Valutazioni.
La questione è certo complessa, tuttavia si può venirne a capo tramite un’indagine biblica, filologica e storica. Si può partire dalla presunta rivelazione del Nome in Es 3. Mosè, dice a Dio: “Supponiamo che ora io sia andato dai figli d’Israele e realmente dica loro: ‘L’Iddio dei vostri antenati mi ha mandato a voi’, ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). Prima di proseguire va notato che Mosè conosceva già il modo con cui Dio era chiamato. Si noti cosa dice Dio in Es 6:2,3: “Io sono Geova. E apparivo ad Abraamo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma rispetto al mio nome Geova non mi feci conoscere da loro”. È facile per il moderno lettore occidentale applicare i propri schemi mentali e intendere qui che il nome “Geova” non era stato rivelato ai tre patriarchi. Smentiamo subito questa interpretazione, poi cercheremo di capire il passo. Abraamo conosceva e usava il Nome (Gn 18:1-3); Isacco conosceva e usava il Nome (Gn 26:22); Giacobbe pure lo conosceva (Gn 28:13). È quindi ovvio che quando Dio dice di non essere stato conosciuto da loro rispetto al suo nome, intende altro. Nella cultura semitica (e quindi biblica) “conoscere” ha una valenza molto diversa da quella attribuitagli dagli occidentali. Per la Bibbia conoscere non significa applicarsi intellettualmente e ottenere informazioni a livello mentale. Nella Scrittura conoscere significa fare esperienza della persona o della cosa conosciuta. È più che evidente che quando Dio dice a Mosè che ‘non si fece conoscere da loro rispetto al suo nome Yhvh’, intende tutt’altro che far conoscere il “nome” in se stesso, che peraltro già sapevano benissimo. Abraamo, Isacco e Giacobbe avevano usavano di continuo quel nome. La stessa madre di Mosè aveva un nome che includeva quello divino. Ma esso stava per essere rivelato sotto un aspetto nuovo e meraviglioso. Non che Dio volesse cambiarsi nome, no davvero. Si trattava di altro. Gli israeliti stavano per divenire testimoni delle spaventose Dieci Piaghe. Il popolo di Dio stava per essere salvato attraverso il mare. Avrebbero poi ricevuto la meravigliosa Legge (toràh, “insegnamento”) divina al monte Sinày, in circostanze tali da farli tremare terrorizzati. In seguito sarebbero stati protetti attraverso il deserto, per essere infine introdotti nella Terra Promessa (Dt 1:19; Es 6:7,8;14:21-25;19:16-19). Di certo Ez 39:7 non si riferisce alla conoscenza del nome in sé quando Dio vi afferma: “Farò conoscere il mio santo nome in mezzo al mio popolo Israele”. Allo stesso modo, Yeshùa non si riferiva di certo alla conoscenza delle lettere che compongono il nome di Dio quando disse: “Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere”. Interpretare così, all’occidentale, sarebbe banale. E di certo non biblico. Il senso della sua dichiarazione Yeshùa lo spiega lui stesso aggiungendo: “Affinché l’amore col quale mi hai amato sia in loro e io unito a loro” (Gv 17:26). Una cosa che gli occidentali non comprendono è il significato di “nome” nella Bibbia. Per gli occidentali una persona ha un nome; per i semiti la persona è il suo nome. “Come è il suo nome, così è lui” (1Sam 25:25). In Is 30:27 (“Ecco, il nome di Geova viene da lontano, ardente con la sua ira e con gravi nubi”) non si allude a chissà quale lontana etimologia del Nome, fatta risalire a tempi lontani, ma alla persona stessa di Dio. Il nome è la realtà di ciò che il nome evoca, si tratti di Dio, di una persona o di una cosa. Questo è il linguaggio della Bibbia. “‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). Mosè vuol sapere il nome di Dio. Ma non lo sapeva già? Tutti gli ebrei si erano sempre riferiti a Dio come a Yhvh. Evidentemente Mosè era consapevole che quella formula non era proprio un nome, ma era il modo misterioso con cui ci si doveva riferire a Dio. Ma il suo nome? Vista la confidenza con Dio - di cui Mosè godeva fino al punto che Dio parlava “a Mosè faccia a faccia, proprio come un uomo parlerebbe col suo prossimo” (Es 33:1) - egli osa la domanda. Certo con prudenza, usando un giro di parole e attribuendo la domanda ad altri: “Supponiamo che . . . ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). “A ciò Dio disse a Mosè:” (v. 13). Si noti molto attentamente, ma davvero molto attentamente. “A ciò”, cioè alla richiesta di Mosè, Dio “disse”. La Bibbia dice che in realtà Dio non rispose alla richiesta di Mosè. Ma “disse” qualcosa. Per tutta risposta, Dio “disse”: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE” (v. 14; il maiuscoletto è di TNM). Fin qui, quindi, abbiamo che: 1. Mosè, prendendola alla larga, domanda a Dio il suo nome; 2. Dio non glielo rivela, ma per tutta risposta gli dice che sarà chi sarà. Il racconto biblico prosegue con Dio che ribadisce la risposta che Mosè deve dare al popolo: “Quindi Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele:’” (v. 15). Ora qui c’è tutto il nocciolo della questione. Dio ripete due volte a Mosè ciò che egli deve dire agli ebrei. La seconda volta si notano però due cambiamenti nell’espressione divina. Uno s’individua subito: viene aggiunta la specificazione “l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe”. Gli israeliti non devono avere dubbi sull’identità del Dio che incarica Mosè: è il Dio dei loro antenati, il Dio che già conoscono; è sempre lui. La seconda variante sta nella formula “io sono”. Seguiamone l’evoluzione.
1. Alla domanda di Mosè la risposta di Dio era stata: “Io sono chi sono”.
2. È di questo “io sono” che Mosè deve poi riferire al popolo: “L’‘io sono’ mi ha mandato a voi”.
3. Rivolgendosi al popolo Mosè avrebbe poi logicamente dovuto dire “Colui che è”. Ecco la formula finale. Dio rimane per il suo popolo “Colui che è”.
Da notare anche che questa espressione non è un nome proprio. Se lo fosse, non potrebbe esserci variazione: si dovrebbe cioè usare sempre la stessa formula. Invece, quando Dio parla di sé dice “io sono”, ma quando sono gli altri a riferirsi a lui devono dire “Colui che è”. Mosè deve aver certo appreso la lezione. Dio può dirgli ora: “Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione” (v. 15). Mosè voleva sapere il nome di Dio? Si accontenti di questo: Dio è chi vuole essere, egli rimane “Colui che è”.
Con questo “nome” Dio era stato conosciuto per secoli presso il suo popolo: Così doveva rimanere. Anche qui si impone la logica: quel “nome” (Colui che è) era sempre stato usato dagli ebrei prima di allora. L’espressione stessa “colui che è” indica che si doveva ricorrere a questo giro di parole proprio perché non si conosceva il nome di Dio. Il fatto poi che Mosè domandi a Dio il suo nome, dimostra a maggior ragione che “Colui che è” (YHVH) non era il nome. Cosa cambia dopo che Mosè ha domandato a Dio il suo nome? In pratica nulla. Dio ribadisce che devono continuare a chiamarlo “Colui che è” (YHVH, יהוה).
Dato il forte significato che gli ebrei attribuivano al nome di una persona, trattandosi qui del suo stesso nome, Dio lo protegge. Così, a Mosè che vorrebbe conoscerlo, Dio non fa altro che ribadire il modo con cui era già conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. In Es 3:15, nell’attuale testo (il Testo Masoretico) si legge: “Questo è il mio nome a tempo indefinito”, “in eterno” (NR). Abbiamo specificato che si tratta del testo attuale perché la traduzione sopra riportata è stata fatta dal Testo Masoretico, ovvero dal testo vocalizzato dai masoreti alcuni secoli dopo Yeshùa. La parola tradotta con il senso di “per sempre” è nell’ebraico, secondo la vocalizzazione dei masoreti, לעלם (leolàm). Ma nella Bibbia originale tale parola è senza vocali: לעלם (llm). Anziché leolàm è possibile anche vocalizzare in lealèm. Con questa vocalizzazione la frase significa: “Questo è il mio nome perché sia nascosto”. Questo significato appare in perfetta armonia con il contesto. A Mosè che vuole scoprire il nome divino (il più importante che possa esistere nell’universo visibile e invisibile), Dio ribadisce che il suo nome deve rimanere quello con cui Israele lo ha sempre conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. E aggiunge che quello è il suo nome, “perché sia nascosto”. Così, quello nascosto, che Mosè avrebbe voluto conoscere, rimane nascosto.
Come abbiamo visto, Dio non rivela il suo nome a Mosè. Dio dice a Mosè soltanto che lui è “Colui che è”. Questa formula è tanto precisa quanto insondabile. Dietro quel יהוה (Yhvh), “Colui che è”, c’è il Dio uno e unico, eterno e misterioso.
Dio non è un uomo o una donna che ha bisogno di distinguersi da altre persone. Agli ebrei era vietato perfino nominare gli dèi: “Non dovete menzionare il nome di altri dèi. Non si dovrebbe udire sulla tua bocca” (Es 23:13). Il Dio unico, il loro Dio, gli ebrei lo chiamavano “Colui che è”, יהוה (Yhvh). Questa formula, che, in effetti, non era un nome (perché Dio non rivelò a Mosè il suo nome), divenne “il Nome” con cui ci si riferiva a Dio. Si spiega così il fatto che nelle Scritture Ebraiche questo “nome” compare quasi 7.000.
Quando fu data la Legge, Dio prescrisse: “Non ti devi servire del nome di Geova [יהוה (Yhvh), “Colui che è”] tuo Dio in modo indegno, poiché Geova [יהוה (Yhvh), “Colui che è”] non lascerà impunito chi si serve del suo nome in modo indegno” (Es 20:7; cfr. Dt 5:11). L’eccessivo scrupolo ebraico portò gli israeliti ad evitare perfino la menzione di quello che – pur non essendo un nome - era divenuto “il Nome”. Indubbiamente ci fu una cattiva comprensione del comandamento divino. “Si evita di pronunciare il nome YHWH . . . a causa del fatto che si è mal compreso il Terzo Comandamento, ritenendo che significhi ‘non devi nominare il nome di YHWH tuo Dio invano’, mentre in realtà significa ‘non devi giurare falsamente nel nome di YHWH tuo Dio’” (Encyclopaedia Judaica). Quando si iniziò a proibire la pronuncia del tetragramma? “Dal 3° secolo a. E. V. fino al 3° secolo E. V. tale proibizione vigeva ed era in parte osservata”. - A. Marmorstein, The Old Rabbinic Doctrine of God.
Come si sa, l’ebraico si scrive senza vocali. L’ebreo le aggiungeva a voce leggendo il testo. Con il divieto di pronunciare il tetragramma scomparve la sua pronuncia. Come si leggeva יהוה (Yhvh)? In effetti, non lo sappiamo più.
Con il passare dei secoli ci fu una novità per ciò che riguarda la lettura e quindi la possibilità di pronuncia delle parole contenute nelle Scritture Ebraiche. Stiamo parlando di alcuni studiosi ebrei, chiamati masoreti (in ebraico baalèh hammasoràh, “maestri della tradizione”), che fra il 6° e il 10° secolo della nostra èra introdussero un sistema di vocalizzazione del testo ebraico che è solo consonantico. Questo sistema previde dei segni, detti diacritici, che venivano messi sopra, sotto o dentro le lettere (per lasciarle intatte, rispettandole), fungendo da vocali e da accenti.
Come si comportarono i masoreti con il tetragramma? Quando lo incontravano – a causa del divieto che si era creato nell’ebraismo di pronunciarlo – escogitarono un modo che perseguisse due obiettivi: 1. lasciarlo intatto, 2. far sì che si leggesse un’altra parola al posto del tetragramma.
In pratica, non furono inserire le vocali giuste ma quelle del nome che doveva sostituire nella lettura il tetragramma.
Fu scelto il nome sostitutivo Adonày, “Signore”. Quando il tetragramma era preceduto, nel testo biblico, da Adonày, le vocali aggiunte erano quelle di Elhoìm per evitare all'ebreo, durante la lettura, di ripetere due volte Adonày. Comunque, normalmente durante la lettura la sostituzione era fatta con Adonày.
A questo punto occorre conoscere una regola grammaticale della lingua ebraica.
Nella parola Adonày in ebraico (אֲדֹנָי) la prima lettera è la consonante muta àlef (א), che – essendo muta – non si pronuncia. Nella trascrizione italiana non viene trascritta (come nel nostro caso) oppure viene indicata con un apostrofo: ‘Adonày. In effetti, la trascrizione italiana a quale prima lettera di Adonày è la trascrizione della vocale a ֲ appartenente alla àlef (א), e non la trascrizione della àlef.
Ora, dato che il tetragramma (יהוה) non inizia con àlef (א), ma con iòd (י, y), la regola grammaticale non permette il suono chiuso di a ֲ . Così, la a ֲ deve essere sostituita dal suono incolore e ְ , che assomiglia alla e francese, che viene appena accennata o a volte non letta. Alcuni, nella trascrizione italiana mettono questa e ְ come esponente: e.
Le nuove vocali per il tetragramma diventavano quindi queste: e, o, a (messe in italiano da sinistra a destra). Il lettore non ebreo, e solo lui, vedendo il tetragramma con i segni vocalici riportati, legge Yehovàh. Questo errore di lettura cominciò a diffondersi nel 15° secolo della nostra èra. Il lettore ebreo, quando leggeva il testo biblico, non commetteva errori perché sapeva di avere davanti agli occhi due parole in una: una tutta consonanti, l'altra evocata dalle vocali. Egli non pronunciava mai Yehovàh (che sarebbe stato un assurdo), ma Adonày.
L’ebreo dei tempi biblici naturalmente conosceva bene la lettura originale del tetragramma e si accorgeva di trovarsi di fronte ad una parola apparentemente assurda. Era proprio l’assurdità della parola che gli faceva ricordare che doveva dire Adonày. Come se un italiano, tanto per fare un esempio, incontrando la scritta “Dae” si ricordasse di dover leggere “Padre” invece di “Dio”. Sarebbe proprio l’assurdità della parola a ricordarglielo. Si potrebbe obiettare: ma non si farebbe prima a scrivere direttamente “Padre”? Nel nostro esempio senza senso, sì. Ma per i masoreti il tetragramma era intoccabile. Non pensarono mai di sostituirlo. Il loro stratagemma lo lasciava intatto e le vocali estranee aggiunte ne celavano la pronuncia vera proponendone una alternativa.
Una persona non ebrea che sappia appena leggere l’ebraico così com’è e senza tener conto di quanto appena detto, evidentemente - leggendo ad alta voce - leggerà esattamente ciò che trova scritto, cioè Yehovàh.
Come reagirebbe un ebreo a questa lettura? Se è un ebreo non credente, sentendo una lettura del genere, si metterebbe a ridere. Esattamente come rideremmo noi se qualcuno si ostinasse ipoteticamente a leggere Dae nell’esempio fatto.
Se però fosse un ebreo ortodosso, si offenderebbe davvero molto, perché vedrebbe storpiato il sacro tetragramma con un suono grottesco.
Gli studiosi si sono domandati se sia possibile risalire a come si pronunciava il tetragramma prima che fosse stabilita la regola di sostituirlo con Adonày. Gli studiosi hanno cercato di ricostruirne la pronuncia esatta, ma nulla di definitivo è stato ancora raggiunto. Per ora la pronuncia più verosimile appare Yahvèh.
Questa ipotesi è avvalorata dalla presenza nella Bibbia di decine e decine di passi in cui compare la forma abbreviata Yah (יָהּ). La forma abbreviata Yah (יָהּ) costituisce la prima metà del tetragramma (יהוה, YHWH). Nel testo masoretico questa forma ricorre 49 volte, ed è contrassegnata da un punto (detto mapìk) all’interno nella seconda lettera: יָהּ. Una sola volta appare senza il mapìk, in Cant 8:6 (יָה).
In Is 12:2;26:4 appare la formula יָהּ יְהוָה (Yah Yhvh). La forma abbreviata Yah appare anche quattro volte nelle Scritture Greche (Riv 19:1,3,4,6) nella parola Ἁλληλουιά (alleluià).
Proprio questa ultima parola (“alleluia”, “lodate Yah”) è tra le ragioni che fanno propendere per la lettura Yavèh. La forma ebraica הללויה (haleluyàh) contiene, infatti, nella parte finale l’inizio del tetragramma (יה).
Si aggiunga il tradizionale ‘Iaße (Iabe) di Teodoreto ed Epifanio. In greco il suono v non esiste, per cui viene sostituito con il suono b (ß). La parola, ricostruita con il suono v ebraico, diventa Iavè.
Diversi studiosi spiegano Yahvèh come forma grammaticale hiphil del verbo ebraico הוה (havà), “divenire”. Il significato sarebbe quindi quello di “colui che porta all’esistenza, colui che dona vita, creatore”. Questa è anche la scelta fatta dalla Watchtower, che lo rendono con: “Egli fa divenire”. Ma è soltanto un’ipotesi. A me pare che il contesto di Es – di cui abbiamo ampiamente ragionato più sopra – faccia propendere per il verbo היה (hayàh), “essere”. In tal caso il tetragramma significa: “Colui che è”.
L’influenza del comandamento di non pronunciare il nome divino su ciò che è vano fu tanto forte che il giudaismo giunse a sopprimere totalmente la pronuncia del nome divino nonostante che esso, secondo gli stessi testi biblici (Es 3:4;6:2), fosse stato ribadito al popolo nella rivelazione del roveto ardente in vista della liberazione dall’Egitto. Dio aveva tenuto nascosto il suo vero nome a Mosè, ma aveva detto che il popolo doveva chiamarlo col nome, che già conoscevano, di Yhvh (“Colui che è”). Questa proibizione, ai tempi di Yeshùa era già in vigore da secoli. Circa nel 150 E. V. Abba Shaul giunse ad affermare che chi pronuncia il tetragramma non avrà parte al mondo futuro. Così che il lettore sinagogale che incontrava il tetragramma pronunciava al suo posto Adonày (“Signore”) invece di Yhvh. Per aiutare il lettore a pronunciare Adonày, addirittura si vocalizzarono – come abbiamo visto - le quattro consonanti del tetragramma (YHWH) con le vocali di Adonày, e questa strana somma di consonanti di un nome proprio e di vocali di un nome comune diedero e danno il risultato di YeHoVaH , da cui il “Geova” dei Testimoni di Geova, che lo lessero come JeHoVaH all’inglese, con J letta come g dolce (che non ha alcun rapporto con la prima lettera del tetragramma – in ebraico il suono g dolce non esiste neppure). Lo stratagemma ideato dai masoreti per camuffare il tetragramma fu scoperto dagli studiosi solo nel 20° secolo. Da circa il 1500, e per circa 500 anni, si fece l’errore di leggere il tetragramma come YeHoVaH.
Abbiamo visto come l’ignoranza dell’uso masoretico abbia portato alla assurda lettura Jehovàh sin dal 1520 della nostra èra. Adottando questa lettura errata, il pastore C. T. Russel (che non era al corrente delle scoperte circa lo stratagemma dei masoreti), essendo di lingua inglese, peggiorò la già sbagliata parola Jehovàh. Vediamo cosa accadde.
Il tetragramma (יהוה) inizia con la lettera iòd (י). Questa lettera viene trascritta nell’alfabeto latino (usato anche dagli inglesi) con y oppure j. Quale di queste due lettere è più idonea a traslitterale la iòd (י)? Di regola la j. Ma la j come la usavano i latini. E come si usava anche in italiano prima che la lettera sparisse dal nostro alfabeto. Pochi sanno che – sebbene la lettera j non sia più usata nell’italiano scritto – la sua pronuncia è rimasta. Probabilmente la quasi totalità degli italiani crede che esista in italiano un’unica i. In effetti, nella scrittura, è così. L’italiano non è affatto, però, una lingua che si legge come si scrive, cosa che probabilmente moltissimi italiani credono. In italiano esistono ben tre i, sebbene nella scrittura ne esista una sola. C’è la i muta, che non si legge, come in “chiacchierare” (che diventa chiaccherare nella pronuncia). C’è poi la i della parola “isola”. Ma c’è anche la i della parola “iena”. Se si pronunciano lentamente le parole “isola” e “iena”, indugiando sulla i iniziale, chi non lo sapeva può rimanere stupito nell’accorgersi che si tratta di due i molto diverse nella pronuncia. Ecco, la i di “iena” corrisponde alla j. Nei primi decenni del 1900 Pirandello scriveva ancora jena, come testimoniano i suoi capolavori letterari.
Di regola, quindi, la iòd (י), prima lettera del tetragramma, andrebbe trascritta con j. Sarebbe quindi più corretto trascrivere il tetragramma così: JHVH. Perché allora qui preferiamo trascriverlo con la y? Per evitare che i semplici facciano l’errore di pronunciare la j con il suono della g dolce di “gente”. In un tempo in cui in Italia non si va più all’autolavaggio ma al “caruòsh”, perché ormai si usa parlare “italese”, ci sembra una precauzione doverosa. Già molte parole latine vengono storpiate, come “summit” e “media”, che vengono lette all’inglese sammit e midia dai semplici che non sanno che si tratta di parole latine. L’italiano poco istruito che, come diceva una nota canzone, “vo’ fa’ l’ammericano”, riesce perfino a leggere pràivasi la parola inglese “privacy” che ogni suddito di sua Maestà la regina legge giustamente prìvasi. Cosa accadrebbe con la j del tetragramma? Si è già udito qualcuno che con aria da saccente lo ha pronunciato come la j francese!
Per l’americano Russel fu giocoforza leggere Jehovah come “Gihòva”, facendo anche erroneamente regredire l’accento. Per lui la j era la “gèi”. La parola italiana “Geova” fu l’imitazione di quella americana, con ulteriore arretramento dell’accento tonico: Gèova.
Ma la questione è ancora più sottile. Per Russel e i suoi affiliati Jehovah era il nome di Dio che trovavano nelle loro Bibbie americane. Ma non si chiamavano ancora Testimoni di Geova. Così fu per più di cinquant’anni. Il cambio di nome avvenne nell’agosto del 1931 sotto la presidenza di Rutherford, quando applicarono a se stessi ciò che Dio rivolge invece al suo popolo Israele: “Voi siete i miei testimoni” (Is 43:10). A quel tempo era già stato accertato che Jehovah era la pronuncia sbagliata del tetragramma. Ma Rutherford era esperto di questioni legali, non di scienze bibliche. Leggendo nelle Bibbie di lingua inglese Jehovah, si chiamarono Jehovah’s Witnesses (Testimoni di Geova). Tenuto conto che poi il nome Jehovah divenne un cavallo di battaglia nella loro predicazione, si comprende come ora il tornare indietro sia pressoché impossibile.
L’unica strada percorribile per chi non vuole riconoscere il proprio errore è solo quella di continuare a giustificarlo. Ecco allora una di queste giustificazioni: Il nome Geova è estesamente accettato come equivalente del Tetragramma nella lingua italiana.
Un altro tentativo di giustificazione viene fatto citando documenti in cui compare il nome spurio. Antonio Brucioli fu il traduttore di una delle prime Bibbie in italiano; nell’edizione stampata a Venezia nel 1551 egli usò in Es 6:3 la forma “Ieova”. Commentando questo stesso versetto, il Brucioli aveva detto: ‘IEOVA è il sacratissimo nome di Iddio’”. Nel 1551, però, non era ancora noto agli studiosi l’errore, oggi ormai accertato, nella trascrizione del tetragramma. Anzi, era appena iniziata la moda di leggere il tetragramma proprio nella forma letterale del Testo Masoretico. La stessa identica cosa vale per la scritta “Ieova” che compare sull’altare della chiesa cattolica di Vezzo, in provincia di Novara. La scritta risale al 1886: neppure allora era noto l’errore di trascrizione del tetragramma.
Un altro tentativo di giustificazione è il richiamarsi alla pronuncia della parola “Gesù”. Noi siamo tra quelli che rifiutano la pronuncia “Gesù”, preferendo l’originale Yeshùa. Tuttavia, la forma “Gesù” è l’italianizzazione del greco Iesùs. Questo è il nome che compare nei testi originali. A noi non sembra corretto tradurre una traduzione, in quanto Iesùs è già una traduzione (quella greca dell’ebraico Yeshùa). Tuttavia, chi traduce “Gesù” ha pur sempre un appoggio biblico: è la parola del testo greco originale. Ma “Geova” è la traduzione di quale parola greca? Lo ripetiamo ancora: in greco una traduzione del tetragramma non esiste. E non esiste non solo perché non c’è nei manoscritti: non c’è proprio nell’intero vocabolario del greco antico.
La verità è che “Geova” è la trascrizione errata del sacro tetragramma. Chi fa dell’uso del “nome” di Dio una delle fondamentali esigenze della vera religione, non ha molta possibilità di riconoscere che quel nome è la trascrizione errata del sacro tetragramma e che come tale dovrebbe essere rifiutato. Alla fin fine, si è prigionieri di se stessi. E nulla vale far notare che santificare il nome di Dio usando un nome decisamente errato non è davvero il modo più opportuno di santificarlo.
Abbiamo visto come il tetragramma divenne Yehovàh solo nella scrittura, pur essendo letto Adonày. Già il motivo per cui furono inserite nel tetragramma le vocali di Adonày spiega e dimostra in sé che non erano le vocali originali del tetragramma.
Ma, dato che non conosciamo la pronuncia esatta del tetragramma, non potrebbe essere proprio Yehovàh quella giusta? Assolutamente no. Qualsiasi altra combinazione di vocali potrebbe avere una possibilità, qualche combinazione particolare potrebbe avere perfino una probabilità. Ma Yehovàh non ne ha alcuna, assolutamente nessuna. In modo certo e sicuro. Perché? Perché le vocali di Yehovàh furono inserire proprio per evitare la pronuncia giusta del tetragramma.
La Settanta (LXX) è la traduzione greca delle Scritture Ebraiche. Essa fu iniziata verso il 280 a. E. V.. Questa traduzione seguiva la consuetudine di sostituire il tetragramma con i termini greci κύριος (Kǘrios, “Signore”) o θεὸς (Theòs, “Dio”). Questo almeno stando ai manoscritti che risalgono al 4° e 5° secolo della nostra èra. Di recente, però, sono state scoperte copie più antiche, rotoli in pergamena datati al 1° secolo della nostra èra. Queste – benché frammentarie – hanno rivelato che vi è presente il tetragramma. Non la traduzione del tetragramma, ma il tetragramma in lettere ebraiche antiche, in caratteri paleoebraici. Nella lingua greca, infatti, non esiste né la traslitterazione né tanto meno la traduzione del tetragramma. Il nome “Geova” che si trova nella letteratura biblica in lingua greca appartiene al greco moderno. Nel greco antico (e quindi anche nelle Scritture Greche) la parola non esiste proprio.
Al tempo di Yeshùa – lo sappiamo già – era ormai in vigore in Israele da alcuni secoli l’uso di non leggere il tetragramma. I giudei si erano perciò abituati a riferirsi a Dio in alcuni modi caratteristici e particolari. Questi modi includevano espressioni particolari o un uso particolare dei verbi.
Nomi. I nomi sostitutivi del tetragramma più frequenti erano:
● Hashamàym, “il Cielo”, “i Cieli”
● Hamaqòm, “il Luogo”
● “Il Trono”
● “Il Nome”
● “Il Santo”
● “Signore”
● “Re”; “Gran Re”
● “Padre che sei nei cieli”
● “Colui che”
● “La Potenza”
● “Alto”.
Questa è solo una lista esemplificativa. Le espressioni usate erano molte di più. Yeshùa si attenne a questo sistema usato dai giudei? Sì. Si pensi solo al fatto che Yeshùa fa dire al figlio prodigo: “Ho peccato contro il cielo” (Lc 15:18,21). Si vedano altri passi: Mt 21:25; Mt 11:25; Mt 23:22; Mr 14:62; Mt 5:34,35; Mt 4:17; “A meno che uno non nasca di nuovo” (Gv 3:3; testo greco: “generato dall’alto”).
Uso dei verbi. Il tetragramma divino è poi talvolta sostituito da un participio o da una perifrasi verbale. Così Yeshùa dice: “Chiunque riceve me riceve [anche] colui che mi ha mandato” (Lc 9:48). Adattandosi all’uso giudaico del tempo, Yeshùa si riferisce a Dio come a “Colui che” fa qualcosa. “Temete piuttosto colui che può distruggere sia l’anima che il corpo nella Geenna” (Mt 10:28). “Chi giura per il tempio giura per esso e per colui che vi abita, e chi giura per il cielo giura per il trono di Dio e per colui che vi siede sopra” (Mt 23:21,22).
Ci sono altre due forme verbali sostitutive del tetragramma. Nel primo caso, invece di mettere il tetragramma divino, gli evangelisti omettono il soggetto della frase e mettono il verbo al plurale. Questa procedura risulta del tutto sconosciuta a chi non conosce bene la Bibbia. Il motivo è che il verbo al plurale che si trova nei testi originali suona male al nostro orecchio. Nelle traduzioni correnti si preferisce quindi evitarlo, sostituendolo con il passivo impersonale. Qualche esempio chiarirà il punto. In Lc 6:38 Yeshùa dice (stando alla traduzione): “Vi sarà versata in grembo una misura eccellente, pigiata, scossa e traboccante”. Si noti il passivo impersonale: “Vi sarà data”. In realtà Yeshùa si espresse diversamente. Ecco il testo originale: δώσουσιν (dòsusin), “daranno”. Il Lc 12:20 viene mantenuto il verbo al plurale, perché anche nella traduzione italiana suona bene; Yeshùa dice “Irragionevole, questa notte ti chiederanno la tua anima”. Chi richiede la vita dello stolto è indubbiamente Dio. Yeshùa, secondo l’uso dei giudei, evita la menzione di Dio e usa il verbo al plurale: “Ti chiederanno”.
Il passo di Lc 16:9 appare alquanto oscuro in TNM: “Fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste, affinché, quando queste verranno meno, essi vi ricevano nelle dimore eterne”. La prima parte è chiara: Yeshùa consiglia di farsi degli amici usando bene il proprio denaro; le “ricchezze ingiuste” non sono altro che i beni accumulati in questo mondo: non sono ingiuste perché ottenute illegalmente, ma solo perché di questo mondo. Il problema è nella traduzione della seconda parte: “Essi vi ricevano nelle dimore eterne”. Così tradotto, “essi” non può che riferirsi agli “amici” precedenti. Ci domandiamo come sia mai possibile che tali persone, diventate amiche grazie alle ricchezze condivise con loro, possano avere la facoltà di accogliere chi ha agito accortamente con loro “nelle dimore eterne”. Può darsi che essi stessi non entrino “nelle dimore eterne”, ma – anche se ci entrassero – che potere avrebbero mai di accogliere lo scaltro che se li è fatti amici? Se poi immaginiamo che Yeshùa si riferisse a se stesso e a Dio, come poteva Yeshùa includersi fra i proprietari delle “dimore eterne” se ancora non aveva mostrato la sua fedeltà fino alla morte e ancora non era stato costituito “erede di tutte le cose” (Eb 1:2)? Da buoni studiosi preferiamo sempre riferirci alla Scrittura prima di accampare ipotesi. Il contesto del passo (vv. 1-8) riporta la parabola di Yeshùa su un tale che manipolando la contabilità del suo padrone si fa amici alcuni debitori falsificando i libri contabili così da diminuire l’importo dei loro debiti. Il suo scopo è chiarito: “Quando sarò cacciato dalla gestione, mi ricevano nelle loro case [quelle dei debitori avvantaggiati]” (v. 4). La morale della parabola sta nel finale: “Il suo signore lodò l’economo, benché ingiusto, perché aveva agito con saggezza” (v. 8). Qui non si giustifica affatto il falso in bilancio, ma si pone l’attenzione sull’avvedutezza dell’economo furbacchione. Yeshùa fa questa applicazione della sua stessa parabola: “I figli di questo sistema di cose, nei loro rapporti con quelli della propria generazione, sono più saggi dei figli della luce” (v. 8). “Saggi” non è proprio la parola giusta: Yeshùa parla di φρονιμώτεροι (fronimòteroi), “attenti ai propri interessi”. Comunque, si parla di “rapporti con quelli della propria generazione”. Yeshùa sta parlando di cose quotidiane, della vita di tutti i giorni. Quando nell’applicazione finale della parabola consiglia di ‘farsi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste’ (v. 9), è semplicemente ovvio che sta suggerendo di intrattenere relazioni buone con il prossimo. Ma Yeshùa va oltre: “Se non vi siete mostrati fedeli riguardo alle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere?” (v. 11). Come dire: se non avete saputo usare bene le ricchezze materiali, chi vi affiderà quelle vere? Yeshùa allude all’al di là. “Non potete essere schiavi di Dio e della Ricchezza” (v. 13). Occorre scegliere: o si usano bene le ricchezze materiali, condividendole, oppure si rimane schiavi di esse rinunciando a sottomettersi a Dio. È in questo contesto che Yeshùa dichiara:
ἵνα δέξωνται ὑμᾶς εἰς τὰς αἰωνίους σκηνάς
ìna dècsontai ümàs èis tas aionìus skenàs
affinché accolgano voi in le eterne tende
Siamo qui di fronte proprio ad uno di quei casi in cui per nominare Dio evitando il tetragramma si usa il verbo al plurale senza soggetto. Come abbiamo già osservato, nelle traduzioni italiane ciò si rende con il passivo. Se volessimo renderlo in italiano lasciando intatto il senso, avremmo: “Affinché vi si riceva nelle dimore eterne”.
Un altro modo usato dai giudei per evitare la menzione di Dio è quello che potremmo chiamare il “passivo divino”. Dato il grandissimo rispetto che gli ebrei avevano per Dio, evitavano perfino di nominarlo. Ancora oggi, se capita di leggere la saggistica di ebrei molto ortodossi tradotta in italiano, si troverà spesso questa forma: “D-o”. Non osano neppure scrivere “Dio”! I giudei del tempo di Yeshùa usavano la parola “Dio”, e Yeshùa stesso la usò, sebbene mai il tetragramma. Ma ogni volta che potevano, lo evitavano. Le nostre traduzioni delle Scritture Greche di solito conservano il “passivo divino”. Si veda Mt 5:4: “Felici quelli che fanno cordoglio, poiché saranno confortati”. Qui il passivo “saranno consolati” significa “Dio li consolerà”.
Questo tipo di passivo, in sostituzione della menzione di Dio, nei soli quattro vangeli ricorre un centinaio di volte. Il lettore occidentale che ha scarsa o nessuna conoscenza di cultura biblica, non se ne accorge neppure. “Felici i misericordiosi, poiché sarà loro mostrata misericordia” (Mt 5:7): Dio sarà misericordioso con loro. “Col giudizio col quale giudicate, sarete giudicati” (Mt 7:2): Dio vi giudicherà. “Continuate a chiedere, e vi sarà dato” (Mt 7:7): Dio vi darà.
Questo era il normale modo di esprimersi di Yeshùa, che era poi quello di tutti i giudei del suo tempo. Sebbene Yeshùa contestasse diverse tradizioni sbagliate che i giudei avevano, su questo non solo non ebbe da ridire ma lo adottò lui pure.
Si noti Mr 2:5-7: “Quando Gesù vide la loro fede disse al paralitico: ‘Figlio, i tuoi peccati ti sono perdonati’. Ora erano là seduti degli scribi, che ragionavano nei loro cuori: ‘Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia. Chi può perdonare i peccati se non uno solo, Dio?’”. Qui Yeshùa rende noto al paralitico che Dio lo perdona. Può farlo perché “il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra” (v. 10), ma è sempre Dio che concede il perdono. Yeshùa è così riguardoso che non nomina Dio e usa il solito passivo: “I tuoi peccati ti sono perdonati”. Nella loro reazione gli scribi usano invece la parola “Dio”. Questo contesto illustra bene l’uso attento che si faceva della parola “Dio”. Yeshùa, data la situazione, usa il passivo. Gli scribi, orgogliosi di esaltare Dio, lo menzionano. E stiamo parlando solo della parola “Dio”, non del tetragramma!
Quando Yeshùa si rivolgeva a Dio in preghiera, lo invocava non come “Geova”, ma sempre come “Padre”. Adopera questo termine ben sei volte nella sola preghiera finale con i discepoli (Gv 17).
Perfino nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture non si dice mai che Yeshùa si sia rivolto al Padre chiamandolo “Geova”. Come osserva C. Savasta: “Gesù evita accuratamente di pronunziare il nome divino. Infatti, ad esempio, dinanzi al sinedrio, al sommo sacerdote che gli chiede se fosse lui «il Cristo, il Figlio del Benedetto», Gesù risponde (Mc 14,61-62; cf. Mt 26,63-64): «... vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza...», invece che «alla destra di JHWH» del Salmo 110,1, qui citato assieme a Dn 7,14, adeguandosi così all’uso ebraico di astenersi dal pronunziare il nome JHWH, come aveva fatto appunto il sommo sacerdote che lo interrogava, e questo proprio nell’occasione più adatta per dissociarsi pubblicamente da quest’uso, se non si fosse a sua volta conformato a esso. È del tutto improbabile quindi che egli lo pronunziasse in altre occasioni” (Il Nome Divino nel NT, in Rivista Biblica n. 1/1998, pag. 90; corsivo e maiuscole sono dell’autore).
Perciò, è evidente che quando in preghiera disse: “Padre nostro [che sei] nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Mt 6:9), il termine “nome” fu usato in un senso più profondo, più ampio, per intendere la Persona stessa. Se, ragionando all’occidentale, Yeshùa intendeva che fosse menzionato il Nome, perché non lo fece mai? Quale occasione più adatta di quella? Eppure c’è la totale assenza dell’appellativo “Geova” non solo nelle preghiere ma in tutte le parole di Yeshùa, perfino in TNM. “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11:1). E Yeshùa ce lo insegnò. Non incluse il Nome nella preghiera; invece, egli ci insegnò a seguire il suo esempio, invocando il “Padre”.
La notte prima della sua morte, sia parlando direttamente con i discepoli sia nella lunga preghiera che fece, Yeshùa parlò del “nome” di Dio per quattro volte. Eppure, per tutta la notte, sia nei consigli che nell'incoraggiamento ai discepoli, sia in preghiera, non troviamo un solo caso in cui si faccia uso del nome “Geova”, neppure in TNM. Invece, troviamo che Yeshùa adoperò significativamente l'appellativo “Padre” per circa cinquanta volte! Il giorno seguente, in punto di morte, non invocò il nome “Geova”, ma disse: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27:46). Le ultime parole della sua vita terrena furono: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23:46). “Detto questo, spirò”.
Nel testo critico delle Scritture Greche il tetragramma non compare mai. Figurarsi, quindi, se si può inserivi il tetragramma camuffato dai masoreti, cioè JeHoVaH. Farlo equivale a manipolazione del testo originale. Neppure possiamo sostenere che gli scribi tolsero il Tetragramma dalle Scritture Greche e lo sostituirono con Kỳrios, ‘Signore’ o Theòs.
Ora s’impone una semplice riflessione. È mai possibile che tutte le comunità dei discepoli dei tempi antichi che ci hanno lasciato circa 5000 manoscritti abbiamo concordato d’introdurre la stessa modifica in tutti i manoscritti? Dato che è documentata la grande venerazione che esse avevano per gli scritti sacri, questa ipotesi non ci appare possibile. Un’altra domanda che ci viene è questa: se esistevano alcuni manoscritti che contenevano il tetragramma (e stiamo dicendo tetragramma, non JeHoVaH), è mai possibile che ci siano giunti solo quelli modificati e che gli altri siano andati tutti persi? Sembra di avere a che fare con la teoria dell’evoluzione, che si arrampica sui vetri delle ipotesi. La realtà è che non esiste il minimo frammento di manoscritto delle Scritture Greche che contenga il tetragramma. Neppure un brandello.
Ma i problemi aumentano se s’insinua che dietro dei presunti cambiamenti ci sia la mano diabolica. Se questa tesi fosse attendibile, dovremmo conseguentemente domandarsi: quale affidabilità può offrire un testo che ha subìto alterazioni così radicali? In quali altri brani biblici l’intervento satanico ha compiuto manomissioni così diaboliche? In sostanza: quanto è attendibile il messaggio di Dio che viene fuori dalle Scritture Greche se fossero state così vastamente manomesse? Che dire poi della figura di Yeshùa? Se lo zampino diabolico di satana è andato ad incidere su un nome, che avrà mai combinato con il resto? Non osiamo pensare al resto di tutta la Bibbia.
Personalmente, però, credo che Dio sappia preservare la sua parola scritta. Comunque, questa tesi del ci obbliga a fare una riflessione. E questa porta come conseguenza logica a sole due possibilità:
1. Il testo delle Scritture Greche è stato manipolato da scribi diabolicamente suggestionati che hanno eliminato ogni riferimento al “nome” divino. Dal che si deve necessariamente dedurre che Dio non avrebbe esercitato alcuna forma di protezione per salvaguardare l'integrità del suo “nome”.
2. Le Scritture Greche non hanno subìto alcuna alterazione sostanzialmente rilevante. Il che dimostra la vigile cura di Dio nella preservazione della Bibbia.
Personalmente sono decisamente e convintamene per la seconda possibilità. La trasmissione della Scrittura è accurata.
Crediamo che si debba ripensare la legittimità dell'eccezionale importanza attribuita al tetragramma. È un fatto che Dio è l’autore delle Scritture Greche, che fanno parte della sua parola scritta, la Bibbia. È un fatto che esse sono state preservate per suo volere. È un fatto che esse ci sono giunte in modo accurato sotto la sua divina guida. Ed è un fatto che in esse il tetragramma non compare.
Ne consegue che la conoscenza di un particolare “nome” divino non costituisce un requisito essenziale per individuare la pura forma di adorazione approvata da Dio. Se poi si aggiunge che il “nome” tanto innalzato non è affatto il sacro tetragramma ma la forma spuria JeHoVaH creata ad arte dai masoreti proprio per celare il tetragramma, dobbiamo concludere che occorre ripensare l’approccio l’occidentale al Nome.
La conoscenza del “nome” non va intesa all’occidentale. Di coloro che già conoscevano (nel senso occidentale) il “nome” e lo usavano pure, Dio dice: “Rispetto al mio nome יהוה non mi feci conoscere da loro” (Es 6:3). Conoscere il “nome” di Dio significa ben altro che accanirsi sulla forma volutamente alterata dai masoreti.
L’ipotesi avanzata dallo studioso George Howard, da lui stesso definita una “teoria”, rimane solo un’ipotesi per due ragioni:
1. Nessuno dei supposti manoscritti greci che avrebbero dovuto contenere il tetragramma è stato mai ritrovato; proprio come il famoso “anello mancante” degli evoluzionisti.
2. Nessuno degli oltre 5.000 manoscritti nel greco originale contiene il tetragramma.
È ormai appurato da circa un secolo che i masoreti camuffarono il sacro tetragramma inserendovi le vocali di Adonày per non farlo pronunciare. Ne venne fuori il nome senza senso JeHoVaH. Ciò è riconosciuto perfino dalla Watchtower. Ora, inserendo la forma JeHoVaH nelle versioni bibliche, non si fa altro che continuare l’opera di quei masoreti. Con una differenza, però. Tristemente grave. I masoreti erano perfettamente consapevoli che la pronuncia di Adonày sostituiva quella vera del tetragramma. Il loro profondo rispetto per “il Nome” li portò a proteggerlo in modo indubbiamente eccessivo. Ma era rispetto. Prendere la loro forma spuria JeHoVaH per buona e insistere su di essa, inserendola addirittura nella Bibbia, è solo un accanimento religioso contrario alla verità, alla filologia e alla storia. Gli stessi masoreti ne sarebbero scandalizzati. E profondamente indignati. Per l’affronto blasfemo fatto al “Nome”. Ci sia consentito di poter sempre dire, con Paolo: “Abbiamo rinunciato alle cose subdole di cui c’è da vergognarsi, non camminando con astuzia, né adulterando la parola di Dio, ma rendendo la verità manifesta”. - 2Cor 4:2.