al centro dell’Impero, da dove si sarebbe poi diffuso ovunque. Riportiamo qualche passaggio significativo dello scritto di Paolo ai Filippesi: «Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo; al punto che a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo; e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio» (1:12-14). «Ora come sempre, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte. Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno» (1:20-21). «Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi» (4:4).

Concludiamo ripetendo una domanda essenziale: la situazione attuale è sostanzialmente ancora quella del Nuovo Testamento oppure ci sono stati cambiamenti rilevanti? Il passaggio del cristianesimo a religione di Stato (iniziato nel 313 con Costantino) ed il crescere nel Medioevo dell’autorità papale, secondo alcuni costituiscono delle svolte che rendono almeno in parte superato il Nuovo Testamento. Sono valutazioni che non condividiamo, ma che non ci metteremo a discutere, perché questo scritto è un dialogo fra quelli che si rifanno al principio di Sola Scrittura. Non perché sia sufficiente farne l’esegesi, ma perché crediamo che il Nuovo Testamento abbia bisogno di essere applicato, non aggiornato.



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5. È OVVIO CHE DIO REGNA, IL PROBLEMA È COME

Il commento a “Figlio di Davide” si sarebbe dovuto concludere con la scheda precedente, dopo la quale desideravo iniziare le considerazioni su “Figlio di Abramo”. Due episodi mi hanno invece spinto a proseguire l’argomento precedente.
Un amico mi ha scritto che non è possibile negare che Gesù sia oggi in qualche modo presente e regni, mettendo in evidenza come la mia trattazione non fosse pienamente convincente. Riflettendoci, mi sono reso conto che ad essere sbagliata era la domanda, perciò non era possibile una giusta risposta. Se Dio è Dio, allora è evidente che in qualche modo regna sempre ed è sempre presente. Quello che c’è da definire allora non è se, ma come regna oggi e come regnerà domani.
Ho poi ascoltato una predicazione che faceva vedere le similitudini fra Isacco e Gesù. Mi è parso allora evidente che quel “Figlio di Abramo” riferito a Gesù dovesse farci pensare ad Isacco ancor più che ad Abramo. Applicando lo stesso principio a “Figlio di Davide” mi sono ritrovato a cercare le possibili analogie fra Gesù e Salomone: due persone in genere viste più come contrastanti che come parallele. Nell’aprire questo argomento, però, mi sono trovato investito come da un fiume in piena, scoprendo affinità insospettate.
Gesù, come Salomone, amava vivere e far vivere nella pace ebraica (la shalom), fatta anche di pienezza fisica (cibo e salute) e di soddisfacenti relazioni con se stessi, col prossimo e con Dio. Quando Gesù ha a che fare col Tempio, edificato la prima volta da Salomone, ha delle reazioni che sembrano sproporzionate, ma che si comprendono meglio se si tiene conto del significato che Salomone aveva dato al Tempio. Certo, fra il Gesù dei Vangeli e Salomone qualche contrasto c’è, ma se si pensa al ritorno di Gesù ed al suo prende posto «sul suo trono di gloria» (Mt 25:31), allora molti di questi contrasti svaniscono.

La Bibbia rivela fin dall’inizio che Dio è il Creatore del Cielo e della Terra (Gen 1) ed è perciò evidente che sia Signore di tutto. Dire perciò che «Dio regna» è in fondo un’ovvietà. Poiché la Bibbia fa vedere che Dio esercita la sua signoria e manifesta la sua presenza in modi diversi, allora dire che «Dio regna» può anche essere equivoco, perché chi parla può intendere una cosa e chi ascolta capirne un’altra. È perciò necessario prendere atto di alcune modalità con le quali Dio ha regnato prima della venuta di Gesù, che erano conosciute dall’ambiente ebraico al quale appartenevano gli ascoltatori del Messia, per capire meglio ciò che voleva dire Gesù.
Prima della caduta (Gen 1-2) Dio regnava nel modo che a lui più piace, cioè col consenso dell’uomo e in un mondo dove tutto era «molto buono» (Gen 1:31). Poi invece Dio fu costretto ad usare la spada per impedire che l’uomo combinasse guai maggiori (Gen 3:24). Insieme all’uomo degenerò anche il suo mondo e Dio mostrò una pazienza così grande da non impedire che Caino uccidesse Abele: certo, Dio regnò anche su Caino (Gen 4:6-15), ma che differenza con quando aiutava Adamo a dare il nome agli animali! (Gen 2:19). Dio mostrò la sua autorità anche al tempo del Diluvio, ma la usò per distruggere, più che per costruire (Gen 6:7).
Alla fine del tempo dei Giudici, quando Israele chiese un re, fu come se non volesse più che Dio regnasse su loro (1 Sam 8:4-9). È significativo che spesso si legga la descrizione del tempo dei Giudici come se fosse negativa («In quel tempo non vi era re in Israele, ognuno faceva quello che gli pareva meglio», Gdc 17:6), mentre per Dio quella situazione era preferibile alla successiva. Saul, il primo re, fu perciò visto come uno che cacciava via Dio dal suo trono, ma stranamente (1 Sam 8:9; 9:17) Saul lo fece col consenso di Dio! La scelta di volere un re portò molti guai (1 Sam 8:9-22) e Dio si allontanò un po’ dal suo popolo, continuando però a controllare la situazione ed a prendere l’iniziativa per rimediare alla scelta sbagliata. Non cercò comunque di tornare alla situazione precedente, ma accettò la novità operando per trasformare il male in bene, cioè facendo in modo che su quel trono ci arrivasse Davide, che era in sintonia con lui più di Saul (1 Sam 13:14; 16:13). Anche Saul era stato scelto da Dio, ma in base ai desideri del popolo (1 Sam 9:2; 10:23-24), affinché il popolo si rendesse conto delle conseguenze dei propri errori.
Con la designazione di Davide, che Dio definì come un re «secondo il suo cuore» (1 Sam 13:14; 16:13; At 13:22) si potrebbe pensare che tutto si aggiusti, invece Davide dovrà passare diverse traversie prima di essere riconosciuto re da Israele (1 Sam 18 a 2 Sam 5) e, dopo esserlo divenuto, cadde in peccati gravissimi, con conseguenze tragiche e di lunga durata, sia per lui che per il popolo (1 Sam 12:10 e capp. 13-20).
Tutto sembrò avviarsi a soluzione col regno di Salomone, che illuminò il mondo con la sua saggezza e con un maestoso Tempio verso il quale furono invitati a rivolgersi tutti i popoli (2 Sam 8:12-43). Quella di Salomone fu una grande luce, ma lui stesso alla fine cadde preda dell’idolatria (1 Re 11:1-9), trasformandosi così in una meteora, tanto splendida quanto fugace, lasciando ricordi e rimpianti struggenti. Il particolare regno di Salomone fu quello che più preparò al regno del Messia, ma su di esso ci prefiggiamo di dilungarci nel prossimo paragrafo, mentre ora è bene portare a termine la carrellata sui diversi modi di regnare che troviamo prima di Cristo.
Dopo Salomone, la dinastia di Davide regnò a lungo (anche se regnò solo su Giuda) ed era giustamente considerata come un’istituzione voluta da Dio, ma questo regnare di Dio in modo indiretto fu spesso poco entusiasmante e finì nella catastrofe (vedere 2 Cro 10-36). Dio arrivò perfino a definire come suo servo quel Nabucodonosor che distrusse il Tempio e deportò il suo popolo! (2 Re 25:8-31; Ger 27:4-11).
I profeti non nascosero le storture di coloro che governavano in nome di Dio. Di fronte a quella che appariva una contraddizione, invitarono a non ribellarsi (Ger 27:8), indicando però tempi futuri nei quali si sarebbe tornati ad una situazione simile a quella dell’Eden. Il ripristino sarebbe avvenuto attraverso un discendente di Davide che si sarebbe comportato in piena sintonia con Dio come Salomone e attraverso dei cambiamenti anche nel creato: per esempio facendo in modo che lupi ed agnelli vivessero in pace (Is 11:1-9; 65:18-25; Ger 23:5-6; Mi 4:1-4). È un regno concreto e di questo tipo che si aspettavano non solo gli ebrei “poco spirituali” (Gv 6:14-15), ma anche Maria (Lc 1:51-55), il padre di Giovanni Battista (Lc 1:67-75) e gli apostoli stessi (Mt 20:20-21; At 1:6), che non potettero accettare un Messia crocifisso e ripresero il cammino con Gesù solo dopo averlo visto risorto (ciò fu considerato sostanzialmente “normale” da Gesù, che fu comprensivo con lo sbandamento degli apostoli). Prima della crocifissione Gesù ha certamente mostrato qualche segno di essere il Messia atteso, ma la differenza con le speranze che erano state stimolate dalla parola di Dio era troppo grande, al punto che anche Giovanni Battista rimase perplesso (Mt 11:2-6). La risurrezione di Gesù è stato un segnale decisivo, ma come potenzialità che si sarebbero espresse nel corso del tempo, non come effettivo instaurarsi del Regno promesso. Da duemila anni Gesù sta preparando i cittadini del Nuovo Mondo attraverso la predicazione del Vangelo a tutte le genti, poi ci sarà il suo ritorno non più in umiltà, ma in potenza: «Quando il Figliol dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli, prenderà posto nel suo trono glorioso. E tutte le genti saranno riunite davanti a lui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri» (Mt 25:31-32).
Dire che Gesù è oggi presente sulla Terra sfiora l’ovvietà («Dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro», Mt 18:20); sentirlo operare nella propria vita con potenza può essere il frutto di una fede non superficiale, vedere la sua signoria nel diffondersi del Vangelo è fare come Luca il quale, nel libro degli Atti, ha come filo conduttore proprio l’irresistibile diffusione del Vangelo. Quando però si dice che “Gesù regna”, che “il Diavolo è stato già legato”, dando l’impressione che non ci sia da attendere nessun giudizio su questo mondo e nessun ritorno glorioso di Gesù, allora si è certamente fuori da una fede basata sul Vangelo e sugli scritti degli apostoli (Mt 25:31-32; 1 Cor 15:22-28; 2 Pie 3:1-10).



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