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D. Gesù come realizzazione, per ora parziale, delle promesse ad Abramo

Una parte delle promesse di Dio ad Abramo può essere riferibile alla sua discendenza fisica («Io darò questo paese alla tua discendenza»), mentre un’altra parte ai suoi effetti universali («In te saranno benedette tutte le famiglie della terra»), (Genesi 12:3-7).
Gesù aveva certamente presente tutta la complessa opera di salvezza che avrebbe dovuto realizzare e che era stata annunciata dai profeti. Quando però lesse a Nazaret il cap. 61 di Isaia si fermò a metà del secondo versetto, commentando che la profezia letta la stava adempiendo lui in quel momento (Luca 4:16-21). Gesù sapeva che l’immensa opera da fare avrebbe necessitato di tempi lunghi, ma un comune ebreo, facendo l’esegesi di quel capitolo ed esaminandone il contesto, come poteva capire che a metà del versetto 2 si nascondevano almeno 2.000 anni?!
Tutti i commentatori cristiani concordano che l’AT non distingue fra la prima e la seconda venuta del Messia, del quale i profeti ne annunciavano l’opera complessiva senza darne la successione temporale; si porta in genere l’esempio di catene montuose, che se viste da lontano sembrano unite, ma poi superata la prima catena ci si rende conto che sono lontane l’una dall’altra. Lo strano è che poi quegli stessi commentatori, spesso, si attardano ad incolpare gli Ebrei di “scarsa spiritualità”, nonostante che la loro colpa fosse semplicemente quella di attendersi la realizzazione di tutto il cap. 61 di Isaia, che prosegue annunciando «il giorno di vendetta del nostro Dio». Anche Giovanni Battista aspettava il realizzarsi immediato di tutte le profezie (Matteo 3:10-12) e, non constatandolo, fu preso addirittura dal dubbio – proprio lui, il testimone chiave – sull’effettiva messianicità di Gesù (Matteo 11:3).
Ci viene naturale l’essere severi con gli altri e indulgenti con noi stessi, ma noi siamo forse più spirituali e più biblici quando dimentichiamo le promesse di Dio alla discendenza fisica di Abramo? Arrivando a ritenerle non solo rinviate, ma addirittura annullate! Chi vuol risolvere tutto con lo studio biblico esegetico (certamente utilissimo, ma insufficiente) ha difficoltà a riconoscere che la vita di Gesù fu più una rivelazione che un adempimento di profezie, il cui senso fu chiaro soprattutto dopo la risurrezione di Gesù: solo allora i due discepoli sulla via per Emmaus ne capirono veramente la funzione di preannuncio (Luca 24:13-35).
Gesù prese atto che gli Ebrei stavano per crocifiggerlo e che non avrebbe potuto realizzare tutte le benedizioni promesse dai profeti. Accetta perciò il rinvio, ma non la cancellazione, annunciando un «finché» che non chiude i conti e che attende dagli Ebrei di Gerusalemme l’invito a tornare per completare l’opera: «Non mi vedrete più, finché venga il giorno che diciate: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Luca 13:35).
Anche l’ebreo Paolo non dimenticò la dimensione nazionale ebraica della salvezza portata da Gesù (Romani 11:25-27), come pure non ne dimentica la portata cosmica, cioè di salvezza di un mondo che “geme ed è in travaglio” e che non sarà abbandonato a se stesso (Romani 8:20-23). Noi Gentili ci vantiamo di essere stati innestati nel santo ulivo di Israele (Romani 11:17-18) e facciamo bene a sentircene onorati, però non dobbiamo solo sfruttare la radice ebraica come fossimo parassiti, ma anche mantenerla facendoci carico delle speranze in essa nascoste e che attendono di essere realizzate.



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