Il nome di Dio nelle sue varie forme

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Roberto Carson
00domenica 7 febbraio 2010 14:00
Il tetragramma del nome divino יהוה è stato vocalizzato in diversi modi, dando vita a varie forme del nome di Dio, tra cui: Yahweh, Yehowah, Hawah, Yahowah o Yahuwah.

Tenendo conto che probabilmente non si potrà mai ricostruire perfettamente il nome di Dio nella sua forma originale (andata perduta ormei da secoli), alla luce delle conoscenze semantiche e filologiche odierne, tra le varie forme, quale potrebbe essere una delle più attendibili?
CieloSegreto
00lunedì 8 febbraio 2010 11:37
Valutazioni.
La questione è certo complessa, tuttavia si può venirne a capo tramite un’indagine biblica, filologica e storica. Si può partire dalla presunta rivelazione del Nome in Es 3. Mosè, dice a Dio: “Supponiamo che ora io sia andato dai figli d’Israele e realmente dica loro: ‘L’Iddio dei vostri antenati mi ha mandato a voi’, ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). Prima di proseguire va notato che Mosè conosceva già il modo con cui Dio era chiamato. Si noti cosa dice Dio in Es 6:2,3: “Io sono Geova. E apparivo ad Abraamo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma rispetto al mio nome Geova non mi feci conoscere da loro”. È facile per il moderno lettore occidentale applicare i propri schemi mentali e intendere qui che il nome “Geova” non era stato rivelato ai tre patriarchi. Smentiamo subito questa interpretazione, poi cercheremo di capire il passo. Abraamo conosceva e usava il Nome (Gn 18:1-3); Isacco conosceva e usava il Nome (Gn 26:22); Giacobbe pure lo conosceva (Gn 28:13). È quindi ovvio che quando Dio dice di non essere stato conosciuto da loro rispetto al suo nome, intende altro. Nella cultura semitica (e quindi biblica) “conoscere” ha una valenza molto diversa da quella attribuitagli dagli occidentali. Per la Bibbia conoscere non significa applicarsi intellettualmente e ottenere informazioni a livello mentale. Nella Scrittura conoscere significa fare esperienza della persona o della cosa conosciuta. È più che evidente che quando Dio dice a Mosè che ‘non si fece conoscere da loro rispetto al suo nome Yhvh’, intende tutt’altro che far conoscere il “nome” in se stesso, che peraltro già sapevano benissimo. Abraamo, Isacco e Giacobbe avevano usavano di continuo quel nome. La stessa madre di Mosè aveva un nome che includeva quello divino. Ma esso stava per essere rivelato sotto un aspetto nuovo e meraviglioso. Non che Dio volesse cambiarsi nome, no davvero. Si trattava di altro. Gli israeliti stavano per divenire testimoni delle spaventose Dieci Piaghe. Il popolo di Dio stava per essere salvato attraverso il mare. Avrebbero poi ricevuto la meravigliosa Legge (toràh, “insegnamento”) divina al monte Sinày, in circostanze tali da farli tremare terrorizzati. In seguito sarebbero stati protetti attraverso il deserto, per essere infine introdotti nella Terra Promessa (Dt 1:19; Es 6:7,8;14:21-25;19:16-19). Di certo Ez 39:7 non si riferisce alla conoscenza del nome in sé quando Dio vi afferma: “Farò conoscere il mio santo nome in mezzo al mio popolo Israele”. Allo stesso modo, Yeshùa non si riferiva di certo alla conoscenza delle lettere che compongono il nome di Dio quando disse: “Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere”. Interpretare così, all’occidentale, sarebbe banale. E di certo non biblico. Il senso della sua dichiarazione Yeshùa lo spiega lui stesso aggiungendo: “Affinché l’amore col quale mi hai amato sia in loro e io unito a loro” (Gv 17:26). Una cosa che gli occidentali non comprendono è il significato di “nome” nella Bibbia. Per gli occidentali una persona ha un nome; per i semiti la persona è il suo nome. “Come è il suo nome, così è lui” (1Sam 25:25). In Is 30:27 (“Ecco, il nome di Geova viene da lontano, ardente con la sua ira e con gravi nubi”) non si allude a chissà quale lontana etimologia del Nome, fatta risalire a tempi lontani, ma alla persona stessa di Dio. Il nome è la realtà di ciò che il nome evoca, si tratti di Dio, di una persona o di una cosa. Questo è il linguaggio della Bibbia. “‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). Mosè vuol sapere il nome di Dio. Ma non lo sapeva già? Tutti gli ebrei si erano sempre riferiti a Dio come a Yhvh. Evidentemente Mosè era consapevole che quella formula non era proprio un nome, ma era il modo misterioso con cui ci si doveva riferire a Dio. Ma il suo nome? Vista la confidenza con Dio - di cui Mosè godeva fino al punto che Dio parlava “a Mosè faccia a faccia, proprio come un uomo parlerebbe col suo prossimo” (Es 33:1) - egli osa la domanda. Certo con prudenza, usando un giro di parole e attribuendo la domanda ad altri: “Supponiamo che . . . ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). “A ciò Dio disse a Mosè:” (v. 13). Si noti molto attentamente, ma davvero molto attentamente. “A ciò”, cioè alla richiesta di Mosè, Dio “disse”. La Bibbia dice che in realtà Dio non rispose alla richiesta di Mosè. Ma “disse” qualcosa. Per tutta risposta, Dio “disse”: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE” (v. 14; il maiuscoletto è di TNM). Fin qui, quindi, abbiamo che: 1. Mosè, prendendola alla larga, domanda a Dio il suo nome; 2. Dio non glielo rivela, ma per tutta risposta gli dice che sarà chi sarà. Il racconto biblico prosegue con Dio che ribadisce la risposta che Mosè deve dare al popolo: “Quindi Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele:’” (v. 15). Ora qui c’è tutto il nocciolo della questione. Dio ripete due volte a Mosè ciò che egli deve dire agli ebrei. La seconda volta si notano però due cambiamenti nell’espressione divina. Uno s’individua subito: viene aggiunta la specificazione “l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe”. Gli israeliti non devono avere dubbi sull’identità del Dio che incarica Mosè: è il Dio dei loro antenati, il Dio che già conoscono; è sempre lui. La seconda variante sta nella formula “io sono”. Seguiamone l’evoluzione.
1. Alla domanda di Mosè la risposta di Dio era stata: “Io sono chi sono”.
2. È di questo “io sono” che Mosè deve poi riferire al popolo: “L’‘io sono’ mi ha mandato a voi”.
3. Rivolgendosi al popolo Mosè avrebbe poi logicamente dovuto dire “Colui che è”. Ecco la formula finale. Dio rimane per il suo popolo “Colui che è”.
Da notare anche che questa espressione non è un nome proprio. Se lo fosse, non potrebbe esserci variazione: si dovrebbe cioè usare sempre la stessa formula. Invece, quando Dio parla di sé dice “io sono”, ma quando sono gli altri a riferirsi a lui devono dire “Colui che è”. Mosè deve aver certo appreso la lezione. Dio può dirgli ora: “Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione” (v. 15). Mosè voleva sapere il nome di Dio? Si accontenti di questo: Dio è chi vuole essere, egli rimane “Colui che è”.
Con questo “nome” Dio era stato conosciuto per secoli presso il suo popolo: Così doveva rimanere. Anche qui si impone la logica: quel “nome” (Colui che è) era sempre stato usato dagli ebrei prima di allora. L’espressione stessa “colui che è” indica che si doveva ricorrere a questo giro di parole proprio perché non si conosceva il nome di Dio. Il fatto poi che Mosè domandi a Dio il suo nome, dimostra a maggior ragione che “Colui che è” (YHVH) non era il nome. Cosa cambia dopo che Mosè ha domandato a Dio il suo nome? In pratica nulla. Dio ribadisce che devono continuare a chiamarlo “Colui che è” (YHVH, יהוה).
Dato il forte significato che gli ebrei attribuivano al nome di una persona, trattandosi qui del suo stesso nome, Dio lo protegge. Così, a Mosè che vorrebbe conoscerlo, Dio non fa altro che ribadire il modo con cui era già conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. In Es 3:15, nell’attuale testo (il Testo Masoretico) si legge: “Questo è il mio nome a tempo indefinito”, “in eterno” (NR). Abbiamo specificato che si tratta del testo attuale perché la traduzione sopra riportata è stata fatta dal Testo Masoretico, ovvero dal testo vocalizzato dai masoreti alcuni secoli dopo Yeshùa. La parola tradotta con il senso di “per sempre” è nell’ebraico, secondo la vocalizzazione dei masoreti, לעלם (leolàm). Ma nella Bibbia originale tale parola è senza vocali: לעלם (llm). Anziché leolàm è possibile anche vocalizzare in lealèm. Con questa vocalizzazione la frase significa: “Questo è il mio nome perché sia nascosto”. Questo significato appare in perfetta armonia con il contesto. A Mosè che vuole scoprire il nome divino (il più importante che possa esistere nell’universo visibile e invisibile), Dio ribadisce che il suo nome deve rimanere quello con cui Israele lo ha sempre conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. E aggiunge che quello è il suo nome, “perché sia nascosto”. Così, quello nascosto, che Mosè avrebbe voluto conoscere, rimane nascosto.
Come abbiamo visto, Dio non rivela il suo nome a Mosè. Dio dice a Mosè soltanto che lui è “Colui che è”. Questa formula è tanto precisa quanto insondabile. Dietro quel יהוה (Yhvh), “Colui che è”, c’è il Dio uno e unico, eterno e misterioso.
Dio non è un uomo o una donna che ha bisogno di distinguersi da altre persone. Agli ebrei era vietato perfino nominare gli dèi: “Non dovete menzionare il nome di altri dèi. Non si dovrebbe udire sulla tua bocca” (Es 23:13). Il Dio unico, il loro Dio, gli ebrei lo chiamavano “Colui che è”, יהוה (Yhvh). Questa formula, che, in effetti, non era un nome (perché Dio non rivelò a Mosè il suo nome), divenne “il Nome” con cui ci si riferiva a Dio. Si spiega così il fatto che nelle Scritture Ebraiche questo “nome” compare quasi 7.000.
Quando fu data la Legge, Dio prescrisse: “Non ti devi servire del nome di Geova [יהוה (Yhvh), “Colui che è”] tuo Dio in modo indegno, poiché Geova [יהוה (Yhvh), “Colui che è”] non lascerà impunito chi si serve del suo nome in modo indegno” (Es 20:7; cfr. Dt 5:11). L’eccessivo scrupolo ebraico portò gli israeliti ad evitare perfino la menzione di quello che – pur non essendo un nome - era divenuto “il Nome”. Indubbiamente ci fu una cattiva comprensione del comandamento divino. “Si evita di pronunciare il nome YHWH . . . a causa del fatto che si è mal compreso il Terzo Comandamento, ritenendo che significhi ‘non devi nominare il nome di YHWH tuo Dio invano’, mentre in realtà significa ‘non devi giurare falsamente nel nome di YHWH tuo Dio’” (Encyclopaedia Judaica). Quando si iniziò a proibire la pronuncia del tetragramma? “Dal 3° secolo a. E. V. fino al 3° secolo E. V. tale proibizione vigeva ed era in parte osservata”. - A. Marmorstein, The Old Rabbinic Doctrine of God.
Come si sa, l’ebraico si scrive senza vocali. L’ebreo le aggiungeva a voce leggendo il testo. Con il divieto di pronunciare il tetragramma scomparve la sua pronuncia. Come si leggeva יהוה (Yhvh)? In effetti, non lo sappiamo più.
Con il passare dei secoli ci fu una novità per ciò che riguarda la lettura e quindi la possibilità di pronuncia delle parole contenute nelle Scritture Ebraiche. Stiamo parlando di alcuni studiosi ebrei, chiamati masoreti (in ebraico baalèh hammasoràh, “maestri della tradizione”), che fra il 6° e il 10° secolo della nostra èra introdussero un sistema di vocalizzazione del testo ebraico che è solo consonantico. Questo sistema previde dei segni, detti diacritici, che venivano messi sopra, sotto o dentro le lettere (per lasciarle intatte, rispettandole), fungendo da vocali e da accenti.
Come si comportarono i masoreti con il tetragramma? Quando lo incontravano – a causa del divieto che si era creato nell’ebraismo di pronunciarlo – escogitarono un modo che perseguisse due obiettivi: 1. lasciarlo intatto, 2. far sì che si leggesse un’altra parola al posto del tetragramma.
In pratica, non furono inserire le vocali giuste ma quelle del nome che doveva sostituire nella lettura il tetragramma.
Fu scelto il nome sostitutivo Adonày, “Signore”. Quando il tetragramma era preceduto, nel testo biblico, da Adonày, le vocali aggiunte erano quelle di Elhoìm per evitare all'ebreo, durante la lettura, di ripetere due volte Adonày. Comunque, normalmente durante la lettura la sostituzione era fatta con Adonày.
A questo punto occorre conoscere una regola grammaticale della lingua ebraica.
Nella parola Adonày in ebraico (אֲדֹנָי) la prima lettera è la consonante muta àlef (א), che – essendo muta – non si pronuncia. Nella trascrizione italiana non viene trascritta (come nel nostro caso) oppure viene indicata con un apostrofo: ‘Adonày. In effetti, la trascrizione italiana a quale prima lettera di Adonày è la trascrizione della vocale a ֲ appartenente alla àlef (א), e non la trascrizione della àlef.
Ora, dato che il tetragramma (יהוה) non inizia con àlef (א), ma con iòd (י, y), la regola grammaticale non permette il suono chiuso di a ֲ . Così, la a ֲ deve essere sostituita dal suono incolore e ְ , che assomiglia alla e francese, che viene appena accennata o a volte non letta. Alcuni, nella trascrizione italiana mettono questa e ְ come esponente: e.
Le nuove vocali per il tetragramma diventavano quindi queste: e, o, a (messe in italiano da sinistra a destra). Il lettore non ebreo, e solo lui, vedendo il tetragramma con i segni vocalici riportati, legge Yehovàh. Questo errore di lettura cominciò a diffondersi nel 15° secolo della nostra èra. Il lettore ebreo, quando leggeva il testo biblico, non commetteva errori perché sapeva di avere davanti agli occhi due parole in una: una tutta consonanti, l'altra evocata dalle vocali. Egli non pronunciava mai Yehovàh (che sarebbe stato un assurdo), ma Adonày.
L’ebreo dei tempi biblici naturalmente conosceva bene la lettura originale del tetragramma e si accorgeva di trovarsi di fronte ad una parola apparentemente assurda. Era proprio l’assurdità della parola che gli faceva ricordare che doveva dire Adonày. Come se un italiano, tanto per fare un esempio, incontrando la scritta “Dae” si ricordasse di dover leggere “Padre” invece di “Dio”. Sarebbe proprio l’assurdità della parola a ricordarglielo. Si potrebbe obiettare: ma non si farebbe prima a scrivere direttamente “Padre”? Nel nostro esempio senza senso, sì. Ma per i masoreti il tetragramma era intoccabile. Non pensarono mai di sostituirlo. Il loro stratagemma lo lasciava intatto e le vocali estranee aggiunte ne celavano la pronuncia vera proponendone una alternativa.
Una persona non ebrea che sappia appena leggere l’ebraico così com’è e senza tener conto di quanto appena detto, evidentemente - leggendo ad alta voce - leggerà esattamente ciò che trova scritto, cioè Yehovàh.
Come reagirebbe un ebreo a questa lettura? Se è un ebreo non credente, sentendo una lettura del genere, si metterebbe a ridere. Esattamente come rideremmo noi se qualcuno si ostinasse ipoteticamente a leggere Dae nell’esempio fatto.
Se però fosse un ebreo ortodosso, si offenderebbe davvero molto, perché vedrebbe storpiato il sacro tetragramma con un suono grottesco.
Gli studiosi si sono domandati se sia possibile risalire a come si pronunciava il tetragramma prima che fosse stabilita la regola di sostituirlo con Adonày. Gli studiosi hanno cercato di ricostruirne la pronuncia esatta, ma nulla di definitivo è stato ancora raggiunto. Per ora la pronuncia più verosimile appare Yahvèh.
Questa ipotesi è avvalorata dalla presenza nella Bibbia di decine e decine di passi in cui compare la forma abbreviata Yah (יָהּ). La forma abbreviata Yah (יָהּ) costituisce la prima metà del tetragramma (יהוה, YHWH). Nel testo masoretico questa forma ricorre 49 volte, ed è contrassegnata da un punto (detto mapìk) all’interno nella seconda lettera: יָהּ. Una sola volta appare senza il mapìk, in Cant 8:6 (יָה).
In Is 12:2;26:4 appare la formula יָהּ יְהוָה (Yah Yhvh). La forma abbreviata Yah appare anche quattro volte nelle Scritture Greche (Riv 19:1,3,4,6) nella parola Ἁλληλουιά (alleluià).
Proprio questa ultima parola (“alleluia”, “lodate Yah”) è tra le ragioni che fanno propendere per la lettura Yavèh. La forma ebraica הללויה (haleluyàh) contiene, infatti, nella parte finale l’inizio del tetragramma (יה).
Si aggiunga il tradizionale ‘Iaße (Iabe) di Teodoreto ed Epifanio. In greco il suono v non esiste, per cui viene sostituito con il suono b (ß). La parola, ricostruita con il suono v ebraico, diventa Iavè.
Diversi studiosi spiegano Yahvèh come forma grammaticale hiphil del verbo ebraico הוה (havà), “divenire”. Il significato sarebbe quindi quello di “colui che porta all’esistenza, colui che dona vita, creatore”. Questa è anche la scelta fatta dalla Watchtower, che lo rendono con: “Egli fa divenire”. Ma è soltanto un’ipotesi. A me pare che il contesto di Es – di cui abbiamo ampiamente ragionato più sopra – faccia propendere per il verbo היה (hayàh), “essere”. In tal caso il tetragramma significa: “Colui che è”.
L’influenza del comandamento di non pronunciare il nome divino su ciò che è vano fu tanto forte che il giudaismo giunse a sopprimere totalmente la pronuncia del nome divino nonostante che esso, secondo gli stessi testi biblici (Es 3:4;6:2), fosse stato ribadito al popolo nella rivelazione del roveto ardente in vista della liberazione dall’Egitto. Dio aveva tenuto nascosto il suo vero nome a Mosè, ma aveva detto che il popolo doveva chiamarlo col nome, che già conoscevano, di Yhvh (“Colui che è”). Questa proibizione, ai tempi di Yeshùa era già in vigore da secoli. Circa nel 150 E. V. Abba Shaul giunse ad affermare che chi pronuncia il tetragramma non avrà parte al mondo futuro. Così che il lettore sinagogale che incontrava il tetragramma pronunciava al suo posto Adonày (“Signore”) invece di Yhvh. Per aiutare il lettore a pronunciare Adonày, addirittura si vocalizzarono – come abbiamo visto - le quattro consonanti del tetragramma (YHWH) con le vocali di Adonày, e questa strana somma di consonanti di un nome proprio e di vocali di un nome comune diedero e danno il risultato di YeHoVaH , da cui il “Geova” dei Testimoni di Geova, che lo lessero come JeHoVaH all’inglese, con J letta come g dolce (che non ha alcun rapporto con la prima lettera del tetragramma – in ebraico il suono g dolce non esiste neppure). Lo stratagemma ideato dai masoreti per camuffare il tetragramma fu scoperto dagli studiosi solo nel 20° secolo. Da circa il 1500, e per circa 500 anni, si fece l’errore di leggere il tetragramma come YeHoVaH.
Abbiamo visto come l’ignoranza dell’uso masoretico abbia portato alla assurda lettura Jehovàh sin dal 1520 della nostra èra. Adottando questa lettura errata, il pastore C. T. Russel (che non era al corrente delle scoperte circa lo stratagemma dei masoreti), essendo di lingua inglese, peggiorò la già sbagliata parola Jehovàh. Vediamo cosa accadde.
Il tetragramma (יהוה) inizia con la lettera iòd (י). Questa lettera viene trascritta nell’alfabeto latino (usato anche dagli inglesi) con y oppure j. Quale di queste due lettere è più idonea a traslitterale la iòd (י)? Di regola la j. Ma la j come la usavano i latini. E come si usava anche in italiano prima che la lettera sparisse dal nostro alfabeto. Pochi sanno che – sebbene la lettera j non sia più usata nell’italiano scritto – la sua pronuncia è rimasta. Probabilmente la quasi totalità degli italiani crede che esista in italiano un’unica i. In effetti, nella scrittura, è così. L’italiano non è affatto, però, una lingua che si legge come si scrive, cosa che probabilmente moltissimi italiani credono. In italiano esistono ben tre i, sebbene nella scrittura ne esista una sola. C’è la i muta, che non si legge, come in “chiacchierare” (che diventa chiaccherare nella pronuncia). C’è poi la i della parola “isola”. Ma c’è anche la i della parola “iena”. Se si pronunciano lentamente le parole “isola” e “iena”, indugiando sulla i iniziale, chi non lo sapeva può rimanere stupito nell’accorgersi che si tratta di due i molto diverse nella pronuncia. Ecco, la i di “iena” corrisponde alla j. Nei primi decenni del 1900 Pirandello scriveva ancora jena, come testimoniano i suoi capolavori letterari.
Di regola, quindi, la iòd (י), prima lettera del tetragramma, andrebbe trascritta con j. Sarebbe quindi più corretto trascrivere il tetragramma così: JHVH. Perché allora qui preferiamo trascriverlo con la y? Per evitare che i semplici facciano l’errore di pronunciare la j con il suono della g dolce di “gente”. In un tempo in cui in Italia non si va più all’autolavaggio ma al “caruòsh”, perché ormai si usa parlare “italese”, ci sembra una precauzione doverosa. Già molte parole latine vengono storpiate, come “summit” e “media”, che vengono lette all’inglese sammit e midia dai semplici che non sanno che si tratta di parole latine. L’italiano poco istruito che, come diceva una nota canzone, “vo’ fa’ l’ammericano”, riesce perfino a leggere pràivasi la parola inglese “privacy” che ogni suddito di sua Maestà la regina legge giustamente prìvasi. Cosa accadrebbe con la j del tetragramma? Si è già udito qualcuno che con aria da saccente lo ha pronunciato come la j francese!
Per l’americano Russel fu giocoforza leggere Jehovah come “Gihòva”, facendo anche erroneamente regredire l’accento. Per lui la j era la “gèi”. La parola italiana “Geova” fu l’imitazione di quella americana, con ulteriore arretramento dell’accento tonico: Gèova.
Ma la questione è ancora più sottile. Per Russel e i suoi affiliati Jehovah era il nome di Dio che trovavano nelle loro Bibbie americane. Ma non si chiamavano ancora Testimoni di Geova. Così fu per più di cinquant’anni. Il cambio di nome avvenne nell’agosto del 1931 sotto la presidenza di Rutherford, quando applicarono a se stessi ciò che Dio rivolge invece al suo popolo Israele: “Voi siete i miei testimoni” (Is 43:10). A quel tempo era già stato accertato che Jehovah era la pronuncia sbagliata del tetragramma. Ma Rutherford era esperto di questioni legali, non di scienze bibliche. Leggendo nelle Bibbie di lingua inglese Jehovah, si chiamarono Jehovah’s Witnesses (Testimoni di Geova). Tenuto conto che poi il nome Jehovah divenne un cavallo di battaglia nella loro predicazione, si comprende come ora il tornare indietro sia pressoché impossibile.
L’unica strada percorribile per chi non vuole riconoscere il proprio errore è solo quella di continuare a giustificarlo. Ecco allora una di queste giustificazioni: Il nome Geova è estesamente accettato come equivalente del Tetragramma nella lingua italiana.
Un altro tentativo di giustificazione viene fatto citando documenti in cui compare il nome spurio. Antonio Brucioli fu il traduttore di una delle prime Bibbie in italiano; nell’edizione stampata a Venezia nel 1551 egli usò in Es 6:3 la forma “Ieova”. Commentando questo stesso versetto, il Brucioli aveva detto: ‘IEOVA è il sacratissimo nome di Iddio’”. Nel 1551, però, non era ancora noto agli studiosi l’errore, oggi ormai accertato, nella trascrizione del tetragramma. Anzi, era appena iniziata la moda di leggere il tetragramma proprio nella forma letterale del Testo Masoretico. La stessa identica cosa vale per la scritta “Ieova” che compare sull’altare della chiesa cattolica di Vezzo, in provincia di Novara. La scritta risale al 1886: neppure allora era noto l’errore di trascrizione del tetragramma.
Un altro tentativo di giustificazione è il richiamarsi alla pronuncia della parola “Gesù”. Noi siamo tra quelli che rifiutano la pronuncia “Gesù”, preferendo l’originale Yeshùa. Tuttavia, la forma “Gesù” è l’italianizzazione del greco Iesùs. Questo è il nome che compare nei testi originali. A noi non sembra corretto tradurre una traduzione, in quanto Iesùs è già una traduzione (quella greca dell’ebraico Yeshùa). Tuttavia, chi traduce “Gesù” ha pur sempre un appoggio biblico: è la parola del testo greco originale. Ma “Geova” è la traduzione di quale parola greca? Lo ripetiamo ancora: in greco una traduzione del tetragramma non esiste. E non esiste non solo perché non c’è nei manoscritti: non c’è proprio nell’intero vocabolario del greco antico.
La verità è che “Geova” è la trascrizione errata del sacro tetragramma. Chi fa dell’uso del “nome” di Dio una delle fondamentali esigenze della vera religione, non ha molta possibilità di riconoscere che quel nome è la trascrizione errata del sacro tetragramma e che come tale dovrebbe essere rifiutato. Alla fin fine, si è prigionieri di se stessi. E nulla vale far notare che santificare il nome di Dio usando un nome decisamente errato non è davvero il modo più opportuno di santificarlo.
Abbiamo visto come il tetragramma divenne Yehovàh solo nella scrittura, pur essendo letto Adonày. Già il motivo per cui furono inserite nel tetragramma le vocali di Adonày spiega e dimostra in sé che non erano le vocali originali del tetragramma.
Ma, dato che non conosciamo la pronuncia esatta del tetragramma, non potrebbe essere proprio Yehovàh quella giusta? Assolutamente no. Qualsiasi altra combinazione di vocali potrebbe avere una possibilità, qualche combinazione particolare potrebbe avere perfino una probabilità. Ma Yehovàh non ne ha alcuna, assolutamente nessuna. In modo certo e sicuro. Perché? Perché le vocali di Yehovàh furono inserire proprio per evitare la pronuncia giusta del tetragramma.
La Settanta (LXX) è la traduzione greca delle Scritture Ebraiche. Essa fu iniziata verso il 280 a. E. V.. Questa traduzione seguiva la consuetudine di sostituire il tetragramma con i termini greci κύριος (Kǘrios, “Signore”) o θεὸς (Theòs, “Dio”). Questo almeno stando ai manoscritti che risalgono al 4° e 5° secolo della nostra èra. Di recente, però, sono state scoperte copie più antiche, rotoli in pergamena datati al 1° secolo della nostra èra. Queste – benché frammentarie – hanno rivelato che vi è presente il tetragramma. Non la traduzione del tetragramma, ma il tetragramma in lettere ebraiche antiche, in caratteri paleoebraici. Nella lingua greca, infatti, non esiste né la traslitterazione né tanto meno la traduzione del tetragramma. Il nome “Geova” che si trova nella letteratura biblica in lingua greca appartiene al greco moderno. Nel greco antico (e quindi anche nelle Scritture Greche) la parola non esiste proprio.
Al tempo di Yeshùa – lo sappiamo già – era ormai in vigore in Israele da alcuni secoli l’uso di non leggere il tetragramma. I giudei si erano perciò abituati a riferirsi a Dio in alcuni modi caratteristici e particolari. Questi modi includevano espressioni particolari o un uso particolare dei verbi.

Nomi. I nomi sostitutivi del tetragramma più frequenti erano:

● Hashamàym, “il Cielo”, “i Cieli”
● Hamaqòm, “il Luogo”
● “Il Trono”
● “Il Nome”
● “Il Santo”
● “Signore”
● “Re”; “Gran Re”
● “Padre che sei nei cieli”
● “Colui che”
● “La Potenza”
● “Alto”.

Questa è solo una lista esemplificativa. Le espressioni usate erano molte di più. Yeshùa si attenne a questo sistema usato dai giudei? Sì. Si pensi solo al fatto che Yeshùa fa dire al figlio prodigo: “Ho peccato contro il cielo” (Lc 15:18,21). Si vedano altri passi: Mt 21:25; Mt 11:25; Mt 23:22; Mr 14:62; Mt 5:34,35; Mt 4:17; “A meno che uno non nasca di nuovo” (Gv 3:3; testo greco: “generato dall’alto”).
Uso dei verbi. Il tetragramma divino è poi talvolta sostituito da un participio o da una perifrasi verbale. Così Yeshùa dice: “Chiunque riceve me riceve [anche] colui che mi ha mandato” (Lc 9:48). Adattandosi all’uso giudaico del tempo, Yeshùa si riferisce a Dio come a “Colui che” fa qualcosa. “Temete piuttosto colui che può distruggere sia l’anima che il corpo nella Geenna” (Mt 10:28). “Chi giura per il tempio giura per esso e per colui che vi abita, e chi giura per il cielo giura per il trono di Dio e per colui che vi siede sopra” (Mt 23:21,22).
Ci sono altre due forme verbali sostitutive del tetragramma. Nel primo caso, invece di mettere il tetragramma divino, gli evangelisti omettono il soggetto della frase e mettono il verbo al plurale. Questa procedura risulta del tutto sconosciuta a chi non conosce bene la Bibbia. Il motivo è che il verbo al plurale che si trova nei testi originali suona male al nostro orecchio. Nelle traduzioni correnti si preferisce quindi evitarlo, sostituendolo con il passivo impersonale. Qualche esempio chiarirà il punto. In Lc 6:38 Yeshùa dice (stando alla traduzione): “Vi sarà versata in grembo una misura eccellente, pigiata, scossa e traboccante”. Si noti il passivo impersonale: “Vi sarà data”. In realtà Yeshùa si espresse diversamente. Ecco il testo originale: δώσουσιν (dòsusin), “daranno”. Il Lc 12:20 viene mantenuto il verbo al plurale, perché anche nella traduzione italiana suona bene; Yeshùa dice “Irragionevole, questa notte ti chiederanno la tua anima”. Chi richiede la vita dello stolto è indubbiamente Dio. Yeshùa, secondo l’uso dei giudei, evita la menzione di Dio e usa il verbo al plurale: “Ti chiederanno”.
Il passo di Lc 16:9 appare alquanto oscuro in TNM: “Fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste, affinché, quando queste verranno meno, essi vi ricevano nelle dimore eterne”. La prima parte è chiara: Yeshùa consiglia di farsi degli amici usando bene il proprio denaro; le “ricchezze ingiuste” non sono altro che i beni accumulati in questo mondo: non sono ingiuste perché ottenute illegalmente, ma solo perché di questo mondo. Il problema è nella traduzione della seconda parte: “Essi vi ricevano nelle dimore eterne”. Così tradotto, “essi” non può che riferirsi agli “amici” precedenti. Ci domandiamo come sia mai possibile che tali persone, diventate amiche grazie alle ricchezze condivise con loro, possano avere la facoltà di accogliere chi ha agito accortamente con loro “nelle dimore eterne”. Può darsi che essi stessi non entrino “nelle dimore eterne”, ma – anche se ci entrassero – che potere avrebbero mai di accogliere lo scaltro che se li è fatti amici? Se poi immaginiamo che Yeshùa si riferisse a se stesso e a Dio, come poteva Yeshùa includersi fra i proprietari delle “dimore eterne” se ancora non aveva mostrato la sua fedeltà fino alla morte e ancora non era stato costituito “erede di tutte le cose” (Eb 1:2)? Da buoni studiosi preferiamo sempre riferirci alla Scrittura prima di accampare ipotesi. Il contesto del passo (vv. 1-8) riporta la parabola di Yeshùa su un tale che manipolando la contabilità del suo padrone si fa amici alcuni debitori falsificando i libri contabili così da diminuire l’importo dei loro debiti. Il suo scopo è chiarito: “Quando sarò cacciato dalla gestione, mi ricevano nelle loro case [quelle dei debitori avvantaggiati]” (v. 4). La morale della parabola sta nel finale: “Il suo signore lodò l’economo, benché ingiusto, perché aveva agito con saggezza” (v. 8). Qui non si giustifica affatto il falso in bilancio, ma si pone l’attenzione sull’avvedutezza dell’economo furbacchione. Yeshùa fa questa applicazione della sua stessa parabola: “I figli di questo sistema di cose, nei loro rapporti con quelli della propria generazione, sono più saggi dei figli della luce” (v. 8). “Saggi” non è proprio la parola giusta: Yeshùa parla di φρονιμώτεροι (fronimòteroi), “attenti ai propri interessi”. Comunque, si parla di “rapporti con quelli della propria generazione”. Yeshùa sta parlando di cose quotidiane, della vita di tutti i giorni. Quando nell’applicazione finale della parabola consiglia di ‘farsi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste’ (v. 9), è semplicemente ovvio che sta suggerendo di intrattenere relazioni buone con il prossimo. Ma Yeshùa va oltre: “Se non vi siete mostrati fedeli riguardo alle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere?” (v. 11). Come dire: se non avete saputo usare bene le ricchezze materiali, chi vi affiderà quelle vere? Yeshùa allude all’al di là. “Non potete essere schiavi di Dio e della Ricchezza” (v. 13). Occorre scegliere: o si usano bene le ricchezze materiali, condividendole, oppure si rimane schiavi di esse rinunciando a sottomettersi a Dio. È in questo contesto che Yeshùa dichiara:
ἵνα δέξωνται ὑμᾶς εἰς τὰς αἰωνίους σκηνάς
ìna dècsontai ümàs èis tas aionìus skenàs
affinché accolgano voi in le eterne tende

Siamo qui di fronte proprio ad uno di quei casi in cui per nominare Dio evitando il tetragramma si usa il verbo al plurale senza soggetto. Come abbiamo già osservato, nelle traduzioni italiane ciò si rende con il passivo. Se volessimo renderlo in italiano lasciando intatto il senso, avremmo: “Affinché vi si riceva nelle dimore eterne”.
Un altro modo usato dai giudei per evitare la menzione di Dio è quello che potremmo chiamare il “passivo divino”. Dato il grandissimo rispetto che gli ebrei avevano per Dio, evitavano perfino di nominarlo. Ancora oggi, se capita di leggere la saggistica di ebrei molto ortodossi tradotta in italiano, si troverà spesso questa forma: “D-o”. Non osano neppure scrivere “Dio”! I giudei del tempo di Yeshùa usavano la parola “Dio”, e Yeshùa stesso la usò, sebbene mai il tetragramma. Ma ogni volta che potevano, lo evitavano. Le nostre traduzioni delle Scritture Greche di solito conservano il “passivo divino”. Si veda Mt 5:4: “Felici quelli che fanno cordoglio, poiché saranno confortati”. Qui il passivo “saranno consolati” significa “Dio li consolerà”.
Questo tipo di passivo, in sostituzione della menzione di Dio, nei soli quattro vangeli ricorre un centinaio di volte. Il lettore occidentale che ha scarsa o nessuna conoscenza di cultura biblica, non se ne accorge neppure. “Felici i misericordiosi, poiché sarà loro mostrata misericordia” (Mt 5:7): Dio sarà misericordioso con loro. “Col giudizio col quale giudicate, sarete giudicati” (Mt 7:2): Dio vi giudicherà. “Continuate a chiedere, e vi sarà dato” (Mt 7:7): Dio vi darà.
Questo era il normale modo di esprimersi di Yeshùa, che era poi quello di tutti i giudei del suo tempo. Sebbene Yeshùa contestasse diverse tradizioni sbagliate che i giudei avevano, su questo non solo non ebbe da ridire ma lo adottò lui pure.
Si noti Mr 2:5-7: “Quando Gesù vide la loro fede disse al paralitico: ‘Figlio, i tuoi peccati ti sono perdonati’. Ora erano là seduti degli scribi, che ragionavano nei loro cuori: ‘Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia. Chi può perdonare i peccati se non uno solo, Dio?’”. Qui Yeshùa rende noto al paralitico che Dio lo perdona. Può farlo perché “il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra” (v. 10), ma è sempre Dio che concede il perdono. Yeshùa è così riguardoso che non nomina Dio e usa il solito passivo: “I tuoi peccati ti sono perdonati”. Nella loro reazione gli scribi usano invece la parola “Dio”. Questo contesto illustra bene l’uso attento che si faceva della parola “Dio”. Yeshùa, data la situazione, usa il passivo. Gli scribi, orgogliosi di esaltare Dio, lo menzionano. E stiamo parlando solo della parola “Dio”, non del tetragramma!
Quando Yeshùa si rivolgeva a Dio in preghiera, lo invocava non come “Geova”, ma sempre come “Padre”. Adopera questo termine ben sei volte nella sola preghiera finale con i discepoli (Gv 17).
Perfino nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture non si dice mai che Yeshùa si sia rivolto al Padre chiamandolo “Geova”. Come osserva C. Savasta: “Gesù evita accuratamente di pronunziare il nome divino. Infatti, ad esempio, dinanzi al sinedrio, al sommo sacerdote che gli chiede se fosse lui «il Cristo, il Figlio del Benedetto», Gesù risponde (Mc 14,61-62; cf. Mt 26,63-64): «... vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza...», invece che «alla destra di JHWH» del Salmo 110,1, qui citato assieme a Dn 7,14, adeguandosi così all’uso ebraico di astenersi dal pronunziare il nome JHWH, come aveva fatto appunto il sommo sacerdote che lo interrogava, e questo proprio nell’occasione più adatta per dissociarsi pubblicamente da quest’uso, se non si fosse a sua volta conformato a esso. È del tutto improbabile quindi che egli lo pronunziasse in altre occasioni” (Il Nome Divino nel NT, in Rivista Biblica n. 1/1998, pag. 90; corsivo e maiuscole sono dell’autore).
Perciò, è evidente che quando in preghiera disse: “Padre nostro [che sei] nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Mt 6:9), il termine “nome” fu usato in un senso più profondo, più ampio, per intendere la Persona stessa. Se, ragionando all’occidentale, Yeshùa intendeva che fosse menzionato il Nome, perché non lo fece mai? Quale occasione più adatta di quella? Eppure c’è la totale assenza dell’appellativo “Geova” non solo nelle preghiere ma in tutte le parole di Yeshùa, perfino in TNM. “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11:1). E Yeshùa ce lo insegnò. Non incluse il Nome nella preghiera; invece, egli ci insegnò a seguire il suo esempio, invocando il “Padre”.
La notte prima della sua morte, sia parlando direttamente con i discepoli sia nella lunga preghiera che fece, Yeshùa parlò del “nome” di Dio per quattro volte. Eppure, per tutta la notte, sia nei consigli che nell'incoraggiamento ai discepoli, sia in preghiera, non troviamo un solo caso in cui si faccia uso del nome “Geova”, neppure in TNM. Invece, troviamo che Yeshùa adoperò significativamente l'appellativo “Padre” per circa cinquanta volte! Il giorno seguente, in punto di morte, non invocò il nome “Geova”, ma disse: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27:46). Le ultime parole della sua vita terrena furono: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23:46). “Detto questo, spirò”.
Nel testo critico delle Scritture Greche il tetragramma non compare mai. Figurarsi, quindi, se si può inserivi il tetragramma camuffato dai masoreti, cioè JeHoVaH. Farlo equivale a manipolazione del testo originale. Neppure possiamo sostenere che gli scribi tolsero il Tetragramma dalle Scritture Greche e lo sostituirono con Kỳrios, ‘Signore’ o Theòs.
Ora s’impone una semplice riflessione. È mai possibile che tutte le comunità dei discepoli dei tempi antichi che ci hanno lasciato circa 5000 manoscritti abbiamo concordato d’introdurre la stessa modifica in tutti i manoscritti? Dato che è documentata la grande venerazione che esse avevano per gli scritti sacri, questa ipotesi non ci appare possibile. Un’altra domanda che ci viene è questa: se esistevano alcuni manoscritti che contenevano il tetragramma (e stiamo dicendo tetragramma, non JeHoVaH), è mai possibile che ci siano giunti solo quelli modificati e che gli altri siano andati tutti persi? Sembra di avere a che fare con la teoria dell’evoluzione, che si arrampica sui vetri delle ipotesi. La realtà è che non esiste il minimo frammento di manoscritto delle Scritture Greche che contenga il tetragramma. Neppure un brandello.
Ma i problemi aumentano se s’insinua che dietro dei presunti cambiamenti ci sia la mano diabolica. Se questa tesi fosse attendibile, dovremmo conseguentemente domandarsi: quale affidabilità può offrire un testo che ha subìto alterazioni così radicali? In quali altri brani biblici l’intervento satanico ha compiuto manomissioni così diaboliche? In sostanza: quanto è attendibile il messaggio di Dio che viene fuori dalle Scritture Greche se fossero state così vastamente manomesse? Che dire poi della figura di Yeshùa? Se lo zampino diabolico di satana è andato ad incidere su un nome, che avrà mai combinato con il resto? Non osiamo pensare al resto di tutta la Bibbia.
Personalmente, però, credo che Dio sappia preservare la sua parola scritta. Comunque, questa tesi del ci obbliga a fare una riflessione. E questa porta come conseguenza logica a sole due possibilità:
1. Il testo delle Scritture Greche è stato manipolato da scribi diabolicamente suggestionati che hanno eliminato ogni riferimento al “nome” divino. Dal che si deve necessariamente dedurre che Dio non avrebbe esercitato alcuna forma di protezione per salvaguardare l'integrità del suo “nome”.
2. Le Scritture Greche non hanno subìto alcuna alterazione sostanzialmente rilevante. Il che dimostra la vigile cura di Dio nella preservazione della Bibbia.
Personalmente sono decisamente e convintamene per la seconda possibilità. La trasmissione della Scrittura è accurata.
Crediamo che si debba ripensare la legittimità dell'eccezionale importanza attribuita al tetragramma. È un fatto che Dio è l’autore delle Scritture Greche, che fanno parte della sua parola scritta, la Bibbia. È un fatto che esse sono state preservate per suo volere. È un fatto che esse ci sono giunte in modo accurato sotto la sua divina guida. Ed è un fatto che in esse il tetragramma non compare.
Ne consegue che la conoscenza di un particolare “nome” divino non costituisce un requisito essenziale per individuare la pura forma di adorazione approvata da Dio. Se poi si aggiunge che il “nome” tanto innalzato non è affatto il sacro tetragramma ma la forma spuria JeHoVaH creata ad arte dai masoreti proprio per celare il tetragramma, dobbiamo concludere che occorre ripensare l’approccio l’occidentale al Nome.
La conoscenza del “nome” non va intesa all’occidentale. Di coloro che già conoscevano (nel senso occidentale) il “nome” e lo usavano pure, Dio dice: “Rispetto al mio nome יהוה non mi feci conoscere da loro” (Es 6:3). Conoscere il “nome” di Dio significa ben altro che accanirsi sulla forma volutamente alterata dai masoreti.
L’ipotesi avanzata dallo studioso George Howard, da lui stesso definita una “teoria”, rimane solo un’ipotesi per due ragioni:
1. Nessuno dei supposti manoscritti greci che avrebbero dovuto contenere il tetragramma è stato mai ritrovato; proprio come il famoso “anello mancante” degli evoluzionisti.
2. Nessuno degli oltre 5.000 manoscritti nel greco originale contiene il tetragramma.
È ormai appurato da circa un secolo che i masoreti camuffarono il sacro tetragramma inserendovi le vocali di Adonày per non farlo pronunciare. Ne venne fuori il nome senza senso JeHoVaH. Ciò è riconosciuto perfino dalla Watchtower. Ora, inserendo la forma JeHoVaH nelle versioni bibliche, non si fa altro che continuare l’opera di quei masoreti. Con una differenza, però. Tristemente grave. I masoreti erano perfettamente consapevoli che la pronuncia di Adonày sostituiva quella vera del tetragramma. Il loro profondo rispetto per “il Nome” li portò a proteggerlo in modo indubbiamente eccessivo. Ma era rispetto. Prendere la loro forma spuria JeHoVaH per buona e insistere su di essa, inserendola addirittura nella Bibbia, è solo un accanimento religioso contrario alla verità, alla filologia e alla storia. Gli stessi masoreti ne sarebbero scandalizzati. E profondamente indignati. Per l’affronto blasfemo fatto al “Nome”. Ci sia consentito di poter sempre dire, con Paolo: “Abbiamo rinunciato alle cose subdole di cui c’è da vergognarsi, non camminando con astuzia, né adulterando la parola di Dio, ma rendendo la verità manifesta”. - 2Cor 4:2.
dispensa.
00mercoledì 10 febbraio 2010 21:11
caro cielo sbagli a fare di queste impostazioni così attaccate e lunghe, sarà difficile che altri lo leggano.

Inutile dirti che non mi corrisponde quel 5000 scritti greci senza il nome o tetragramma, .

Inoltre seguendo il tuo filo logico dovremmo eliminare anche le scritture, poichè chi ti dice che siano complete?

Non lo sono formalmente in quasi tutte le frasi, poichè quello che si segue è il senso, e in questo tradurre il senso, non lo vedi di come in tutte le bibbie si aggiungono le nostre parole odierne per seguire proprio il senso?

Non solo ma dire di verità a 360 gradi è una pecca...diciamo un 280 gradi il resto è libera interpretazione, proprio come la tua e la mia.

Allora seguendo sempre il tuo schema logico dovremmo eliminare tutto, perchè non esiste un YHWH = verità senza che l'uomo non ci metta il suo vocabolo per dagli un senso.

Anche nel dire "colui che è" implica delle vocali.

ma forse era proprio questo il gioco voluto da YHWH, cioè quello di vedere che vocali ci metti tu, come specchio morale della tua anima.

Non solo ma mi viene dal mondo archeo magico 3 secolo d.c. che i maghi di allora conoscevano il sacro nome del Dio del giudaismo... stranamente un monile triangolare magico pagano riporta un nome che sembra proprio Yehova.l'autore archeologo si limita solamente stranmente a dire che usavano il nome del Dio ebraico. erporta questo monile tavoletta metallica.

Qualcosa non quadra.
Può anche darsi che essi, gli ebrei per non pronunciarlo durante la lettura avessero si tolto le vocali, ma nascoste nella parola a lato con adonay.

Vedi come uomo di fede non avrei mai occultato definitivamente il nome di Dio, piuttosto lo avrei criptato, ma mai cancellato definitivamente.

Considera questo un mio atto di fede nell'uomo che adora il suo Dio.



CieloSegreto
00giovedì 11 febbraio 2010 15:26
Caro dispensa, sulla lunghezza del mio post hai ragione. Me ne scuso ancora. Comprendo che il mio desiderio di essere completo e accurato può essere un ostacolo a chi desidera leggere solo pensieri sintetici.
Il fatto che non ti corrisponda che circa 5000 manoscritti greci siano tutti senza il “nome” o tetragramma, nulla toglie alla realtà: i manoscritti non lo contengono, né potrebbero, dato che in greco la parola “Yehovah” non esiste proprio.
Perché mai dovremmo eliminare anche le Scritture? Che non siano complete e che qualcosa sia andato perso è evidente. Pensa a Col 4:16: “Quando questa lettera sarà stata letta fra voi, disponete che sia letta anche nella congregazione dei laodicesi e che anche voi leggiate quella da Laodicea” (TNM). Che fine ha fatto la lettera ai laodicesi? Persa. E pensa anche a 1Cor 5:9: “Nella mia lettera vi scrissi di . . .” (TNM). Di che lettera si parla? Evidentemente di una precedente, quella che sarebbe la vera prima ai corinti. E dov’è? Persa. Dato che Dio sa preservare la sua parola scritta, evidentemente si trattava di scritti che non dovevano far parte del canone ispirato.
Quella che tu chiami “verità a 360 gradi” appartiene solo a Dio. In quanto alla libera interpretazione, per carità, lasciamola a chi ama fare voli di fantasia oppure alle religioni che usano la Bibbia non come testo ma come pretesto per le loro idee.
Cosa intendi dicendo che “anche nel dire ‘colui che è’ implica delle vocali”? È ovvio che le implica, ma l’ebraico si scrive senza vocali. Il problema è tutto qui.
Che ‘un monile triangolare magico pagano riporti un nome che sembra proprio Yehova’, non mi stupisce. Il maligno ama fare queste cose.
Caro dispensa, la verità al riguardo è quella storica: solo nel ventesimo secolo gli studiosi scoprirono che il nome spurio “Yehovah” era il risultato del sacro tetragramma con frammischiate le vocali di Adonay, creato ad arte dai masoreti per impedire la lettura delle vocali vere. Fino ad allora tutti erano convinti che bastasse leggere quello che vedevano, e da qui nacque l’uso dello spurio “Yahovah”.
Devo ‘considerare questo un tuo atto di fede nell'uomo che adora il suo Dio’? Credo sia proprio così. Però, dispensa, non so se ti rendi conto di quello che hai scritto: “atto di fede nell'uomo”. Personalmente preferisco attenermi a questo: “Abbiate fede in Dio”. - Mr 11:22.
barnabino
00giovedì 11 febbraio 2010 17:17
Caro Dispensa,


ma forse era proprio questo il gioco voluto da YHWH, cioè quello di vedere che vocali ci metti tu, come specchio morale della tua anima



Non saprei se le vocali sono specchio dell'anima... certo è bizzarro come l'uso del Nome metta tanto imbarazzo.

Io direi che la discussione sulla pronucia del nome in sé è piuttosto oziosa, perché la corretta pronuncia non è importante, dato che non la conosciamo di nessuno dei nomi biblici. Cosa vuol dire poi "corretta"? La pronuncia non è statica, cambia nel tempo e nelle aree geografiche (ricorderai il Scibbolet/Sibbolet!). Del Suo Nome Dio ha conservato il ketiv, lo scritto, e questo è fondamentale. Il significato del Nome è quello indipendentemente dalle vocali che ci mettiamo o ci mettevano per pronunciarlo.

Detto questo Gerard Gértoux ha scritto un libro molto erudito sulla pronuncia e l'uso (anche teologico) del Nome e sul suo sviluppo nel corso dei secoli, parte dal Pentatuuco per arrivare fino alle moderne teorie dei nostri. Secondo lui per la pronuncia tradizionale (Geova) ci sono diversi indizi, quello che lui ritiene più importante è quello basato sulle uso molto antico delle matres lectionis, dei grafemi semitici per esprimere il suono vocalico e non consonantico. Te ne suggerisco la lettura.

Shalom

CieloSegreto
00giovedì 11 febbraio 2010 18:55
Barnabino, ‘l'uso del Nome mette tanto imbarazzo’? Ma di che “nome” parli? Il tetragramma è la risposta di Dio a Mosè che chiedeva il nome di Dio. La risposta gli fu rifiutata. Dio gli disse che lui era “colui che è” e basta. Questo modo di riferirsi a Dio era quello che avevano usato Abraamo, Isacco e Giacobbe. Ma Mosè voleva sapere proprio il nome. Non gli fu detto. Alla fine, l’espressione “Colui che è”, che non era il nome, divenne il “nome”. Poi gli ebrei divennero gelosi di quel “nome” fino al punto di evitarne la pronuncia. I masoreti arrivarono a camuffarlo. Ne sorse lo spurio “Yahovah” che perdurò fino al ventesimo secolo, quando gli studiosi capirono la manovra masoretica.
In quanto a G. Gértoux, va detto che è un solitario in controcorrente. Sono pochissimi gli studiosi che ancora si ostinano a difendere la forma “Yahovah”, e tra questi il Gértoux. La sua teoria si basa su un’ipotesi: secondo lui l'ebraico biblico avrebbe usato alcune consonanti come vocali. Egli spinge la sua ipotesi fino a dire che le lettere “yòd”, “he e “vav” si pronunciassero “i”, “e” ed “o”; in più, sostiene che la “he” finale si pronunciasse “a”. Senza nessun appoggio biblico, lui applica questa stravagante ipotesi al solo tetragramma. Non è fantasioso? Contro la sua ipotesi c’è il fatto che in tutte le altre parole ebraiche questa presunta regola non vale. Inoltre, il fatto stesso che i masoreti dovettero inventare un sistema per includere le vocali nel testo solo consonantico, dimostra che le consonanti non avevano valore di vocale. Le pronunce da lui attribuite ad alcune consonanti dette matres lectionis non sono né certe né tantomeno definitive.
Clemente Alessandrino (150-215 E. V.) scrisse che il Nome era composto di quattro lettere ebraiche. Da Gerolamo (4° secolo) sappiamo che alcuni scrittori greci trascrivevano e pronunciavano il tetragramma addirittura π ι π ι (pipi), data la somiglianza con le lettere ebraiche. - Gerolamo, Lettera a Marcella, XXV.
Sbagli a dire che non conosciamo la pronuncia dei nomi biblici. La conosciamo, eccome. Poi parli di significato del nome. Ma tu sai cosa significava il nome presso gli ebrei? Pare di no. Il nome per i semiti era un modo di “padroneggiare” (in un certo senso) la persona che lo portava. Per questo Giacobbe voleva sapere il nome dell’angelo. Non gli fu detto.
Sbagli esempio riferendoti a Gdc 12:5,6. Lì la pronuncia dell’errato sibòlet al posto del corretto shibòlet comportò la differenza tra la vita e la morte.
bruciolis
00giovedì 11 febbraio 2010 19:50
Re:
CieloSegreto, 11/02/2010 18.55:


Ma di che “nome” parli? Il tetragramma è la risposta di Dio a Mosè che chiedeva il nome di Dio. La risposta gli fu rifiutata.




caro Cielo, ti contraddici?
quello che noi chiamiamo tetragramma è la risposta di Dio;
non gli fu rifiutata.
Il nome proprio di Dio secondo la scrittura che noi conosciamo è YHWH.


CieloSegreto, 11/02/2010 18.55:


Dio gli disse che lui era “colui che è” e basta.



veramente gli disse "sarò chi sarò"...
ma quello è il significato, il nome di un ebreo valeva un significato.
ecco perche Dio dapprima si presenta in quel modo.

CieloSegreto, 11/02/2010 18.55:



Sbagli a dire che non conosciamo la pronuncia dei nomi biblici. La conosciamo, eccome.



ma che dici? se ci sono dispute anche per la pronuncia di Gesù!!!


CieloSegreto
00venerdì 12 febbraio 2010 08:18
Caro bruciolis, io non mi contraddico. Forse tu non hai letto bene la mia trattazione. Lo dimostra ciò che scrivi: “Quello che noi chiamiamo tetragramma è la risposta di Dio; non gli fu rifiutata”. Bene, mettiamola diversamente e vediamo se riusciamo a capirci.
Secoli prima che Mosè domandasse a Dio quale fosse il suo nome, quello che non solo voi ma tutti chiamano tetragramma, era già conosciuto e usato; la stessa madre di Mosè aveva un nome che contiene parte del tetragramma. Ora, bruciolis, ti faccio alcune semplici domande.
Dimmi, cosa cambiò dopo che Mosè fece la sua richiesta a Dio? Quale fu la risposta di Dio? Siccome Mosè conosceva il tetragramma e ciononostante domandò a Dio quale fosse il suo nome (fatto che dimostra in sé che il tetragramma non era considerato da Mosè un nome), che nome divino Dio rivelò a Mosè? Tu lo sai? Io so che Dio gli ribadì semplicemente ciò che Mosè sapeva già, spiegando che così dovevano continuare a chiamarlo.
Preferisci intendere il tetragramma come “io sarò chi sarò”? Bene. Riflettici, allora. Già prima Dio era ‘chi sarà’. E dopo la sua risposta a Mosè? “Sarò chi sarò”. Dio voleva continuare ad essere chi voleva lui. Mosè doveva accontentarsi. Così, il “nome” continuò ad essere quello che Mosè già conosceva e di cui non si accontentava.
Domanda finale: se Dio davvero gli rivelò il suo nome, dimmi, qual è questo nome? Non puoi rispondermi che fu il tetragramma: quello, Mosè già lo conosceva e aveva chiesto di sapere il nome. Ora rispondimi, per favore.
Lo so che il galateo mi vieta di domandarti se hai capito e che m’imporrebbe invece di domandarti se io sono stato chiaro. Tuttavia, tu hai capito?
bruciolis
00venerdì 12 febbraio 2010 10:01
Re:
CieloSegreto, 12/02/2010 8.18:

Caro bruciolis, io non mi contraddico. Forse tu non hai letto bene la mia trattazione. Lo dimostra ciò che scrivi: “Quello che noi chiamiamo tetragramma è la risposta di Dio; non gli fu rifiutata”. Bene, mettiamola diversamente e vediamo se riusciamo a capirci.
Secoli prima che Mosè domandasse a Dio quale fosse il suo nome, quello che non solo voi ma tutti chiamano tetragramma, era già conosciuto e usato; la stessa madre di Mosè aveva un nome che contiene parte del tetragramma. Ora, bruciolis, ti faccio alcune semplici domande.
Dimmi, cosa cambiò dopo che Mosè fece la sua richiesta a Dio? Quale fu la risposta di Dio? Siccome Mosè conosceva il tetragramma e ciononostante domandò a Dio quale fosse il suo nome (fatto che dimostra in sé che il tetragramma non era considerato da Mosè un nome), che nome divino Dio rivelò a Mosè? Tu lo sai? Io so che Dio gli ribadì semplicemente ciò che Mosè sapeva già, spiegando che così dovevano continuare a chiamarlo.
Preferisci intendere il tetragramma come “io sarò chi sarò”? Bene. Riflettici, allora. Già prima Dio era ‘chi sarà’. E dopo la sua risposta a Mosè? “Sarò chi sarò”. Dio voleva continuare ad essere chi voleva lui. Mosè doveva accontentarsi. Così, il “nome” continuò ad essere quello che Mosè già conosceva e di cui non si accontentava.
Domanda finale: se Dio davvero gli rivelò il suo nome, dimmi, qual è questo nome? Non puoi rispondermi che fu il tetragramma: quello, Mosè già lo conosceva e aveva chiesto di sapere il nome. Ora rispondimi, per favore.
Lo so che il galateo mi vieta di domandarti se hai capito e che m’imporrebbe invece di domandarti se io sono stato chiaro. Tuttavia, tu hai capito?



Caro Cielo, sei superficiale se ti fermi ai primi paletti!

Secondo te “conoscere” significa necessariamente essere
al corrente o informato in merito a qualcosa o qualcuno?

’Ehyèh ’Ashèr ’Ehyèh non significa semplicemente “essere”, bensì “divenire” o “mostrare d’essere”. L’espressione ebraica non fa riferimento all’autoesistenza di Dio, ma a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri.
dopo secoli di schiavitù era questo che voleva sentirsi dire Mosè.
insomma, chiedeva una "garanzia"!

Che il nome di Dio non fosse cambiato, ma che questa dichiarazione aiutava solo a comprendere meglio la sua personalità, è dimostrato dalle sue successive parole: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5).





CieloSegreto
00venerdì 12 febbraio 2010 10:34
Caro bruciolis, noto che tu riporti parte della nota in calce di TNM a Es 3:14. Questa nota, tra l’altro afferma: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”. Ebr. אהיה אשר אהיה (’Ehyèh ’Ashèr ’Ehyèh), l’espressione con cui Dio chiama se stesso”.
Secondo questa nota, la locuzione divina sarebbe “l’espressione con cui Dio chiama se stesso”. In verità, Dio qui non sta chiamando se stesso: se così fosse, i Testimoni di Geova userebbero questo “nome” e non “Geova”. Dio sta invece rispondendo alla domanda di Mosè, ma non per dare il suo nome. Come tutta risposta a Mosè che vuol sapere il suo nome, Dio dice: “Sono chi sono” (traduzione letterale dall’ebraico). Coglie nel segno Rotherham traducendo “Io diverrò qualunque cosa mi piaccia”. In pratica, Dio sta dicendo a Mosè: Domandi il mio nome? Io sarò quel che vorrò. Modo elegante e istruttivo per dire che il suo nome non lo farà sapere. Di fatto – lo si noti – Dio non risponde a Mosè soddisfacendo la sua domanda. Il suo nome non lo dice. Per tutta risposta dice che sarà chi gli pare.
Secondo la nota, Dio si riferisce “a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri”. In verità, Dio risponde così a Mosè per dirgli che il suo nome non lo dirà. Il contesto, se lo si legge bene, indica proprio questo. Comunque, la frase della nota contiene suo malgrado una verità: nei confronti degli altri Dio sarà semplicemente quel che sarà.
La nota di TNM riferisce: “’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, ‘divenire; mostrar d’essere’”. È vero? Sì, ma in parte. E non in questo caso.
Mi spiace dover ricordare che la Watchtower ha ricevuto nel corso dei decenni molte diffide da parte di editori per citazioni fatte in modo non corretto. Questi editori di opere di consultazione (enciclopedie, vocabolari, dizionari, studi e simili) hanno diffidato la società americana Watchtower dal citare estratti “aggiustati” dalle loro opere. Alcuni hanno perfino vietato tassativamente di essere citati dalla Watchtower. Non son forse corrette le citazioni della Watchtower? Sì che lo sono: le parole vengono riportate parola per parola, alla lettera, tra virgolette. Ma sono citate con parzialmente, isolate dal contesto, traendo solo quelle parole o frasi che avvalorano la tesi presentata dalla Watchtower (questo ovviamente nei casi contestati dagli editori).
Ora, nella citazione fatta dalla nota (di cui non è riportata neppure la fonte - si noti), siamo di fronte ad uno di questi casi. Il semplice lettore che legge la citazione non può che arrivare alla conclusione che il verbo ebraico hayàh significhi quello che è detto: “’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, ‘divenire; mostrar d’essere’” (TNM, nota in calce a Es 3:14). Non è proprio così. Il significato riferito è molto secondario. Il significato principale di hayàh è “essere”. Perché non ci siano dubbi rimandiamo al Dizionario di ebraico e aramaico biblici a cura di J. A. Soggin, uno dei massimi esperti mondiali di ebraico biblico, relativo al verbo ebraico היה (hayàh). Come si nota in tale autorevole dizionario, il significato “divenire” appare solo al quinto posto. Spacciarlo come significato principale non è corretto. In quanto al tempo, la nota ci informa che la forma verbale heyèh (אהיה) “è all’imperfetto, prima persona sing.”. Vero. Ma la conclusione tratta - ovvero che significherebbe “‘Io diverrò’, o ‘Io mostrerò d’essere’” – non è esatta.
Il significato di “divenire” è già stato messo in dubbio. Ora è il caso di mettere in dubbio il tempo. L’espressione heyè, e quindi l’intera locuzione ehyèh ashèr ehyèh, può essere tradotta non solo “io sarò”, ma anche “io sono”. Si vedano le seguenti versioni:

CEI “Io sono colui che sono!”
Did “IO SON COLUI CHE SONO”
ND “IO SON COLUI CHE SONO”
Lu “'Io sono quegli che sono'”
NR “Io sono colui che sono”

Questa traduzione è più conforme al contesto. Alla domanda di Mosè su quale sia il nome di Dio, tutto ciò che egli ottiene in risposta da Dio è: “Io sono chi sono”. Dio è chi vuole essere. Così, anche la successiva abbreviazione - heyèh (אהיה) – va intesa: “Io sono”.
bruciolis
00venerdì 12 febbraio 2010 11:29
Re:
CieloSegreto, 12/02/2010 10.34:

Io sarò quel che vorrò. Modo elegante e istruttivo per dire che il suo nome non lo farà sapere.



se così fosse (ma non lo è), sarebbe solo un modo villano di rispondere.
ripeto:
Che il nome di Dio non fosse cambiato, ma che questa dichiarazione aiutava solo a comprendere meglio la sua personalità, è dimostrato dalle sue successive parole:
“Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5).


CieloSegreto, 12/02/2010 10.34:

Mi spiace dover ricordare che la Watchtower ha ricevuto nel corso dei decenni molte diffide da parte di editori per citazioni fatte in modo non corretto. Questi editori di opere di consultazione (enciclopedie, vocabolari, dizionari, studi e simili) hanno diffidato la società americana Watchtower dal citare estratti “aggiustati” dalle loro opere. Alcuni hanno perfino vietato tassativamente di essere citati dalla Watchtower. Non son forse corrette le citazioni della Watchtower? Sì che lo sono: le parole vengono riportate parola per parola, alla lettera, tra virgolette. Ma sono citate con parzialmente, isolate dal contesto, traendo solo quelle parole o frasi che avvalorano la tesi presentata dalla Watchtower (questo ovviamente nei casi contestati dagli editori).




questo è fuori luogo


CieloSegreto
00venerdì 12 febbraio 2010 14:41
Che il nome di Dio non fosse cambiato, ma che questa dichiarazione aiutava solo a comprendere meglio la sua personalità, è dimostrato dalle sue successive parole: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5).
Così tu scrivi. Tuttavia, il contesto biblico non appoggia questa tesi. Quando Dio appare a Mosè dal roveto ardente, gli dice: “Io sono l’Iddio di tuo padre, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe” (Es 3:6). Dio s’identifica subito con Mosè. Mosè sa benissimo che a parlagli è Dio, tanto che “Mosè nascose la sua faccia, perché temeva di guardare il [vero] Dio”. – Ibidem.
Dopo che Dio gli affida l’incarico, Mosè è riottoso: “Chi sono io perché vada da Faraone e perché debba far uscire i figli d’Israele dall’Egitto?” (v. 11). Dio gli assicura che sarà con lui (v. 12). Mosè accampa scuse, non se la sente, pone difficoltà. È in questa serie di scuse che accampa, che domanda a Dio il suo nome (v. 13). Dio gli dice allora: “Io sono chi sono”. Che questa sia la traduzione giusta è confermato dalla LXX greca che traduce: Ἐγώ εἰμι ὁ ὤν (egò eimì o on), “Io sono l’essente”; è confermato anche dalla Vulgata latina che traduce: ego sum qui sum, “Io sono colui che sono”. Dopo questa dichiarazione, che suona come ‘Io sono chi mi pare di essere’, Dio ribadisce: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Yhvh l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi” (v. 15).
Mosè continua però ad accampare scuse: “Ma supponiamo che non mi credano e non . . .” (4:1). E Dio di nuovo lo rassicura (vv. 2-9). È finta? No. Mosè ha pronta una nuova scusa: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore” (v. 10). Dio lo rassicura per l’ennesima volta (vv. 11,12). Ora è finita? No.
Non avendo più scuse da accampare, ora Mosè la dice tutta: “Ti prego, Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!” (v. 13), il che significa: ‘Manda chi ti pare purché non sia io’. “Allora l'ira del Signore si accese contro Mosè”. – V. 14.
In tutta questa serie di pretesti che Mosè usa, come si fa a pensare che nel solo caso della richiesta del nome si preoccupasse di conoscere meglio la personalità di Dio? La verità è che Mosè si preoccupava solo di non essere coinvolto. Se la risposta di Dio avesse avuto lo scopo di far “comprendere meglio la sua personalità” (come pretendi), dovremmo dire che non andò a segno, dato che Mosè poi non cambia atteggiamento, ma continua con la sua serie di trovate per cercare solo una scappatoia.
“Pertanto Mosè andò e tornò da Ietro suo suocero e gli disse: ‘Voglio andare, ti prego, e tornare dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora in vita’” (4:18). Si legge qui una certa rassegnazione. Al suocero non parla con entusiasmo del suo incontro con Dio e del suo incarico: gli dice perfino una mezza bugia.
Ovviamente, Mosè divenne poi uomo di gran fede. Come Yeshùa, anche lui “imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì”. – Eb 5:8.
Walter.Simoni
00venerdì 12 febbraio 2010 17:10
Re:
CieloSegreto, 12/02/2010 10.34:


.... Mi spiace dover ricordare che la Watchtower ha ricevuto nel corso dei decenni molte diffide da parte di editori per citazioni fatte in modo non corretto.




Carissimo CieloSegreto, ti invito formalmente ad affrontare le tematiche teologiche senza prendere di petto per nessuna ragione la WT o l'Organizzazione dei TDG, perchè questo lede il dialogo interreligioso.

Più volte nei tuoi scritti (come negli articoli pubblicati nel tuo sito) parli con toni pregiudizievoli e offensivi nei confronti della ns Organizzazione.
Ti incoraggio a continuare a partecipare, dialogando serenamente sulle differenze di interpretazione teologica, ma senza - once more - parlar male della ns Organizzazione.

Ho fiducia nelle tue capacità di afferrare il senso del mio messaggio, e per questo ti ringrazio anticipatamente e ti porgo i miei saluti in Cristo.

Shalom
CieloSegreto
00venerdì 12 febbraio 2010 18:04
Carissimo Walter Simoni, prima di tutto mi scuso con tutti i lettori del forum per aver dato questa impressione. Se qualcuno si è sentito urtato, me ne rammarico e garantisco sin d’ora che eviterò in tutti i modi di dare di nuovo quest’antipatica impressione. Sicuramente non ho mai avuto intenzione di offendere alcuno. Ho profondamente rispetto per qualsiasi persona di fede, indipendentemente dalla religione che professa. Grazie per l’appunto, che accetto umilmente.
bruciolis
00venerdì 12 febbraio 2010 19:26
Re:
CieloSegreto, 12/02/2010 14.41:

Che il nome di Dio non fosse cambiato, ma che questa dichiarazione aiutava solo a comprendere meglio la sua personalità, è dimostrato dalle sue successive parole: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5).
Così tu scrivi. Tuttavia, il contesto biblico non appoggia questa tesi. Quando Dio appare a Mosè dal roveto ardente, gli dice: “Io sono l’Iddio di tuo padre, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe” (Es 3:6). Dio s’identifica subito con Mosè. Mosè sa benissimo che a parlagli è Dio, tanto che “Mosè nascose la sua faccia, perché temeva di guardare il [vero] Dio”. – Ibidem.
Dopo che Dio gli affida l’incarico, Mosè è riottoso: “Chi sono io perché vada da Faraone e perché debba far uscire i figli d’Israele dall’Egitto?” (v. 11). Dio gli assicura che sarà con lui (v. 12). Mosè accampa scuse, non se la sente, pone difficoltà. È in questa serie di scuse che accampa, che domanda a Dio il suo nome (v. 13). Dio gli dice allora: “Io sono chi sono”. Che questa sia la traduzione giusta è confermato dalla LXX greca che traduce: Ἐγώ εἰμι ὁ ὤν (egò eimì o on), “Io sono l’essente”; è confermato anche dalla Vulgata latina che traduce: ego sum qui sum, “Io sono colui che sono”. Dopo questa dichiarazione, che suona come ‘Io sono chi mi pare di essere’, Dio ribadisce: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Yhvh l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi” (v. 15).
Mosè continua però ad accampare scuse: “Ma supponiamo che non mi credano e non . . .” (4:1). E Dio di nuovo lo rassicura (vv. 2-9). È finta? No. Mosè ha pronta una nuova scusa: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore” (v. 10). Dio lo rassicura per l’ennesima volta (vv. 11,12). Ora è finita? No.
Non avendo più scuse da accampare, ora Mosè la dice tutta: “Ti prego, Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!” (v. 13), il che significa: ‘Manda chi ti pare purché non sia io’. “Allora l'ira del Signore si accese contro Mosè”. – V. 14.
In tutta questa serie di pretesti che Mosè usa, come si fa a pensare che nel solo caso della richiesta del nome si preoccupasse di conoscere meglio la personalità di Dio? La verità è che Mosè si preoccupava solo di non essere coinvolto. Se la risposta di Dio avesse avuto lo scopo di far “comprendere meglio la sua personalità” (come pretendi), dovremmo dire che non andò a segno, dato che Mosè poi non cambia atteggiamento, ma continua con la sua serie di trovate per cercare solo una scappatoia.
“Pertanto Mosè andò e tornò da Ietro suo suocero e gli disse: ‘Voglio andare, ti prego, e tornare dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora in vita’” (4:18). Si legge qui una certa rassegnazione. Al suocero non parla con entusiasmo del suo incontro con Dio e del suo incarico: gli dice perfino una mezza bugia.
Ovviamente, Mosè divenne poi uomo di gran fede. Come Yeshùa, anche lui “imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì”. – Eb 5:8.



au contraire, mio caro Cielo, proprio la non voglia di Mosè di essere coinvolto in qualcosa
di troppo grande per i suoi gusti, rende più plausibile la tesi da me esposta.
per intraprendere e portare a termine una missione impossibile,
e non avendo la minima voglia di farlo,
è lampante che Mosè cominci col chiedere le credenziali.
(anche perchè, come ho già detto, “conoscere” non significa necessariamente essere al corrente
o informato in merito a qualcosa o qualcuno).
tornando al discorso, se le credenziali non c'erano, Mosè avrebbe avuto
immediatamente una scusa valida per non essere coinvolto.
con la conferma che Dio avrebbe "mostrato d'essere" Mosè
cerca di trovare ancora qualche appiglio, ma tira in ballo
la sua "incapacità"!

poi, scusa, in tutta la Bibbia Geova ha "mostrato d'essere"
e continuerà a "mostrare d'essere"

“Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5)

più chiaro di così!!
CieloSegreto
00venerdì 12 febbraio 2010 21:18
Caro Bruciolis, forse è il caso di abbandonare la discussione. Non ci comprendiamo. Dopo tutto quello che ho scritto la tua conclusione è:

“Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5)
più chiaro di così!!

Il fatto è che tu continui a basarti su una traduzione. La Scrittura non dice “Geova l’Iddio dei vostri antenati”, ma “Yhvh l’Iddio dei vostri antenati”. La lezione “Yehovah” è quella del Testo Masoretico, ovvero quello vocalizzato dai masoreti secoli e secoli dopo Yeshùa. Questa lezione – per ignoranza degli studiosi – è perdurata fino alle soglie del nostro 20° secolo. Solo allora gli studiosi si sono resi conto che i masoreti avevano creato un nome ibrido, inserendovi appositamente le vocali sbagliate. Ora – se si vuol capire –, sono possibili varie altre combinazioni di vocali, ma una cosa è certa: non quelle di “Yehovah”, che sono sicurissimamente sbagliate.
E qui tu mi dirai di nuovo che sì, è così, ma quel nome, se pur sbagliato, è quello noto da secoli. Si vuol continuare ad usare un nome solo perché noto pur sapendo che è decisamente errato? È una scelta. Personalmente credo che il rispetto dovuto a Dio e alla Scrittura dovrebbe far optare per una scelta più deferente. Ma, ripeto, è una scelta.
(SimonLeBon)
00venerdì 12 febbraio 2010 21:22
Re: Valutazioni.
Cielo la tua ricostruzione brilla per precisione e per grossolanità, allo stesso tempo.
Hai menzionato parecchi dettagli importanti, pur non potendo trattare l'argomento in un solo post.
Mi sembra un po' ridicolo teorizzare che il Nome piu' diffuso di tutto il testo biblico, chiamato e trattato in modo esplicito come "nome", non sia quello che il testo dice, cioè un "nome".
Sul suo senso si sono versati fiumi di inchiostro, il senso tuttavia resta secondario, visto che il testo non lo esplicita. Sfiora pero' il ridicolo sostituire il "senso" al "nome" stesso. Molte volte è solo il primo passo verso la rinuncia ad usarlo, cioè a fare il contrario di quello che il testo invita a fare.

Fantasiosa è anche la tua teoria secondo cui Russel avrebbe riscritto il Nome, invece di accettare semplicemente quello che già era presente in letteratura, anglosassone come italiana, molti secoli prima di lui.
Questa mi sembra un tentativo di offesa gratuita a chi ha speso la vita per renderlo noto, quel Nome.

Simon
bruciolis
00venerdì 12 febbraio 2010 22:53
Re:
CieloSegreto, 12/02/2010 21.18:

Caro Bruciolis, forse è il caso di abbandonare la discussione. Non ci comprendiamo. Dopo tutto quello che ho scritto la tua conclusione è:

“Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso 3:15; cfr. Sl 135:13; Os 12:5)
più chiaro di così!!

Il fatto è che tu continui a basarti su una traduzione. La Scrittura non dice “Geova l’Iddio dei vostri antenati”, ma “Yhvh l’Iddio dei vostri antenati”. La lezione “Yehovah” è quella del Testo Masoretico, ovvero quello vocalizzato dai masoreti secoli e secoli dopo Yeshùa. Questa lezione – per ignoranza degli studiosi – è perdurata fino alle soglie del nostro 20° secolo. Solo allora gli studiosi si sono resi conto che i masoreti avevano creato un nome ibrido, inserendovi appositamente le vocali sbagliate. Ora – se si vuol capire –, sono possibili varie altre combinazioni di vocali, ma una cosa è certa: non quelle di “Yehovah”, che sono sicurissimamente sbagliate.
E qui tu mi dirai di nuovo che sì, è così, ma quel nome, se pur sbagliato, è quello noto da secoli. Si vuol continuare ad usare un nome solo perché noto pur sapendo che è decisamente errato? È una scelta. Personalmente credo che il rispetto dovuto a Dio e alla Scrittura dovrebbe far optare per una scelta più deferente. Ma, ripeto, è una scelta.



hai scritto fiumi di parole (veramente sempre le stesse; per autoconvincimento?) sostenendo che Dio non ha
un nome... mentre ora ce l'ha?
**************
CieloSegreto
00sabato 13 febbraio 2010 08:54
Decisamente è meglio abbandonare quella che ormai non è una discussione obiettiva su un soggetto biblico: ora è scaduta in una polemica che vede solo lo scontro tra un credo religioso e l’indagine biblica.
Mi sento solo in dovere di rispondere alle ultime affermazioni, poi tirerò le somme per ciò che mi riguarda.
A SimonLeBon, che mi ha scritto: “la tua ricostruzione brilla per precisione e per grossolanità, allo stesso tempo”, obietto che la mia analisi poggia su dati biblici, filologici e storici. Nel contempo, però, mi è stato citato quale “prova” uno studioso francese che ha scritto un intero libro per cercare di mostrare la sua fantasiosa ipotesi che gli fa sostenere che nel solo tetragramma le consonanti avrebbero valore vocalico. Non occorrono lauree in lingue semitiche per confutarlo: basta il buon senso. In quanto al “nome” – e qui rispondo anche a Bruciolis – avevo scritto chiaramente che quello che non era un nome alla fine diventò il Nome. Ma forse vi è sfuggito.
Dicendo che “sfiora però il ridicolo sostituire il ‘senso’ al ‘nome’ stesso”, mi rendo conto che non conoscete la valenza del nome nella Scrittura. Tento di darvi un indizio. Leggete Mt 1:21: “Tu gli dovrai mettere nome Gesù, poiché egli salverà il suo popolo”. Ora domandatevi: perché non poteva chiamarsi Simone o Beniamino e salvare lo stesso il suo popolo? Nella risposta sta tutto il senso che il nome ha nella Bibbia.
In quanto a “fantasiosa è anche la tua teoria secondo cui Russel avrebbe riscritto il Nome, invece di accettare semplicemente quello che già era presente in letteratura anglosassone”, io non ho mai detto che lo ha riscritto: casomai lo ha riletto. Il pastore Russel, il cui insegnamento fu tradito proprio dal suo successore, aveva molte intuizioni, ma non era un conoscitore delle lingue bibliche. Da americano, leggeva “Gihòva” quello che appariva nelle sue Bibbie americane. Per di più, la manovra masoretica di aver inserito vocali sbagliate nel tetragramma non era ancora venuta alla luce. Tutto qui.
Ora tiro le mie conclusioni. Anzi, faccio una riflessione.
Vedete, io dedico sinceramente la vita allo studio delle Scritture senza essere legato ad alcun credo religioso. Per me vale il detto già coniato di “sola Scriptura”. Non essendo prigioniero di un credo umano, se domani avessi l’evidenza biblica che una certa cosa è diversa da come la intendevo, cambierei immediatamente opinione. Non a tutti è concesso. Ci sono persone che non possono farlo, perché se cambiassero opinione su una singola cosa, tutto il loro mondo di credenze crollerebbe. Se poi qualcuno personalmente vede che l’evidenza biblica è proprio contraria a ciò che la sua religione sostiene, possono accadere solo quattro cose. 1. Far finta di niente, non pensarci più e continuare ad affidarsi a tutto il resto che la sua religione sostiene; 2. Farlo presente e cercare di aiutare chi ancora non ha capito l’evidenza, e così andare in contro all’espulsione; 3. Perdere del tutto la fede e raffreddarsi; 4. Tenere la cosa per sé e far buon viso a cattivo gioco (posizione molto sofferta che non perdura). Qualunque sia la strada intrapresa, in ogni caso ha poco a che fare con “la libertà dei figli di Dio”.
Possa Dio benedirvi, che certo vede la sincerità dei vostri cuori.
barnabino
00sabato 13 febbraio 2010 12:18
Caro Cielo,

Mi ero proposto di non risponderti perché

1. Non mi piacciono le persone piene di sé
2. Non apprezzo chi presenta gli argomenti in modo polemico

Ma permettimi di intervenire, perché tu stai lanciando su di noi tutto il tuo personale veleno contro i testimoni di Geova (ed in generale le religioni organizzate) e questo non lo ritenbgo corretto, soprattitto quando ci si nasconce dietro ipotetici dati filologici e storici.

Per esempio tu scrivi


la mia analisi poggia su dati biblici, filologici e storici



La forma Geova (o Jehovah in inglese) non l'ha inventata Rusell ma è semplicemente una forma letteraria molto più antica e comune nocra oggi, la cui storia e sviluppo nel corso del tempo è ben spiegata da Gerard Gértoux in un'opera molto erudita che ti suggerirei di leggere. Che non fosse la pronuncia ebraica è ovvio, Geova non è ebraico ma è italiano, così come sono italianizzazioni Gesù/Giuosuè, Mosè, Giovanni, ecc... senza che nessuno si sia mai scandalizzato epr il loro uso nelle lingue vernacolari.


Per di più, la manovra masoretica di aver inserito vocali sbagliate nel tetragramma non era ancora venuta alla luce



A dire il vero sono secoli che si conosce la differenza tra il qeré e il ketiv, dato che è indicato chiaramente nella Massora del TM.


Così, anche la successiva abbreviazione - heyèh (אהיה) – va intesa: “Io sono”



Non necessariamente, e la questione sul nome che hai aperto è presto risolta: 'ehye descrive Dio mentre YHWH nomina Dio.


Ora – se si vuol capire –, sono possibili varie altre combinazioni di vocali, ma una cosa è certa: non quelle di “Yehovah”, che sono sicurissimamente sbagliate.



Che cosa vuol dire "sbagliata"? Sbagliata rispetto a che cosa? Rispetto alla lingua italiana, quella in cui scriviamo in questo forum, Geova è la forma storica con cui ci riferiamo al nome ebraico YHWH e non vi è nessun errore, tanto è vero che capisci benissimo e senza alcuna ambiguità il referente. Quale fosse poi la pronuncia ebraica (in quale epoca? La pronuncia delle parole non è statica ma dinamica, cambia nello spazio e nel tempo) non ci interessa.


Nel contempo, però, mi è stato citato quale “prova” uno studioso francese che ha scritto un intero libro per cercare di mostrare la sua fantasiosa ipotesi che gli fa sostenere che nel solo tetragramma le consonanti avrebbero valore vocalico. Non occorrono lauree in lingue semitiche per confutarlo: basta il buon senso. In quanto al “nome” – e qui rispondo anche a Bruciolis – avevo scritto chiaramente che quello che non era un nome alla fine diventò il Nome. Ma forse vi è sfuggito.



Possiamo non essere d'accordo con le conclusioni di Gertoux ma definire "fantasiosa ipotesi" quella che sviluppa è prova che:

1. o non hai letto il libro
2. o non hai capito la tesi che l'autore sviluppa

L'autore non dice certo che quella delle matres lectionis sia l'unico indizio che YeHoWaH sia la pronuncia premasoretica del nome divino né dice che "nel solo tetragramma le consonanti avrebbero valore vocalico". Ma dove lo hai letto? Anzi, Gertox fa un lungo excursus sulle matres lectionis e sull'uso che ne fecero i masoreti per definire il testo vocalico, passando anche dalle dichiarazioni di Maimonide. Gertoux fa solo notare che se dovessimo leggere YHWH secondo le mater lectionis (le "sue vocali", dato che queste lettere erano usate come vocali e Giuseppe Flavio dice chiaramente che il Nome era formato da quattro vocali, e non consonanti) leggeremmo IEOA o IEUA. Tutto qui, tacciarlo di fare delle "ipotesi fantasiose" è alquanto scorretto da parte tua.

Ma naturalmente non è quella l'unica "prova" (che è megoio chiamare indizio) rispetto alla corretta pronucia. Ma ripeto, ai TdG la corretta pronuncia interessa poco, tanto è vero che la WTS pur non potendo escludere YeHoWaH ritiene più probabile la forma Yahweh. Non si capisca bene, allora, a chi sono diretti i tuoi strali polemici: ad un autore di cui non hai neppure letto il libro?

Permettimi: tutto questo è poco serio.

Shalom
barnabino
00sabato 13 febbraio 2010 12:28

Ci sono persone che non possono farlo, perché se cambiassero opinione su una singola cosa, tutto il loro mondo di credenze crollerebbe



Si chiama dissonanza cognitiva, quella di cui francamente sembri essere tu la vittima.

Shalom
(SimonLeBon)
00sabato 13 febbraio 2010 12:38
Re:
Caro Cielo,

CieloSegreto, 2/13/2010 8:54 AM:

Decisamente è meglio abbandonare quella che ormai non è una discussione obiettiva su un soggetto biblico: ora è scaduta in una polemica che vede solo lo scontro tra un credo religioso e l’indagine biblica.



Ti invito a metterti in prima fila tra i responsabili, visto che tu mescoli bellamente riflessioni sull'origine del tetragramma alla pronuncia che il pastore Russel a suo tempo avrebbe fatto del Nome divino.

Cielo:


...
A SimonLeBon, che mi ha scritto: “la tua ricostruzione brilla per precisione e per grossolanità, allo stesso tempo”, obietto che la mia analisi poggia su dati biblici, filologici e storici. Nel contempo, però, mi è stato citato quale “prova” uno studioso francese che ha scritto un intero libro per cercare di mostrare la sua fantasiosa ipotesi che gli fa sostenere che nel solo tetragramma le consonanti avrebbero valore vocalico. Non occorrono lauree in lingue semitiche per confutarlo: basta il buon senso.



Come già detto sopra, la tua analisi della pronuncia del pastore Russel non ha nulla di biblico, filologico o storico, anzi è del tutto irrilevante e lascia solo spazio alla polemica pura.

Da parte mia non ho mai citato "uno studioso francese". Se pero' ti riferisci al Gertoux, la sua teoria è stata esaminata da eminenti linguisti e ricercatori, non semplici laureati, e valutata come molto interessante. Evidentemente il tuo pregiudizio non ti consente di apprezzare le conclusioni di quel tipo di ricerca.


Cielo:

In quanto al “nome” – e qui rispondo anche a Bruciolis – avevo scritto chiaramente che quello che non era un nome alla fine diventò il Nome. Ma forse vi è sfuggito. Dicendo che “sfiora però il ridicolo sostituire il ‘senso’ al ‘nome’ stesso”, mi rendo conto che non conoscete la valenza del nome nella Scrittura. Tento di darvi un indizio. Leggete Mt 1:21: “Tu gli dovrai mettere nome Gesù, poiché egli salverà il suo popolo”. Ora domandatevi: perché non poteva chiamarsi Simone o Beniamino e salvare lo stesso il suo popolo? Nella risposta sta tutto il senso che il nome ha nella Bibbia.



Non mi è sfuggito affatto, perchè il le tue conclusioni non sono per niente originali, per dirla in breve è "minestra scaldata".
Se il contesto del versetto stesso lo indica come "Nome" è evidente che bisogna contraddire in maniera aperta la Scrittura per affermare che è un "non nome".

Per tua informazione, non ho mai affermato che i nomi ebraici spesso non hanno significato, ho affermato che non è lecito sostituirli col loro significato.
Il Iesous che tu citi continuo' a venir chiamato "Iesous" e non "egli salverà il suo popolo". Idem non si dovrebbe, come invece proponi tu, sostituire "Geova" con "io sono".

Cielo:

...
Possa Dio benedirvi, che certo vede la sincerità dei vostri cuori.



Ricambio.

Simon
CieloSegreto
00sabato 13 febbraio 2010 12:40
Va bene, Barnabino.
Roberto Carson
00sabato 13 febbraio 2010 12:52
La discussione è chiusa.
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