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Massimo Introvigne - J. Gordon Melton, L’ebraismo moderno, Elledici, Leumann (Torino), 2004, pp. 240.
Il volume di Introvigne, direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR) di Torino, e Melton, direttore dell’Institute for the Study of American Religion (ISAR) di Santa Barbara (California), rivela pagine poco conosciute dell’universo ebraico evolutosi dopo l’emancipazione, in seguito ai mutamenti politici e culturali accaduti in Occidente dalla seconda metà del secolo XVIII a tutto il secolo XIX.
Il libro, nonostante l’agile mole, è uno strumento aggiornato e ricco di informazioni sul mondo ebraico, descritto – e questo è il dato più originale – anche nelle sue componenti più eterodosse. Correnti diversissime attraversano infatti l’ebraismo, inteso come sistema religioso e culturale che non deve affatto apparire monolitico, bensì notevolmente articolato (e talora diviso) attorno ai suoi assunti fideistici plurimillenari. Confessione religiosa demograficamente minoritaria (oggi nel mondo gli ebrei sono circa 13 milioni), l’ebraismo moderno non può essere presentato nella sua multiforme specificità culturale senza un’introduzione storica e teologica. Ed è quello che i due autori fanno rapidamente all’inizio del testo (pp. 5-41), accostandosi ai dati scritturali e storiografici con quella sensibilità sociologica che costituisce il tratto più caratterizzante la loro lezione interpretativa.
Riformatori, conservatori, ortodossi (pp. 59-137): queste le prime tre grandi famiglie religiose in cui si divide l’ebraismo dei giorni nostri e che pur rifacendosi alla tradizione mosaica, mostrano verso i fondamenti della religione non tanto una propria interpretazione quanto un peculiare approccio (ad esse – ricordiamo – preesistono le due famiglie storico-etniche: i sefarditi, di origine mediterranea, e gli ashkenaziti, di origine centro-europea). Differenti sensibilità dei vari gruppi ebraici, culminanti in chiusure o aperture alle istanze del mondo moderno, sono in ogni caso il frutto della dispersione geografica dell’ebraismo sin dall’età antica, come del processo di distacco dall’aderenza ritualistica e talmudica, promosso per esempio in Prussia da Moses Mendelssohn (1729-1786) fondatore del movimento di riforma denominato Haskalah, e propugnatore di una “religione razionale” (in dialogo e contemporaneamente in opposizione coll’Illuminismo), dove Dio non rivela verità religiose – cui l’uomo è in grado di arrivare con la ragione – ma solamente morali (pp. 47-52). Nell’articolazione dell’ebraismo moderno e contemporaneo intervengono dunque fattori molteplici. Introvigne e Melton trattano ad esempio la grande questione dell’atteggiamento degli ebrei verso la corrente mistica chiamata hassidismo e della loro posizione favorevole o contraria al sionismo e allo Stato di Israele, terra ritrovata dopo 2 mila anni di doloroso esilio eppure avversata nella sua dimensione istituzionale da taluni ambienti ortodossi (p. 125 segg.). L’ortodossia antisionista – pur non rifiutando l’emigrazione (“ritorno”) in Israele – , rigetta infatti il sionismo come ideologia laicista e socialista. Ricordiamo ad esempio il gruppo ortodosso Neturei Karta (“Guardiani della Città”), che rifiuta qualsiasi partecipazione alla vita pubblica israeliana. Nell’opposizione alle leggi e alla sovranità dello Stato vanno colte in questi gruppi le espressioni di quel radicalismo ebraico che, presente sin dall’antico nel messianismo, a partire dall’età moderna assumerà tratti ideologici e implicazioni politiche ben precise (ad esso va ricondotta l’eresia di Shabbetay Tsevì, lo pseudo-messia che infervorò e poi deluse le masse ebraiche nella metà del Seicento, nonché la vicenda di un secolo successiva del “messia” polacco Jacob Frank).
Gli autori passano poi in rassegna il mosaico dei movimenti neo-ebraici (pp. 139-182): dai black jews negli Stati Uniti e in Africa agli incroci contemporanei fra ebraismo e New Age, non dimenticando il singolare caso di “passaggio”all’ebraismo dei braccianti di Sannicandro nel Gargano, guidati dal profeta Donato Manduzio (1885-1948), episodio simile a quello dei cosiddetti “Figli di Mosè” in Perù, avvenuto negli anni ‘60. Questa sezione del volume, in sintesi frutto di una capillare indagine internazionale, contribuisce a tratteggiare l’attuale e per molti inattesa complessità dell’identità ebraica sul piano religioso-confessionale (quantunque l’antisemitismo tenda sempre a considerare gli ebrei un mondo unitario e compatto). Conseguente è la riflessione sull’identità etno-religiosa (pp. 183-233), alla luce di dati empirici, statistici e giuridici (come le sentenze della Corte Suprema di Israele sul tema spinoso della cittadinanza da accordarsi ad ogni ebreo del mondo in base alla nota “Legge del Ritorno”). Facendo propria la domanda “Chi è ebreo?”, gli autori evidenziano come la diaspora, l’emancipazione e gli scenari culturali del mondo contemporaneo rendano ancora oggi incerta una risposta: vi sono infatti ebrei che si considerano tali in base a un’identità nazionale ma non religiosa (e viceversa), come ci sono ebrei osservanti ed ebrei non religiosi. Rivolgendo la medesima domanda a possibili scenari futuri (“Chi sarà ebreo?”) colpisce il dato emerso dal National Jewish Population Survey 2000 secondo cui il 47% degli ebrei sposatosi dopo il 1996 ha coniugi non ebrei, e solo un terzo dei figli nati da questi matrimoni viene educato nell’ebraismo. Il numero di matrimoni misti è ovviamente assai più ridotto in Israele, ma non va dimenticato che la maggior parte degli ebrei vive ancora oggi fuori dai confini dello Stato nato del 1948.
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