00 13/09/2009 23:39
1. INTRODUZIONE

Due naufraghi erano ancora lontani dalla riva, ma con la loro zattera di fortuna ci si stavano avvicinando. Ad un certo punto, uno di loro disse che la zattera andava manovrata in modo diverso, ma l’altro non era d’accordo. Siccome erano degli esperti, nessuno dei due volle cedere. Il contrasto si fece sempre più aspro e cominciarono a litigare. Non prevalse né l’uno né l’altro, però, perché la zattera finì per rovesciarsi ed ambedue furono inghiottiti dal mare, seppur ancora convinti di avere ragione.
Quando un cristiano si appassiona alla “sana dottrina” si può esser certi che comincerà a combinare guai. Se fosse a capo del mondo metterebbe su una “santa inquisizione” planetaria; se invece non ha potere, comincia a mordere quelli che gli capitano vicino. In nome della sana dottrina, insomma, succede che si spacca sempre più la “zattera di condivisione” che lega fra loro tutti gli appartenenti a Cristo e, in senso più ampio, tutti gli esseri umani.
Qualcuno potrà giustamente obiettare che difendere la sana dottrina è un invito che ci viene fatto dall’apostolo Paolo e perciò non possiamo ignorarlo; non dobbiamo però nemmeno deformarlo, usando categorie culturali greche per concetti che invece sono formulati secondo categorie ebraiche (non bisogna mai dimenticarsi che Gesù e gli apostoli erano ebrei). Comunque, quando viene citata un’espressione biblica, la prima cosa da fare è quella di andarla a leggere nel suo contesto, per controllare se dice veramente quello che gli si vuol far dire.
L’apostolo Paolo usa l’espressione «sana dottrina» in tre lettere dirette a due suoi fedeli discepoli (Timoteo e Tito). I versetti che riguardano direttamente questo concetto sono i seguenti:
1Timoteo 1:6-11 e 6:1-5;
2Timoteo 4:3-4;
Tito 1:7-9 e 2:1-10.
Per i greci, la verità consisteva principalmente in una serie di concetti espressi con opportune parole. Di un filosofo si apprezzava che fosse convincente, senza interessarsi granché di come concretamente vivesse. Ciò purtroppo è stato poi teorizzato anche in campo cristiano, dove si sono scelti modi diversi per dare più importanza alla teologia che alla pratica. In ambito cattolico, per esempio si è affermato che «è importante ciò che il prete dice, non ciò che il prete fa», ponendo al centro una ritualità valida indipendentemente dalla moralità di chi la compie (ex opera operandi). Questa deformazione si era introdotta anche nel mondo ebraico e Gesù riconobbe che i Farisei predicavano bene, ma poi non facevano ciò che predicavano («dicono e non fanno», Matteo 23:3). Insomma, certe tendenze che si attribuiscono ad una certa religiosità, se si guarda più a fondo rivelano spesso tendenze che sono di tutti gli esseri umani, anche se vengono espresse in modi diversi.
Nel contesto biblico-ebraico, insomma, la verità è sostanzialmente rappresentata da fatti, piuttosto che da discorsi. Il Dio di Israele è il vero Dio perché è lui che ha fatto il mondo e non gli idoli dei pagani (Genesi 1; Geremia 10:11-12). Jahvè è il salvatore d’Israele perché lo ha fatto uscire dall’Egitto: è proprio su questa base che vengono dati i dieci comandamenti! (Esodo 20:2).
Più che dire la verità, Gesù era la verità (Giovanni 14:6). Le sue parole erano vere perché operavano concretamente (Matteo 4:23; Giovanni 11:43) e perché è risorto. Gesù non è stato un filosofo che ha insegnato a far certi discorsi, ma un maestro di vita che ha insegnato una «nuova via» (Atti 19:9,23; 22:4; 24:22) sulla quale modellare la nostra vita quotidiana. La sana dottrina insegnata da Gesù e dagli apostoli, insomma, era soprattutto un santo modo di vivere che si contrapponeva ai comportamenti deviati dei pagani (1Pietro 1:18; Efesini 2:1-10). Paolo cercò di coinvolgere i filosofi greci con i discorsi, ma ciò costituì solo un iniziale andare incontro al loro stile, passando poi presto ad invitarli a cambiar vita (cioè ravvedersi), portando come prova di verità il fatto della risurrezione di Gesù (Atti 17:22-31).



Per contatti: roberto.carson@tiscali.it