LA TRINITÀ FRA ANTICO E NUOVO TESTAMENTO

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Roberto Carson
00mercoledì 13 gennaio 2010 19:39
Cari Amici,

ho finalmente concluso lo studio sulla Trinità e sono venute fuori 51 pagine suddivise in 9 capitoli. In allegato trovate la copertina, l’indice generale e il cap. 1. In seguito conto di mandarvi un capitolo alla volta, con un intervallo grossomodo proporzionato alla lunghezza del capitolo.

Permettetemi di dirvi qualcosa su come l’ho vissuta. Quando Guastafeste mi ha posto la Trinità come elemento di contrasto fra Antico e Nuovo Testamento, dovevo rispondere adeguatamente soprattutto a me stesso; valutando se, quanto e come potevo continuare in una visione della Bibbia intesa come un’unità che va “dalla Genesi all’Apocalisse”. Avevo il dovere di tuffarmi nel fiume per cercare di arrivare all’altra sponda, anche se la nebbia non ne faceva vedere la larghezza e non sapevo se ce l’avrei fatta. Ho scritto d’impulso, ponendomi davanti solo la Bibbia ed ora, guardandomi indietro, non mi sembra vero l’aver fatto quel percorso. Riflettere sulla Trinità mi ha fatto del bene e spero di continuare a farlo. Continuo a ritenere la Bibbia come unitaria, anche se la mia visione si è ulteriormente articolata.

Ringrazio la Chiesa di Siena della quale faccio parte e nella quale mi sento libero di riflettere sulla Parola di Dio. In particolare mi è stato molto utile poter dialogare su questi temi con Antonio e Stefano. Ringrazio il forum di Roberto Carson per avermi data l’occasione di fare questo approfondimento e per metterlo ora a disposizione online. Grazie al Padre celeste, soprattutto, che mi ha fatto velatamente sentire la pace del suo Spirito, facendomi scoprire ancor di più quanto Gesù lo rappresenti pienamente nel Nuovo Testamento.

Fernando De Angelis

Nota: in questa discussione mi limiterò a riportare lo studio del Prof. De Angelis sulla trinità. Qualsiasi utente volesse esporre delle proprie considerazioni o fare delle domande al Professore, è pregato di aprire una discussione a sè stante. Grazie.

Roberto Carson

Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:25
LA TRINITÀ FRA ANTICO E NUOVO TESTAMENTO

Dalla “unità misteriosa” dell’Antico Testamento alla “Quadriunità” finale

CAP. 1
QUESTIONI PRELIMINARI

1. PERCHÉ E COME TRATTIAMO IL PROBLEMA


Una trattazione risente delle circostanze nelle quali nasce, ma in questo caso la realtà supera la fantasia. La questione mi è stata posta da Guastafeste (pseudonimo), un amico cristiano avventista nato da madre ebrea e perciò circonciso, ma di padre avventista; è intervenuto in un dialogo fra me e Mera (altro pseudonimo, di solito scritto mErA). Mera si definisce “nato pagano ma di fede ebraica” ed ha scritto a me (che sono cristiano evangelico) dopo aver letto un mio articolo messo in Internet su un forum gestito da Testimoni di Geova! Anche questa trattazione dovrebbe perciò andare su quel forum, in un apposito “angolo” nel frattempo riservatomi:
( tdgstoriasoctel.freeforumzone.leonardo.it/cartella.aspx?id... ).
Circa trent’anni fa furono proprio i Testimoni di Geova a farmi ulteriormente riflettere sulla Trinità e, pur riconoscendo che qualche ragione l’avevano, sono rimasto “trinitario”. Ora per la prima volta affronto il tema in forma scritta e immagino un pubblico variegato di lettori, ma nelle prime file vedo la cinquantina di preziosi amici della mia mailing list e quelli, più numerosi, che visitano il forum. Ho scritto queste pagine di getto, pescando nella mia memorizzazione della Bibbia e andando perciò a cercare quei versetti che più ricordavo. È perciò probabile che, in una successiva stesura, potranno essere aggiunti altri versetti pertinenti.

Noi evangelici soffriamo spesso di “anoressia” nei confronti della Trinità, perché di essa ci nutriamo poco e ne è poco l’appetito. Che la situazione non di rado sia grave, lo afferma uno che per vari motivi (nascita, studi e tipo di impegno) conosce bene l’ambiente, cioè Leonardo De Chirico: «Nella vita delle chiese si sentono pochi sermoni sulla Trinità. I credenti non sono abituati a pensare in termini trinitari anche perché la predicazione è raramente trinitaria» ... «le chiese possono essere formalmente trinitarie, ma non si sa bene cosa voglia dire e che differenza faccia» ... «La costante autorevisione trinitaria del cristianesimo è una necessità vitale». (Dizionario di teologia evangelica, a cura di P. Bolognesi e altri, EUN, 2007, pp. 757-758).
Rendendomi conto che anch’io ho trascurato troppo il tema, colgo l’occasione per andare oltre lo scopo specifico di rispondere ad una domanda e oltre le aride dispute dottrinali, col desiderio di nutrirmi di più di un insegnamento che è evidentemente centrale per un cristiano.
Questo scritto, però, si inserisce anche nella collana intitolata “Gesù Cristo è lo stesso, dalla Genesi all’Apocalisse” (costituendone la “Terza Serie”), che ha l’obiettivo di proporre una visione unitaria della Bibbia. Lo scopo centrale è perciò quello di vedere se la dottrina della Trinità rappresenti o no un contrasto fra Antico e Nuovo Testamento, cioè se mina o comunque impone un riadattamento alle tesi fin qui portate avanti. Il mio desiderio non è quello di perseverare comunque nell’impostazione di partenza, perché riconoscere i propri limiti ed i propri errori è ciò che di più onorevole possiamo fare, sapendo che quando siamo deboli in noi stessi, proprio allora possiamo ricevere da Dio più efficacia. Via via ripeterò che dobbiamo modellarci sulla Scrittura, evitando di piegarla ai nostri presupposti: se non ne darò qui un chiaro esempio, quelle che seguiranno saranno un perditempo di parole inutili che non vale la pena leggere.
Dato che l’impulso originario è venuto da Guastafeste, andiamo subito a vedere com’è stato formulato.
Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:27
2. «LA TRINITÀ È PER GLI EBREI INACCETTABILE» (di Guastafeste)

Il Guastafeste ha da dire una sola cosa, ma fondata su ricerche ed esperienza diretta e non solo su libri o su ragionamenti speculativi e posizioni preconcette: l'unica scusa o difficoltà incontestabile per gli ebrei è che per loro è veramente difficile accettare la Trinità.
Non è facile bilanciare gli effetti di diecimila versetti che parlano di Dio Creatore Uno solo e non si deve avere nessun altro, nemmeno un'immagine che possa potenzialmente confondere la fede, al massimo un Dio che ha anche "Spirito", ma come parte dell'Uno. Di fronte a tutto ciò ci sono pochi altri versetti dove invece, in base a dei distinguo sul nome usato o ulteriore riflessione (ma per loro magari peccaminosa), si potrebbe forse capire che forse Uno non è, ma potrebbe essere anche Trino (la risurrezione, per chi non lo sapesse, era già descritta nella Bibbia ebraica e funzionava anche senza la Trinità).
Dovrebbero capire bene questo proprio i musulmani e quelli tra i cristiani che hanno la stessa difficoltà degli ebrei, tant'è che sostengono che Cristo è sì il numero Uno, ma sempre dopo il vero Dio, sarà pure il più grande Profeta, colui che instaurerà il Regno di Dio sulla Terra (non il Suo, quello di Suo Padre), ma egli Stesso non è possibile che sia Dio, perciò è anche creato e non solo generato e così via.

Curiosamente, mentre per gli ebrei lo scoglio della Trinità è davvero enorme, tutti i primi cristiani (dico tutti) che erano tutti ebrei (dico tutti) non avevano il problema del passaggio da Uno a Trino; mentre ce l'hanno avuto e tutt’oggi ce l'hanno parecchi cristiani. Come mai?
Se l'argomento è tabù non ne parliamo più, ma se non lo è allora l'unico modo per discutere è valutare le basi scritturali delle rispettive posizioni, ma occorre conoscere la storia delle varie edizioni/traduzioni bibliche, tenendo presente che, guarda un po’ il caso, su 1500 versetti che hanno versioni contrastanti o differenti, 1299 riguardano la Cristologia. Quando si dice il caso.
Vuoi sentire due esempi?
Il primo è Isaia 7:14: «Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele». Ora l'altra versione: «Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».
In una nota a piè di pagina è scritto: «7,14 Ecco: la vergine concepirà: il testo ebraico ha giovane donna All’origine queste parole profetiche dovettero essere intese come promessa di un immediato discendente di Davide, cioè di un figlio di Acaz, quale risposta del Signore alle trame della Siria e di Èfraim. Ma la solennità dell’oracolo e la grandezza del nome dato al bambino, Emmanuele “Dio-con-noi”, fecero sì che queste parole non perdessero il loro carico di speranza dopo la morte del re Ezechia. La versione greca dei LXX tradusse il termine ebraico almah, che significa “giovane”, con parthenos, “vergine”. L’evangelista Matteo, utilizzando il testo dei LXX, riconosce nel passo di Isaia l’annuncio profetico della concezione verginale di Gesù da parte di Maria e guarda a lui come al vero Emmanuele, ossia alla vera e definitiva presenza di Dio fra gli uomini (cfr. Mt 1,18-25)».
La nota è della versione CEI (!), verso la quale faccio tanto di cappello da parte mia, non la danno invece alcune altre versioni non cattoliche! Colmo dell'ironia, ad applaudire la versione Nuova Riveduta è stato un ... rabbinato! Ma non i rabbini specialisti di ebraico? E allora perché non hanno corretto prima loro la traduzione? E invece gli andava bene come andava e neanche mi risulta che sottolineassero che, ad esempio, come in certi dialetti italiani, "vergine" e "giovane " siano interscambiabili, non più di tanto comunque, e non potrebbero fare altrimenti, dato che le due parole comunque si possono usare con lo stesso significato. In chiave moderna uno direbbe che sono stati zitti o quasi per non far torto a Matteo, uno di loro, per giunta diventato nel frattempo patrono di banchieri, bancari, doganieri, guardie di finanza, cambiavalute ... di questi tempi bisogna tenerseli buoni.
Il secondo è ancora più bello: Matteo 24,36: «Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre»: altro che Trinità, quella rimarrebbe solo sulle icone! Ma poi vai a vedere le altre versioni, beh, quelle procuratele da solo e lì potresti trovare: «né gli angeli del cielo, ma solo il Padre» e allora non è poi così semplice, forse la Trinità è reale e non solo sulle icone.
Chi e quando ha cambiato il testo? Abbiamo fatti che dimostrano le sue intenzioni? Intenzioni dichiarate, non dietrologicamente dedotte. Però quando ti avevo detto tempo fa che è affascinante lo studio comparativo delle traduzioni/versioni bibliche e la storia che c'è dietro, tu mi rispondesti: «Questo non è un problema che mi pongo, io cerco di capire le traduzioni che ci sono, lasciando ai traduttori la loro responsabilità». Infatti non è un problema, ma solo finché non si affrontano certi argomenti, che non sono stato io a sollevare e nei quali mi sono solo inserito. Così come non sono stato io ad usare la parola "teocrazia", ma l’ho trovata in una delle lettere alle quali ho cercato di rispondere. A me personalmente, per la mia fede nel Signore, non importano assolutamente né la teocrazia né le versioni bibliche.
Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:28
3. UNA PAROLA DI DIO INUTILIZZABILE?

Nato nel cattolicesimo, del Vangelo ne ascoltavo brani presi qua e là, cioè quelli letti dal prete nella messa. Fu perciò un’emozione quando, proprio in una cattedrale cattolica, trovai un libricino che conteneva tutti e quattro i Vangeli: era incredibile che costasse così poco e che si potesse tenere in tasca! Cominciai a leggerlo con un atteggiamento di superiorità, ma ci fu subito un capovolgimento e così mi ritrovai ad essere io l’osservato dall’alto in basso.
Presi subito contatto con altri giovani cattolici e con un prete, proponendo di applicare concretamente gli insegnamenti del Vangelo. Ricevetti pacche sulle spalle, sorrisi a volte di simpatia e altre volte di commiserazione, ma ciò che più mi colpì furono alcune parole dettemi dal prete: «Il Vangelo è stato scritto duemila anni fa in altro contesto, poi bisogna interpretarlo e applicarlo con l’aiuto della gerarchia, poi...». Per me la scelta era se prendere sul serio il Vangelo o metterlo da parte e, se mi fossi fermato in quel contesto, avrei finito per accantonarlo.
Invece sono poi capitato in una chiesa evangelica e proprio a causa della fama che hanno i protestanti di rifarsi alla Sola Scrittura, della quale ciascuno può farne un Libero Esame. Effettivamente mi hanno aiutato ad essere illuminato e riscaldato dalla parola di Dio, indicandomi la strada per arrivare ad una esperienza di conversione che ha prodotto in me una vita nuova.
Non mi hanno fatto sottoscrivere delle confessioni dottrinali, non c’erano regolamenti di chiesa da osservare né gerarchie costituite, così mi sono sentito effettivamente libero di sperimentare quelle parti del Vangelo che più mi colpivano.
Poi però ho scoperto che anche lì c’erano dei limiti impliciti, che non erano visibili perché simili a quelli tracciati con le cellule fotoelettriche, dei quali si prende coscienza solo quando si superano e scatta l’allarme. Anche in quell’ambiente, poi, ho incontrato chi mi ha detto che la Genesi è stata scritta migliaia di anni fa e che perciò non bisogna prenderla alla lettera; sull’Antico Testamento nel suo complesso, poi, bisognava essere “prudenti”, perché risentiva della rozzezza della gente del tempo. La Bibbia, insomma, anche lì andava interpretata con l’aiuto di “esperti autorevoli”.
Per farla breve, rischiavo di nuovo di avere fra le mani un libro sostanzialmente inutilizzabile, col concreto pericolo che l’esser saltato fuori dalla “pentola cattolica” mi facesse poi finire nella “brace evangelica”. Mentre il papa, infatti, non scomunica ormai più nessuno, l’intransigenza ha allignato sempre più in quelli che continuano a denunciare l’arroganza vaticana e non si accorgono della loro. Certi evangelici sono tanto più pronti a condannare quanto più sono umanamente piccoli (e chi mi ha conosciuto un quarantennio fa sa bene che penso anche a me stesso).
I non cattolici che leggono la Bibbia e dicono di farlo liberamente, purtroppo sono spesso terrorizzati dal sentire interpretazioni che vanno oltre i limiti del loro piccolo ambiente di amici e di amici degli amici. Umanamente c’è da capirli, ma perché perdere tempo con chi fa finta di voler sapere cosa dice la Bibbia, mentre in realtà vuole solo puntellare i presupposti del proprio gruppo?
Ad un certo punto mi sono ritrovato in un “deserto” che poi ho finito per amare, perché è proprio lì che ci si può liberare più facilmente di quei condizionamenti “fraterni” che impediscono di fatto il Libero Esame. Qualcuno però è venuto a farmi compagnia nel deserto ed è proprio per questi che mi sento di scrivere in libertà. Poi, come accennato, sono incredibilmente arrivati i Testimoni di Geova ad offrirmi il grande megafono di un loro forum su Internet. Io però cerco di mantenere la mia “psicologia del deserto”, che per me significa concentrarsi su ciò che è scritto nella Bibbia, senza curarsi granché dell’effetto che può produrre in chi legge.
Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:29
4. LA “MIA” BIBBIA

La prima volta che fu annunciato compiutamente il Vangelo, cioè a Pentecoste, ciascuno del variegato uditorio lo udì «nella propria lingua» (Atti 2:6). Quando poi tornarono nelle loro diverse nazioni, trasmisero ad altri quel poco che avevano compreso (che era poco, ma c’era tutto l’essenziale), continuando ad usare la propria lingua. Non erano responsabili del “significato dei testi in lingua originale”, ma della traduzione che lo Spirito santo aveva loro affidato.
Tradurre si sa che significa anche “tradire”, perché i significati non possono passare da un contesto ad un altro rimanendo perfettamente gli stessi. Anche in questo aspetto, allora, la Chiesa è “una impossibilità che sta in piedi per miracolo” e, nel nostro caso, il miracolo è che lo Spirito Santo sa fare ottime applicazioni anche di traduzioni non ottime, purché sia ottima la disponibilità di chi legge.
La domanda che mi pongo, perciò, è COSA DICE QUESTA BIBBIA CHE HO DAVANTI? Non voglio ignorare i problemi riguardanti la sua fedeltà rispetto ai testi originariamente ispirati agli autori sacri, ma nemmeno lasciare che mi impediscano di essere illuminato e riscaldato da una traduzione certamente imperfetta, ma il cui limite è dato soprattutto dalle mie imperfezioni ed è su quest’ultime che desidero concentrarmi.
Data la mia personale vicenda, mi sono familiarizzato con la cosiddetta versione Riveduta Luzzi la quale, dopo il 1994, è divenuta Nuova Riveduta. È una traduzione che ha certamente qualche limite, ma che gode di buona fama. Quando trovo qualche difformità importante rispetto ad altre traduzioni, ringrazio profondamente Dio perché posso ricorrere ad un “arbitro”, cioè alla cosiddetta traduzione Concordata, di editore laico (Mondadori, 1968) e che è stata approvata dalla generalità dei cristiani (ortodossi, cattolici e protestanti), oltre che dall’ebraismo per quanto riguarda l’Antico Testamento.
Non rifiuto di prendere in considerazione le altre traduzioni, ma solo quando è veramente necessario. Sono però tanto più diffidente quanto più la traduzione proviene da ambienti ristretti, perché la Parola di Dio è universale e bisogna perciò evitare di piegarla ai propri fini.
La traduzione di Giovanni 1:1 è quella che suscita più contrasti fra “trinitari” e “antitrinitari” e perciò mi ci sono arrovellato per cercare di andare oltre la contesa, quando infatti si va in tribunale emerge probabilmente un vincitore, ma il fossato fra le parti tende ad allargarsi. Quando poi si litiga se sia vera l’una o l’altra versione della Bibbia, c’è un perdente sicuro ed è la Parola di Dio stessa, screditata agli occhi di chi assiste, che poi trasferisce il discredito sui contendenti. I problemi fra Ebrei, cattolici e protestanti sono stati ritenuti irrisolvibili per tanti secoli, eppure oggi c’è un Antico Testamento e un Nuovo Testamento che sono stati tradotti insieme (la “Concordata” anche con gli Ebrei e la “TILC” fra cristiani). Perché allora non tentare una traduzione in comune con alcuni Testimoni di Geova disposti a farlo? La strada è difficile e lunga, ma qualcuno dovrà pure cominciare a provarci.
Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:30
5. GESÙ, PIÙ RIVELAZIONE CHE ADEMPIMENTO

C’è chi vede la vita di Gesù come ampiamente profetizzata dall’Antico Testamento, mentre noi abbiamo affermato (vedere lo studio “Profezie su Cristo: noi cristiani esageriamo”) che le profezie su Gesù sono risultate chiare solo dopo che si sono verificate e che perciò non erano vere profezie nel senso che si dà a questo termine (cioè non erano avvenimenti predetti chiaramente in anticipo). Paradossalmente, chi vede profetizzata la vita di Gesù nell’Antico Testamento, poi in genere sottolinea i contrasti fra Antico e Nuovo, mentre noi ne sottolineiamo la continuità. Insomma, tutti riconoscono che il NT rappresenta una continuità mista a novità, allora la questione è rappresentata dall’ottica con la quale vengono viste le differenze: c’è chi ci vede anche contrasti e chi (come noi) non vede nessun contrasto fra le varie parti della Bibbia, ma solo SVILUPPI di qualcosa che c’era anche prima. Sviluppi a volte inattesi e che sembrano segnare una rottura, ma pur sempre facenti parte di un disegno di Dio concepito «fin dalla fondazione del mondo» (Matteo 25:34; 1Pietro 1:20).
Penso che la questione della Trinità (tre persone distinte, ma una sola natura divina) sia la differenza più profonda fra Antico e Nuovo Testamento, vederla perciò come sviluppo e non come contrasto è più difficile che in altri casi.
Dato che però la vita di Gesù è stata più una rivelazione che un adempimento di chiare profezie, allora non c’è da stupirsi se anche sulla natura di Dio viene portato qualcosa di nuovo da Gesù. Novità che però non dovrebbe essere in contrasto con quanto già rivelato, perché il Padre di Gesù è lo stesso Dio Creatore presentato in Genesi, lo stesso Dio di Abramo, di Mosè e dei profeti.
Prima di affrontare più direttamente la questione della Trinità, è utile esaminare un caso sviluppatosi in modo simile e che perciò potrebbe funzionare da modello: quello della risurrezione.
Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:30
6. UN CASO ESEMPLARE: LA QUESTIONE DELLA RISURREZIONE

Fra gli Ebrei del tempo di Gesù, c’era chi credeva in una futura risurrezione dei morti (Farisei) e chi invece non ci credeva (Atti 23:8). Nella legge di Mosè, in effetti, non se ne parla esplicitamente e per un insegnamento inequivocabile bisogna attendere uno degli ultimi profeti, cioè Daniele: «In quel tempo il tuo popolo sarà salvato; cioè, tutti quelli che saranno iscritti nel libro. Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia»... «Tu avviati verso la fine; tu ti riposerai e poi ti rialzerai per ricevere la tua parte di eredità alla fine dei tempi» (Daniele 12:1-13).
I Sadducei argomentavano che la rivelazione a Mosè era chiara e centrale, perciò non poteva essere contraddetta da un profeta così simbolico e particolare come Daniele (il cui libro è stato il modello di riferimento per l’Apocalisse, libro che i Sadducei di oggi di fatto escludono dalla Parola di Dio perché “indecifrabile”).
Siccome Gesù si schiera apertamente a favore della risurrezione (Luca 11:31-32; 14:14; Giovanni 5:21-29), allora i Sadducei si presentano a Gesù convinti di poterlo incastrare. Armati della loro logica e della loro analisi biblica, i Sadducei pongono a Gesù un problema chiaramente insolubile per chi credeva nella risurrezione. Gesù chiude loro la bocca con queste parole: «Voi errate perché non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio. Perché alla risurrezione non si prende né si dà moglie; ma i risorti sono come angeli nei cieli. Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: “Io sono il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe”? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi» (Matteo 22:29-32; cf. Luca 20:27-40).

Di fronte alle varie categorie di peccatori che il Vangelo ci presenta, mi sono a lungo sentito come superiore, invece esse ci vengono descritte per farci vedere in che cosa somigliamo loro. I Sadducei cadevano in errore perché non conoscevano le Scritture, eppure le sapevano a memoria! Conoscere le Scritture significa allora averne un’intimità profonda che ce ne fa cogliere lo Spirito, traguardo molto più complesso del collezionare versetti presi qua e là a sostegno di tesi precostituite.
Quanto conosciamo la potenza di Dio? I Sadducei si erano fatta una gabbietta utilizzando una ben coordinata serie di passi tratti dalla legge di Mosè: Dio era lì dentro e non si aspettavano sorprese. Anche Giobbe, il miglior credente del suo tempo (!), si era convinto di aver ormai ben capito Dio; poi invece Dio fa ciò che Giobbe non approva e alla fine capisce che la sua gabbietta era insufficiente a contenerlo, cioè capisce che Dio «può tutto», che è l’Onnipotente (vedere Giobbe 1:8; 10:1-8; 42:1-3). La nostra esperienza e le nostre capacità sono limitate, perciò immaginarci ciò che è al di là e al di sopra di questa nostra esistenza è difficile, come per un bambino capire il mondo quando è ancora nel ventre materno.
Tornando alla risposta di Gesù, quanto finora visto sembra un girare intorno al problema, ma in realtà ha prima preparato la risposta, per poi darla secondo le regole umane di onesta conversazione; dato che i Sadducei ritenevano come veramente autorevole solo la legge di Mosè, Gesù accetta di confrontarsi sul terreno da loro scelto e cita Esoso 3:6, dove Dio dice a Mosè «Io sono il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe»: un passo che i Sadducei – secondo Gesù – non avevano letto; cioè l’avevano letto tante volte, ma senza comprenderlo veramente. Ne deriva che esortare a leggere la Bibbia è lodevole, ma leggerla bene val più che leggerla molto.
I Sadducei non sanno come replicare e allora, essendo ai vertici del sistema sacerdotale, cercheranno di aggirare il problema decidendo di uccidere Gesù (Giovanni 11:47-53). Gesù accetta la sfida anche su quel terreno (risorgendo) e, ad un certo punto, proprio fra i sacerdoti ce ne saranno molti che lo riconosceranno come Messia (Atti 6:7).

Gesù vide la risurrezione come implicita in un passo dove altri non la vedevano, ma nell’Antico Testamento c’erano altri passi molto più espliciti, anche se non riconosciuti come autorevoli dai Sadducei.
La morte “naturale” di Adamo, 930 anni dopo la nascita, dovrebbe essere stato un grande shock per tutta l’umanità di quel periodo. Forse anche per consolare e dare speranza a tutti, Dio portò Enoc con sé nel cielo (Genesi 5:24; Ebrei 11:5). Il corpo di Enoc, per poter stare nel cielo, evidentemente deve essere stato trasformato con una specie di risurrezione (cf. 1 Corinzi 15:40). L’eccezione di Enoc si ripeterà con Elia, rapito in cielo su un carro di fuoco (2Re 2:11). Enoc ed Elia furono delle eccezioni e non stabilirono nessuna regola, ma quelle due eccezioni aprirono spiragli infiniti, spingendo gli uomini a porsi molte domande senza risposta, di fronte alle quali dovevano riconoscere che come i cieli sono alti al di sopra della terra, così le vie di Dio sono più alte delle nostre vie e i suoi pensieri più alti dei nostri pensieri (Isaia 55:9).
Nella stessa epoca di Elia, Dio mostrò esplicitamente la sua volontà e capacità di operare la risurrezione dei morti (1Re 17:17-24; 2Re 4:17-37; 13:21), anche se in via eccezionale e con il corpo risorto che era mortale come il precedente (a differenza di quelli di Enoc ed Elia).
Solo successivamente si cominciò ad intravedere la risurrezione come regola (Isaia 26:19, la visione delle “ossa secche” di Ezechiele 37) e solo alla fine dell’Antico Testamento, come abbiamo visto (Daniele 12), la risurrezione è rivelata come strategia per i tempi della fine.
Insomma, sulla risurrezione c’è una rivelazione graduale, che comincia con eccezioni, cenni impliciti ed essere chiara alla fine. Non bisogna perciò stupirci se per la Trinità la Bibbia segue un metodo molto simile. La risurrezione introduceva una sistematica visione di “giustizia posticipata” da parte di Dio e questo ha forse inciso sulla vita dei credenti più di quanto abbia fatto poi la dottrina trinitaria.

Il passo di Daniele sulla risurrezione, come detto, non bisognava considerarlo come un’eccezione trascurabile. Anzi, essendo una specie di “ultima rivelazione”, doveva essere valorizzata al massimo, perché annunciava l’inizio di un nuovo e vasto piano di Dio, come si sarebbe meglio compreso con Cristo. La Trinità, parallelamente, non va sminuita perché per lungo tempo non è apparsa chiara, ma va valorizzata al massimo proprio perché è una rivelazione nuova, sulla quale si fondano quelle successive. Ancor più significativo, poi, che se ne parli di più soprattutto negli scritti tardivi del Nuovo Testamento (tali sono ritenuti il Vangelo di Giovanni, Ebrei e Apocalisse).
Torneremo su questi argomenti, ma per completare il parallelismo si può individuare una “fase soprattutto implicita” della Trinità che riguarda tutto l’Antico Testamento. La “fase esplicita” comincia sì dal concepimento miracoloso di Gesù (Luca 1:26-38), ma esso fu presumibilmente rivelato da Maria agli apostoli dopo la risurrezione. Gli apostoli cominciarono col considerare Gesù come un maestro (rabbino, Giovanni 1:38) e molto gradualmente capirono che vedere Gesù era come vedere Dio Padre (Giovanni 14:8-10).
Anche gli apostoli usarono molta gradualità nel presentare Gesù e la dottrina della Trinità era presumibilmente riservata a chi già aveva creduto, visto che di essa non se ne parla in nessuna delle numerose predicazioni riportate negli Atti, dove Gesù è presentato soprattutto come Messia risorto, accettando il quale si è perdonati dei propri peccati, ma di questo se ne riparlerà.
Roberto Carson
00giovedì 14 gennaio 2010 00:31
7. LA CONTINUITÀ DELLA DISCONTINUITÀ

La Bibbia è essenzialmente Storia, che però non rigira su se stessa, perché appaiono continuamente delle novità inattese. Quando Adamo dava il nome agli animali, non immaginava che Dio gli avrebbe creato quello stupore di Eva (Genesi 2:18-23). Non immaginavano poi che quel Dio così amico potesse improvvisamente cacciarli dall’Eden. Prima di Noè nessuno immaginava possibile un Diluvio che avrebbe cancellato tutto sulla Terra e dal quale si sarebbero salvate solo otto persone. A Babele non immaginavano certo che non si sarebbero capiti più (Genesi 11:9) e anche la successiva vocazione di Abramo appare come una novità non attesa (Genesi 12:1-3). Si sapeva che i discendenti di Abramo avrebbero ereditato la Terra Promessa, ma come potevano immaginarsi i modi scelti poi da Dio attraverso Mosè? Salomone poteva forse immaginare che quel suo Tempio, nel quale Jahvè aveva preso dimora “per sempre” (1Re 8:10-13) sarebbe stato in seguito distrutto per volontà dello stesso Jahvè?
Crocifissione, risurrezione, ascensione: niente di tutto questo riuscivano ad immaginare gli apostoli! Ora sono forse finite le discontinuità? Non c’è solo l’Apocalisse di Giovanni a ricordarci i grandi sconvolgimenti che aspettano la Storia, perché anche Pietro e Paolo attendevano tempi nuovi (2Pietro 3; 1Corinzi 15:22-28).
Insomma, non ci sono solo la risurrezione annunciata da Daniele e la Trinità a rappresentare una discontinuità, ma l’intera Bibbia ci fa vedere che Dio si rivela in modo graduale, progressivo e in parte anche inatteso, procedendo per fasi. La discontinuità, allora, non separa le varie parti della Bibbia, perché restano unite dalla continuità di metodo e dal fatto che l’Autore dei cambiamenti resta sempre uguale a se stesso. D’altronde anche i padri educano i figli a seconda delle varie fasi e non è un caso se è proprio “Padre” che Jahvè si lascia chiamare.
Roberto Carson
00domenica 17 gennaio 2010 13:46
CAP. 2
LA PREPARAZIONE A GESÙ NELL’ANTICO TESTAMENTO


1. L’ANGELO DI JAHVÈ: UOMO, ANGELO E JAHVÈ

È inutile arrampicarsi sugli specchi ed è meglio riconoscere subito che nessun lettore dell’Antico Testamento poteva trovare in esso la dottrina della Trinità. Ci sono però elementi più o meno importanti che avevano preparato gli ebrei ad accettare la natura divina di Gesù e, fra questi, il più importante è certamente l’“Angelo di Jahvè” o “Angelo di Dio”: un angelo che a volte sembrava un essere umano ed altre volte Jahvè stesso. Passeremo in rassegna diversi passi biblici dove compare, anche per dare l’idea di come questa figura fosse importante, costringendo il lettore ebreo a prendere atto che Jahvè si poteva manifestare in modi che andavano al di là della sua comprensione: per questo, pur riconoscendo il monoteismo dell’Antico Testamento, lo abbiamo definito come “monoteismo misterioso”.

Genesi 16:7-13. «L’Angelo di Jahvè trovò Agar presso una sorgente d’acqua [...] l’Angelo di Jahvè le disse ancora: “[...] Jahvè ti ha udita nella tua afflizione” [...] Allora Agar diede a Jahvè, che le aveva parlato, il nome di Atta-El-Roi» (che significa “Tu sei un Dio che vede”).
Parla l’Angelo di Jahvè, ma poi Agar dice che le ha parlato Jahvè stesso. Certo, in questo caso si potrebbe risolvere l’enigma dicendo che Jahvè aveva sì parlato, ma attraverso il suo Angelo. In seguito, però, si vedranno altri casi nei quali l’intreccio non è razionalmente risolvibile.

Genesi 18:1 a 19:5. Si tratta dell’incontro che Abramo ebbe alle querce di Mamre: un incontro molto significativo, ma che sembra un po’ confusionario. Inizia dicendo che Jahvè apparve ad Abramo (v. 1), ma poi Abramo vede tre uomini (v. 2). Abramo parla loro usando il singolare come se si rivolgesse al rappresentante di tutti e tre (v. 3), per poi passare al plurale.
Quei tre sono così umani che Abramo prepara loro un bel pasto, al quale non partecipa direttamente, perché se ne sta in piedi mentre loro mangiano (v. 8). Sembra poi che si rivolgano ad Abramo tutti e tre, ma subito dopo l’interlocutore è uno solo (v. 9) e quell’uno, come viene chiarito dopo, è Jahvè (v. 13), che però prosegue parlando di se stesso in terza persona («Vi è forse qualcosa che sia troppo difficile per Jahvè?», v. 14).
Al momento di ripartire, vengono di nuovo indicati come uomini (v. 16), poi uno di loro è Jahvè (vv. 17-33), il quale a volte parla di nuovo di se stesso in terza persona (v. 19). Poi Jahvè se ne va e i due che restano sono indicati come angeli (19:1), ma vengono percepiti nuovamente come uomini (19:5), così come all’inizio (18:2).

Genesi 21:17-20. Di nuovo l’Angelo di Dio (chiaramente un sinonimo di Angelo di Jahvè) appare ad Agar e di nuovo sembra che sia Dio stesso ad essere lì.

Genesi 22. Viene raccontato quando Abramo andò a sacrificare Isacco per ordine di Dio, che volle metterlo alla prova (vv. 1-2). La mano armata di Abramo fu fermata dall’Angelo di Jahvè (v. 11), che parla di se stesso sia in prima che in terza persona: «Ora so che tu temi Dio, poiché non mi hai rifiutato tuo figlio» (v. 12). In seguito è Jahvè direttamente che dice «non mi hai rifiutato tuo figlio» (v. 16).

Genesi 31:11-13. L’Angelo di Dio dichiara di essere il Dio che gli era apparso tempo prima a Betel (cioè Jahvè stesso, cf. Genesi 28:13).

Genesi 32:24-32. Sia la Nuova Riveduta che la Concordata hanno intitolato questo racconto come la lotta di Giacobbe con un angelo, poi però il racconto comincia con Giacobbe che lotta con un uomo (vv. 24-26) il quale, andandosene, gli dice che ha lottato con Dio (v. 28), un’indicazione confermata dal timore di Giacobbe per aver «visto Dio faccia a faccia» (v. 30). Il racconto finisce com’è cominciato, cioè tornando ad indicare colui che è comparso come un uomo (perciò con lo stesso schema di Genesi 18 visto sopra). Nonostante le indicazioni delle due traduzioni sopra citate, dunque, nelle loro traduzioni non si riscontra poi nessun angelo! Insomma, anche i titoli dati alle varie parti risentono dei presupposti dei traduttori, che a volte però esagerano e sconfinano in vere e proprie manipolazioni del testo originale; se loro stessi traducono che Giacobbe ha lottato con Dio, perché nasconderlo con un titolo che non ha basi nel testo?

Esodo 3:2-6. È raccontato di quando Mosè vide il pruno ardente e ricevette la chiamata per la liberazione del popolo d’Israele. All’inizio viene detto che a Mosè apparve l’Angelo di Jahvè (v. 2), che poi invece è il Dio di Abramo, cioè Jahvè stesso (vv. 4-6; cfr. anche 4:1).

Esodo 23:20-23. Dio mandò davanti ad Israele un angelo particolare, che definì «il mio angelo» (evidentemente lo stesso indicato altrove come “Angelo di Dio” e “Angelo di Jahvè”). La voce di questo Angelo sarà la voce di Dio stesso: «Se ubbidisci fedelmente alla sua voce e fai tutto quello che ti dirò...». C’è poi nei suoi confronti un’espressione dal grande significato: «Egli non perdonerà le vostre trasgressioni; poiché il mio nome è in lui»: avere in sé il nome di Dio significava avere in sé l’essenza stessa di Dio!

Numeri 22:22 a 23:5. Si racconta del falso profeta Balaam e della sua asina. L’ira di Dio si accese contro Balaam e l’Angelo di Jahvè si mise sulla strada per ostacolarlo. In 14 versetti (22:22-35) l’Angelo di Jahvè viene nominato 9 volte, ma nel mezzo è Jahvè stesso che agisce in prima persona (vv. 28-31). Nel suo ultimo intervento, l’angelo di Jahvè avverte Balaam: «Dirai soltanto quello che io ti dirò» (v. 35), poi però sembra che sia direttamente Jahvè a farlo (23:5).

Giudici 2:1. «L’Angelo di Jahvè salì da Ghilgal a Bochim e disse: “Io vi ho fatto salire dall’Egitto e vi ho condotti nel paese che avevo giurato ai vostri padri di darvi”». Chi aveva liberato Israele dall’Egitto? Chi aveva fatto le promesse ad Abramo, Isacco e Giacobbe? Chi l’aveva condotto nella Terra Promessa? Certamente l’Angelo di Jahvè non è Jahvè, ma spesso sembra proprio esserlo!

Giudici 6:11-24. Si racconta della vocazione di Gedeone e l’Angelo di Jahvè ne è il protagonista (una volta su otto è chiamato “Angelo di Dio” a dimostrazione dell’equivalenza dei termini). Anche in questo caso, in certi momenti è Jahvè stesso che prende direttamente la parola (vv. 16 e 23).

Giudici 13. Si racconta della nascita di Sansone ed è l’ultima caso che vedremo in dettaglio, perché poi ci pare che dell’Angelo di Jahvè se ne faccia cenno solo come portatore di un giudizio sugli Assiri (2Re 19:35) e su Israele (giudizio arrestatosi nell’aia di Ornan il Gebuseo, dove poi sarà costruito il tempio, 1Cronache 21:7-30).
Nel rapporto con i genitori di Sansone, oltre a quanto già ampiamente visto negli episodi precedenti, c’è una frase significativa dell’Angelo di Jahvè: «Perché mi chiedi il mio nome? Esso è meraviglioso» (v. 18) e questo è un linguaggio che di solito si usa per Dio stesso (la Concordata ha “misterioso”).
Di specifico, in questo racconto, c’è anche una particolare accentuazione della “umanità” dell’Angelo di Jahvè che, quando appare alla madre di Sansone, lei lo racconta al marito Manoà in questo modo: «Un uomo di Dio è venuto da me; aveva l’aspetto di un angelo di Dio» (v. 6). Anche nella successiva apparizione questi coniugi hanno la convinzione di avere davanti un essere umano, infatti Manoà «non sapeva che quello fosse l’Angelo di Jahvè» e vorrebbe cucinargli un capretto (vv. 15-16): è evidente il parallelo con Genesi 18, quando Abramo fece cenare i tre uomini-angeli-Jahvè.
Solo alla fine Manoà si rende conto di chi veramente aveva incontrato e si impaurisce: «Noi moriremo sicuramente, perché abbiamo visto Dio».

CONCLUSIONE. Gli Ebrei che leggevano con attenzione l’Antico Testamento, insomma, erano stati da Dio allenati a considerare come il suo nome e la sua essenza potessero essere in qualcun altro; a tal punto da far in modo che Jahvè e l’altro è come se fossero una stessa cosa, anche se non una stessa persona.
C’è poi che questo Angelo di Jahvè, vedendo il quale era come se si fosse visto Jahvè, a volte aveva un normalissimo aspetto umano: forse è per questo che certi Ebrei non si scandalizzarono quando Gesù disse frasi del tipo «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Giovanni 14:9), oppure «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni 10:30).
Il Nuovo Testamento non fa alcun collegamento diretto fra l’Angelo di Jahvè e Gesù, ma i parallelismi sono impressionanti e non c’è dubbio che l’Angelo di Jahvè era un eccellente allenamento per poi capire Gesù.
Molti Ebrei del tempo di Gesù, però, anziché leggere con attenzione, direttamente e tutta la Parola di Dio, preferivano ascoltare i riassunti ed i commenti che su di essa faceva una nomenclatura pervasiva, che aveva tutto sistemato e reso “sensato”, ponendosi di fatto al posto di Dio.
Quanti sono oggi gli Ebrei ed i cristiani che leggono con attenzione, direttamente e tutta la Parola di Dio? Anche se la leggiamo tutta, ci può succedere di memorizzare e far attenzione solo a quelle parti che confermano i nostri presupposti, mentre ciò che ci può mettere in crisi lo facciamo facilmente scivolare via: invece è proprio ciò che contrasta con ciò che siamo è quello che ci sarebbe più utile.
Roberto Carson
00domenica 17 gennaio 2010 13:47
2. ALTRI ANTICIPI RIGUARDANTI GESÙ

L’Angelo di Jahvè aveva preparato la venuta di Gesù “per interposta persona”, nel senso che non ritengo che l’Angelo di Jahvè fosse il “Logos”, cioè un Gesù prima dell’incarnazione, dato che il Nuovo Testamento non fa questa identificazione. Altre indicazioni dell’Antico Testamento, invece, riguardavano direttamente il Messia e, ad un attento lettore ebreo, ponevano domande che lo facevano essere aperto verso gli sviluppi della rivelazione di Dio, non inquadrabile nei limitati schemi umani.
Vedremo ora alcuni passi che appartengono alla seconda parte dell’Antico Testamento, cioè a quella che comincia con Davide, il re “secondo il cuore di Dio” la cui progenie avrebbe dovuto governare il mondo per sempre, specie attraverso un suo particolare e glorioso discendente, un “unto a re” (cioè “messia”) figlio di Davide sul quale si erano accumulate aspettative e visioni straordinarie. Il Vangelo di Matteo, fra i tanti progenitori di Gesù, non a caso è proprio Davide che mette al primo posto.
Nelle trascrizioni seguiremo la Concordata, perché essendo stata tradotta insieme ad Ebrei, si è al riparo dal rendere l’originale secondo una posteriore ottica cristiana che non gli apparteneva: legittima come interpretazione, ma non come traduzione. Purtroppo anche la Concordata non traduce fedelmente il “tetragramma” (JHWH), che rende con “Signore”, lasciandosi condizionare da scrupoli che non appartenevano certo agli antichi copisti ebrei (che ce l’hanno trasmesso). Anche la Nuova Riveduta traduce con “Signore” ma scrivendolo in maiuscolo (“SIGNORE”), così dare un’indicazione corretta sulla parola tradotta. Quando nell’originale c’è il tetragramma, allora, abbiamo messo noi “Jahvè” nella traduzione .

Isaia 8:23 a 9:6: Ma la caligine sarà dissipata, ché non ci sarà più oscurità per chi stava nell’angoscia. Come in un primo tempo egli avvilì la terra di Zabulon e la terra di Neftali, così, in futuro, onorerà la via del mare, oltre il Giordano, il distretto delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre vide un gran luce [...] Poiché il giogo che pesava su di lui e la sbarra attorno alle sue spalle e il bastone del suo aguzzino tu li hai spezzati come nel giorno di Madian [...] Poiché ci è nato un pargolo, ci è stato donato un figlio, sulle cui spalle è il principato e il cui nome è: Mirabile consigliere, Dio potente, Padre perpetuo, Principe della pace, per ingrandire il principato e per una pace senza fine, sul trono di Davide e sul suo regno, per consolidarlo e rafforzarlo con il diritto e la giustizia, da ora in poi, per sempre. Questo farà lo zelo di Jahvè delle schiere.
Quando si mettono in fila passi biblici di rilevanza varia, si rischia di mescolare un brillante con l’argento, oscurandone la luminosità. Il soprastante passo di Isaia è di una luce che avrebbe dovuto abbagliare ogni ebreo e verrebbe voglia di non indicare altri passi. Questo futuro Figlio di Davide sarebbe stato Dio potente e Padre perpetuo (“Padre eterno”, nella Nuova Riveduta), realizzando per sempre un regno di pace e di giustizia.
Si può obiettare che Gesù questo regno politico non lo ha realizzato (è una contraddizione dire che lo ha realizzato “spiritualmente”!), anche se è nello stesso Vangelo che ci si aspettava questo tipo di Messia e proprio da quelli spiritualmente più vicini a Gesù, come Maria (Luca 1:51-55), Giovanni Battista (Matteo 3:1-12), suo padre Zaccaria (Luca 1:67-75), Simeone e Anna la profetessa (Luca 2:25-38). Gli stessi apostoli mantennero viva l’attesa di questo regno politico fino alla fine e si rassegnarono ad un rinvio della sua realizzazione, non certo all’annullamento del programma di Dio (Atti 1:6). Perché se è vero che il regno di Gesù non è di questo mondo (Giovanni 18:36) è anche vero che tornerà per regnare (Matteo 25:31-34) su una Terra da lui rinnovata, realizzando così le promesse annunciate per mezzo dei profeti.
Promesse di benedizione che non riguardano solo gli Ebrei, ma il mondo intero, e che perciò dovrebbero essere attese da tutti, non esclusi certo i cristiani, i quali anziché giocare a fare gli “spirituali” seguendo Platone, dovrebbero essere consapevoli di appartenere a Dio perché innestati su Israele (Romani 11:17-18), del quale dobbiamo sì sfruttare la radice, ma anche nutrire la speranza.

Salmo 110:1: Jahvè ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi.
1Cronache 22:10: Egli sarà per me un figlio e io sarò per lui un padre.
Sul Salmo 110 ci siamo soffermati in altra parte, collegandolo a 1Cronache 22: perciò ora saremo sintetici (vedere “Gesù Cristo è lo stesso, dalla Genesi all’Apocalisse. Seconda serie”, cap. 3 “Profezie su Cristo: noi cristiani esageriamo”).
Il Salmo 110 tratta esplicitamente di un futuro re glorioso («scettro del tuo potere», «schiaccia dei re», vv. 2 e 5), che in quanto re doveva necessariamente essere figlio di Davide. L’importanza di questo Salmo è data anche dal fatto che viene citato da Gesù (Matteo 22:44) per dimostrare che lui è il Signore di Davide, più che suo figlio, ed i suoi contestatori non possono replicargli.
Sulla traduzione di questo Salmo c’è da fare qualche considerazione. In quella Concordata («Il Signore ha detto al mio Signore») non si coglie la differenza che c’è fra gli originali delle due parole “Signore” e ciò non è di poco conto, perché altra cosa sarebbe se Davide dicesse «Jahvè ha detto al mio Jahvè», mentre “mio signore” lo dice anche Sara ad Abramo (Genesi 18:12). Nel tradurre “Signore” e non “signore”, anche la parte ebraica ha riconosciuto che il contesto fa propendere per il significato più elevato del termine. D’altronde nel versetto 5 è chiaro come “Signore” si riferisca a Jahvè, anche se nell’originale non c’è il tetragramma.
Tutti questi buoni ragionamenti si infrangono di fronte al fatto che, nel citare questa profezia, il Vangelo di Matteo adotta la versione greca dei Settanta... che traduce come la Concordata. Come già detto, il nostro più grande problema non è che non abbiamo buone traduzioni, ma che ci è difficile fare delle buone applicazioni di vit0a pratica.
Il pensiero di Davide su questo suo figlio, espresso nel Salmo 110, lo abbiamo collegato a Salomone: che era sì suo figlio ma, in quanto adottato figlio di Dio, era superiore a Davide stesso.
In ogni caso, Dio non aveva adottato solo Salomone, ma tutta la linea genealogica regnante, secondo il principio ebraico di solidarietà fra il capostipite e la sua discendenza; ciò si vede bene in Abramo, al quale è donata una Terra Promessa della quale prenderà possesso la sua discendenza quattro secoli dopo! (Genesi 15:7-16).
Le potenzialità dell’adozione da parte di Dio della discendenza di Davide-Salomone, si erano già in parte espresse nella gloria del regno di Salomone, che aveva illuminato tutto il mondo di allora (1Re 10:23-24); certamente però Dio poteva fare molto di più e forse anche questo pensiero aveva aiutato i profeti a intravedere che, nel futuro regno messianico, sarebbero avvenute cose assolutamente straordinarie.

Michea 5:1: E tu, Betlemme Efrata, pur essendo piccola tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve regnare su Israele. Le sue origini sono antiche, sin dai giorni più lontani.
Betlemme era la città di Davide ed era convinzione comune che il Messia dovesse sorgere da lì (Matteo 2:4-6). I “giorni più lontani” sono resi dalla Nuova Riveduta come i “giorni eterni” e certamente una differenza c’è, ma c’è anche l’indubbio affermare che colui che doveva venire esisteva almeno fin dalle imprecisate origini (i “giorni più lontani” sono quelli).
Quando Gesù disse «Prima che Abramo fosse nato, io sono» (Giovanni 8:58) è vero che scandalizzò alcuni ebrei, che volevano lapidarlo, ma erano ebrei anche quelli che non si scandalizzarono, forse proprio perché avevano riflettuto sulle profezie messianiche come quella di Michea.

Isaia 7:14: Ebbene, il Signore stesso vi darà un segno: Ecco la giovane concepisce e partorisce un figlio che chiamerà Emmanuele.
Si discute molto sul fatto che, mentre in Isaia si parla di una giovane, nella citazione che ne fa Matteo (riprendendo la versione dei Settanta) c’è invece una vergine. Mi sembra una discussione inutile, perché a quei tempi vergine e giovane erano quasi sinonimi e, se anche nel testo in ebraico di Isaia ci fosse stato scritto “vergine”, è evidente che ogni ebreo avrebbe compreso che quella vergine avrebbe concepito come succedeva a tutte le vergine, cioè dopo aver perso la verginità.
Isaia, perciò, non aveva comunque rivelato che la madre del Messia sarebbe risultata vergine e incinta, non aveva cioè rivelato che il Messia non avrebbe avuto come padre un uomo, bensì Dio stesso. Così come il nome Emmanuele (che significa “Dio con noi”) non rivelava che il Messia sarebbe stato di natura divina perché, per esempio, Dio era stato con Israele anche al tempo di Mosè e di Davide.
Questo passo di Michea, perciò, è di grande significato solo dopo aver preso atto degli altri annunci molto più chiari e solo dopo che sono state rivelate le modalità (umanamente inimmaginabili) con le quali Maria si è ritrovata vergine e incinta.
Certo, se un cristiano dimentica le polemiche e si immerge nella lettura di Michea, trova qui una sottigliezza anticipatrice che stupisce, ma è un passo che va gustato come un dono di Dio, non preso come una clava contro altri. A volte certi bei fiori è meglio metterli nell’angolo, non per sminuirli, ma perché lì possono essere meglio apprezzati da chi ci si china sopra delicatamente.

Isaia 11:1-12: Un rampollo spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Sopra di lui riposerà lo spirito di Jahvè: spirito di sapienza e di discernimento, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore di Jahvè [...] Al violento darà addosso con la verga della sua bocca, col fiato della sua bocca darà morte al malvagio, la giustizia sarà la fascia dei suoi lombi, la fedeltà la cintura dei suoi fianchi. Il lupo dimorerà insieme all’agnello [...] il lattante giocherà presso la buca dell’aspide, nel covo della vipera un bimbetto metterà la sua mano. Non faranno più male né guasto alcuno in tutto il suo santo monte, perché della conoscenza di Jahvè sarà piena la terra, come le acque che coprono il mare. Avverrà in quel giorno che la radice di Iesse si ergerà a segnale per i popoli, ad essa si volgeranno ansiose le genti, e gloriosa sarà la sua sede. Avverrà in quel giorno che il Signore [...] raccoglierà i dispersi di Israele; gli sbandati di Giuda radunerà dai quattro canti della terra.
Questa straordinaria combinazione di prospettive viene spesso attribuita ai “poco spirituali” ebrei, invece sono proprio i profeti a mettere insieme elementi molti diversi: voler essere “spirituali”, allora, non potrebbe farci correre il rischio di allontanarci dallo Spirito? Precisiamoli, comunque, gli elementi che Isaia mette insieme:
-attesa per la venuta del Messia-Figlio di Davide, cioè di un re che ristabilirà il Regno d’Israele;
-questo re sarà permeato da un’abbondante Spirito del Signore;
-questo re farà giustizia ai poveri e agli umili, distruggendo i malvagi;
-questo re riporterà la natura stessa all’armonia originaria, con il leone che tornerà ad essere erbivoro e la vipera che non sarà più velenosa;
-il trionfo del bene sarà completo su tutta la Terra ed in ogni popolo;
-tutti gli ebrei sparsi nel mondo torneranno nella terra d’Israele.

Approfondire l’analisi di questa profezia ci porterebbe troppo fuori tema, mentre ora ci interessa soprattutto far notare come fosse lecito, al tempo di Gesù, attendersi un Messia straordinario che avrebbe fatto cose straordinarie. L’Antico Testamento, insomma, spingeva a restare aperti verso prospettive nuove, lasciando in sospeso molte domande. Chi aveva questa attitudine, come l’Eunuco (Atti 8:34-39), non aveva difficoltà ad accettare Gesù come Messia; chi invece aveva messo in secondo piano la Parola di Dio e si era affidato alla codificazione razionalista operata dalla classe dirigente, quando constatava che Gesù non rientrava in quegli schemi, tendeva a rifiutarlo.
Certo, i cristiani devono riconoscere che le aspettative sul Messia sono state realizzate solo in parte da Gesù, che però ha promesso di tornare e completare l’opera. Quegli Ebrei che hanno rifiutato Gesù perché volevano di più e subito, non hanno poi trovato niente di meglio e sono finiti preda di falsi messia, che li hanno spinti a scagliarsi senza posa contro i Romani, fino alla catastrofe della distruzione del Tempio e dell’allontanamento da Gerusalemme per due millenni!
Dopo tante delusioni, gli Ebrei di oggi hanno per lo più smesso di attendere veramente il Messia. Tutto ciò ha favorito una crescente rivalutazione del “falegname di Nazaret” da parte degli Ebrei: anche in chi non lo accetta come Messia, infatti, si diffonde la consapevolezza della sua ebraicità, mentre sono riapparse e stanno crescendo rapidamente le Chiese di lingua ebraica, cioè fatte in maggioranza da Ebrei (come lo erano quelle descritte in Atti 1-5).
Roberto Carson
00mercoledì 20 gennaio 2010 21:11
CAP. 3
LO SPIRITO DI DIO DELL’ANTICO TESTAMENTO
È LO STESSO DEL NUOVO


Partiamo da un presupposto che giustificheremo solo in seguito, cioè che lo spirito (“s” minuscola) dell’Antico Testamento è lo stesso Spirito (“S” maiuscola) del Nuovo Testamento, nel quale solo ad un certo punto viene rivelato pienamente il suo essere persona (Giovanni 14:15-26). Per questo motivo tendiamo fin da ora ad usare la “S”, anche se ribadiamo che gli originali sono scritti tutti in maiuscolo (SPIRITO) o tutti in minuscolo (spirito).
Nell’Antico Testamento lo Spirito di Dio, nonostante compaia in un numero di versetti limitato, ha un’importanza cruciale. Lo troviamo fin dall’inizio, quando «aleggiava sulla superficie delle acque» (Genesi 1:2) e perciò è connesso con la creazione stessa.
La parola “spirito” ha il significato di “soffio”, perciò quando Dio soffiò sulla polvere affinché ne emergesse Adamo, significa che gli trasmise il suo Spirito di vita. Poi però c’è stata la caduta e la degenerazione dell’uomo (Genesi 3) e allora, per tornare ad essere pienamente in sintonia con Dio, occorre un nuovo soffio del quale vedremo alcune tracce presenti nell’Antico Testamento.
Un episodio molto significativo è quando Mosè non si sente in grado di governare da solo il numeroso popolo d’Israele ed allora il Signore gli affianca, come collaboratori, settanta “anziani”: «Il Signore rispose a Mosè: “radunami settanta uomini degli anziani d’Israele [...] e li condurrai presso la tenda del convegno [...] prenderò dello spirito che è su di te e lo metterò su di loro” [...] due uomini erano rimasti nell’accampamento [...] Lo spirito del Signore si posò anche su di loro; essi erano infatti tra gli iscritti, sebbene non fossero venuti alla tenda; e cominciarono a profetare nell’accampamento» (Numeri 11:16-26).
Profetare (o profetizzare) significa esprimere pensieri e sentimenti che provengono direttamente da Dio, al punto che chi ascolta se ne rende chiaramente conto: c’è insomma una grande differenza con le riflessioni che una persona può concepire in se stessa. Oltre questa caratteristica generale della profezia, qui ne è accentuata un’altra che spesso è meno evidente. Non di rado, infatti, il profeta si coinvolge interiormente in quel che esprime, rendendo più difficile individuare l’azione dall’esterno che subisce; il fatto che, nel caso considerato, profetizzarono non solo i 68 anziani che mostrarono di essere ben disposti, ma anche i due che erano riottosi, fa comprendere chiaramente che lo Spirito di Dio non è qualcosa di innato, che è già presente in noi stessi e che dobbiamo solo sviluppare, ma una penetrazione dall’esterno che mette l’individuo in grado di compiere ciò che altrimenti non gli sarebbe possibile.
Ciò si vede anche quando lo Spirito fece profetizzare Saul, fino a farne «un altro uomo», così diverso da ciò che Saul era normalmente che la gente si chiese stupita «Saul è anche lui tra i profeti?» (1Samuele 10:6-13). Dio però non vuole far violenza a nessuno, perciò quando lo spirito non viene ben accolto nel proprio intimo (come nel caso di Saul), allora se ne va e lascia che la persona ridiventi ciò che più ama essere. Successe allora che lo Spirito del signore si ritirò da Saul ed investì Davide (1Samuele 16:13-14). Con Davide lo Spirito rimane anche quando cadde in peccati gravissimi (2Samuele 11), perché seppe riconoscerli (2Samuele 12:13) e considerava lo Spirito di Dio come un bene molto prezioso (Salmo 51:11). Non volendoci dilungare, riportiamo brevemente altri casi dai quali emergono le caratteristiche dello Spirito di Dio nell’Antico Testamento.

Quando Israele si trovava in difficoltà si rivolgeva a Dio, che inviava delle persone rese adatte a quel servizio proprio dal suo Spirito: «I figli d’Israele gridarono a Jahvè e Jahvè fece sorgere per loro un liberatore: Otniel [...] Lo Spirito di Jahvè venne su di lui ed egli fu giudice d’Israele» (Giudici 3:9-10).
Altre volte l’azione dello Spirito è più drammatica: «Allora lo Spirito di Dio s’impadronì di Azaria, figlio di Oded, il quale uscì ad incontrare Asa, e gli disse: “Asa, e voi tutti Giuda e Beniamino, ascoltatemi! Jahvè è con voi, quando voi siete con lui; se lo cercate, egli si farà trovare da voi; ma se lo abbandonate, egli vi abbandonerà”» (2Cronache 15:1-3).
Oltre al verbo impadronirsi, viene anche usato investire, come quando un’auto travolge un pedone: «Tutto Giuda, perfino i loro bambini, le loro mogli, i loro figli, stavano in piedi davanti a Jahvè. Allora lo Spirito di Jahvè investì in mezzo all’assemblea Iaazel [...] Iaazel disse: “Porgete orecchio, voi tutti di Giuda, e voi abitanti di Gerusalemme, e tu, o re Giosafat! Così vi dice Jahvè: ‘Non temete e non vi sgomentate a causa di questa gran moltitudine; poiché questa non è battaglia vostra, ma di Dio’”» (2Cronache 20:13-15). Anche Davide, appena ricevette la chiamata da Samuele, fu investito dallo Spirito di Jahvè (1Samuele 16:13).
Nel caso di Isaia, sembra che sia direttamente Dio a parlargli (Isaia 6:8). Mentre Geremia accenna alla presenza in sé di un incontenibile «fuoco ardente» (Geremia 20:9) che può essere facilmente collegato con l’azione dello Spirito. In ogni caso, il contesto generale dell’Antico Testamento rende chiaro che i profeti erano tali perché in loro c’era l’azione dello Spirito di Dio, come poi sarà detto chiaramente da Pietro: «Nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo» (2Pietro 1:21).

Il rapporto fra lo Spirito di Dio dell’Antico Testamento e lo Spirito Santo del Nuovo, è chiarito proprio dalla citazione di Pietro sopra riportata, per il quale “Spirito Santo” è semplicemente un modo diverso di chiamare lo stesso Spirito di Dio dell’Antico Testamento: un modo che era più usuale al tempo del Nuovo Testamento, ma che è presente pure nell’Antico. Per esempio in Isaia 63:11 («Essi furono ribelli, contristarono il suo Spirito Santo») o nel Salmo 51 di Davide (v. 11, «Non togliermi il tuo Santo Spirito»). Siccome la cristianità vuole esaltare le differenze fra Antico e Nuovo Testamento, allora cerca di tradurre “spirito” nell’Antico Testamento e “Spirito” nel Nuovo, ma si trova in imbarazzo perché non c’è nessun criterio che possa distinguere lo Spirito nell’Antico da quello nel Nuovo Testamento. Alcuni usano sempre la minuscola in tutto l’Antico Testamento e poi adottano la maiuscola fin dall’inizio del Vangelo, anche se la rivelazione dello Spirito Santo come persona è alla fine del Vangelo. Problematica è anche la traduzione in Atti 2, perché l’ebreo Pietro cita la profezia di Gioele, nella quale è promesso lo Spirito e lo fa ad un uditorio ebraico al quale dice: «Voi riceverete il dono dello Spirito Santo» (v. 38): forse c’è un diverso modo di pronuncia fra “spirito” e “Spirito”? Forse l’uditorio doveva intendere “Spirito” mentre Gioele aveva promesso lo “spirito”?
Per evitare queste contraddizioni, la Nuova Riveduta usa spesso “Spirito” anche nell’Antico Testamento, ma non se la sente di farlo troppo spesso e allora cade anch’essa in contraddizione. Secondo la Nuova Riveduta, per esempio, quello che venne su Otniel era lo “spirito” (Giudici 3:10), mentre quello che s’impadronì di Azaria era lo “Spirito” (2Cronache 15:1). Quello che gli ebrei contristarono era lo Spirito “santo” (Isaia 63:11), mentre quello che possiamo contristare ora noi è lo Spirito “Santo” (Efesini 4:30). Quello che era in Davide era il “santo Spirito”, anche se quando scriveva i Salmi era uno strumento dello “Spirito Santo” (Atti 1:16-20; Romani 4:6) e noi, leggendo i Salmi, percepiamo lo stesso Spirito. Certo, riconosco che il problema non è facile ed io, nei passi più sopra riportati, ho usato sempre la maiuscola, ma forse bisognerebbe prendere l’abitudine di usare “SPIRITO” o “spirito” com’è nell’originale (dove però anche le altre parole sono scritte nello stesso modo), lasciando che sia il contesto ad orientare sul suo significato.
Riassumendo, leggendo il solo Antico Testamento, gli Ebrei non ne potevano certamente ricavare che lo Spirito di Dio fosse una “persona”. Nel Nuovo Testamento non c’è all’inizio nessuna nuova spiegazione che possa indurre un ebreo a cambiare idea. Tanto più che lo Spirito Santo svolge qui un’azione del tutto simile a quella già illustrata dall’Antico Testamento. La chiara rivelazione dello Spirito di Dio come “persona” comincia dalla fine del Vangelo e viene poi approfondita (come si vedrà nel cap. 6). È però difficile anche partire dalla fine del Vangelo per cominciare a scrivere “Spirito”, perché anche in seguito si continua a parlare dello Spirito in contesto ebraico e perciò ad intenderlo alla vecchia maniera (per esempio in Atti 2). Una questione non facile per i traduttori, insomma, ma che come lettori possiamo risolvere immaginando “SPIRITO” o “spirito” a seconda del contesto.
Roberto Carson
00venerdì 22 gennaio 2010 17:57
CAP. 4
DA GESÙ DI NAZARET A FIGLIO DI DIO:
UNA RIVELAZIONE GRADUALE


1. L’ILLUSIONE DI CONOSCERLO

Anche chi ha conosciuto direttamente Gesù, ha dovuto via via “aggiornare” la comprensione che ne aveva. A cominciare da sua madre Maria, che non credo si aspettasse di dover partorire il Figlio di Dio in una stalla, né di vedersi comparire i Magi proprio in quelle circostanze; rimase perplessa quando Gesù dodicenne si intrattenne nel Tempio e lo credette impazzito quando cominciò il suo impegno pubblico (Matteo 2:11; Luca 2:49-50; Marco 3:21-31), durante il quale i suoi stessi fratelli di sangue mostrarono di non crederlo Messia e la loro sconfessione era pesante (Giovanni 7:5); viene di mettere in bocca a quei fratelli di Gesù parole del tipo: «Gesù sarebbe il Messia? Ma scherzate? Noi ci viviamo insieme da una vita e lo conosciamo bene! Non è possibile!».
Anche i suoi concittadini di Nazaret, compresi quelli della sinagoga che frequentava, erano convinti di conoscere bene “il falegname” (Marco 6:3-6) e si meravigliarono molto delle “parole di grazia” con le quali predicava, salvo passare subito dopo al volerlo uccidere (Luca 4:22-30).
Caddero nell’illusione di conoscerlo anche i suoi amici migliori, cioè gli apostoli. C’era qualcosa di vero quando Pietro ribadì «non conosco quell’uomo»! (Matteo 26:69-74). Aveva infatti conosciuto un altro Gesù, che sapeva affrontare e risolvere i mali del mondo (malattie, fame) e che lo aveva perfino fatto camminare sulle acque (Matteo 14:28). Come poteva essere lo stesso che ora si lasciava crocifiggere, dando così campo libero al male ed ai malvagi?
D’altronde perfino il gran testimone della sua messianicità, Giovanni Battista, il più grande “nato di donna” (Matteo 11:11), si disorientò a tal punto da formulare una domanda che era quasi un disconoscimento: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Matteo 11:3). Proprio quel Giovanni Battista che aveva visto chiaramente il segno su Gesù indicatogli da Dio, cioè lo Spirito scendere visibilmente su lui (Giovanni 1:32-34). La vita di Giovanni non aveva avuto altro scopo che consumarsi per preparare la via al Messia–Figlio di Davide: se Gesù era veramente l’erede di quel trono glorioso doveva cominciare a regnare, non lasciare che Erode continuasse a fare tutto il male che voleva.
Giovanni Battista era comprensibilmente convinto che, nel Regno che si stava inaugurando, lui sarebbe stato il n. 2 e Gesù il capo indiscusso (Giovanni 1:26-27); ora invece Giovanni stava per essere ucciso da Erode (Matteo 14:3-12) e allora, al di là della questione personale, c’era da mettere in dubbio che Gesù fosse veramente il Messia.
Agli apostoli fu tutto più chiaro quando Gesù si presentò risorto e stette con loro 40 giorni (Atti 1:3). C’era qualcosa ancora da chiarire, come il nuovo Regno di Davide del quale non si vedeva traccia (Atti 1:6), ma la presenza di Gesù risorto era una meraviglia che faceva passare in secondo piano ogni problema. Non si aspettavano certo che Gesù spiccasse il volo andandosene sempre più in alto, fino a sparire dai loro occhi! Ci vollero due angeli per farli smettere di stare col naso all’insù (Atti 1:9-11).
Poi c’è stata la Pentecoste ed il formarsi della Chiesa (Atti 2), lo Spirito Santo dato anche ai non ebrei (Atti 11:1-3), le difficoltà per gestire un’irruzione come quella di Paolo (Atti 9:28-30; 11:25; 13:2; 15:37-39; Galati 2:11-14; 2Pietro 3:15-16), ma tutto ciò richiedeva solo un ragionevole sforzo di adattamento e c’era da aspettarselo, visto che si trattava dell’opera di Dio. Insomma, gli apostoli si erano giustamente convinti che ormai su Gesù avevano molto da insegnare e poco da imparare.
Chi aveva colto lo spirito intimo di Gesù più di altri, era stato indubbiamente Giovanni, «quello che Gesù amava» e che si permetteva in pubblico di stare col capo appoggiato sul petto di Gesù (Giovanni 13:23-25; 21:20). Quando, diverso tempo dopo, Giovanni udì dietro di sé una voce potente come una tromba e poi, voltatosi, vide un volto accecante con due occhi di fuoco e con una spada al posto della lingua, ne rimase talmente impressionato che svenne. Non immaginò certo che fosse il suo Gesù, ma poi la voce cambiò tono e riconobbe pure quella mano che era solita posarsi su di lui (Apocalisse 1:9-18).

Ognuno di noi ha una sua convinzione su Gesù e non vorremmo cambiarla. Ci potrebbe preoccupare la tendenza di Gesù a sorprendere i suoi amici, ma quando Gesù ci distrugge una sua vecchia immagine è per darcene una migliore, sopportando le nostre difficoltà di adattamento e accompagnandoci nella nuova comprensione (come ha fatto con Pietro e Giovanni).
Dopo aver fatto una sintesi del percorso di comprensione che hanno fatto gli apostoli, lo rifaremo approfondendo qualche aspetto, perché a volte le nostre difficoltà a capire Gesù derivano proprio dal non aver usufruito di quella gradualità alla quale lui sottopose gli apostoli e della quale vogliamo cogliere qualcosa in più.
Roberto Carson
00venerdì 22 gennaio 2010 17:58
2. “MAESTRO, DOVE ABITI?”

Dio volle segnalare la straordinarietà di Gesù fin da quando fu concepito (Luca 1:26-38) e Maria ne rese partecipe sua cugina Elisabetta, che in grembo aveva Giovanni Battista, il quale sobbalzò prima di nascere di fronte ad un Gesù che sarebbe nato anche dopo (Luca 1:36-45).
Appena Gesù nacque, i Magi ne resero testimonianza alla classe dirigente (Matteo 2:1-2) ed i pastori alle classi umili (Luca 2:15-18), mentre Simeone e Anna ne parlarono ai più religiosi, cioè a quelli che frequentavano il Tempio (Luca 2:25-38). Alla categoria dei sapienti ci pensò poi Gesù stesso, quando a 12 anni nel Tempio fece loro domande e diede loro risposte che stupirono tutti (Luca 2:46-47).
Infine, quando andò da Giovanni Battista per essere battezzato, lo Spirito Santo scese su di lui in forma di colomba e si udì una voce dal cielo: «Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto» (Matteo 3:17).
Tutti questi segni, però, è come se avessero rappresentato dei lampi di luce che illuminano sul momento e poi vengono dimenticati. Certamente per Maria sarebbe stato imbarazzante andare a raccontare che Gesù non era figlio di Giuseppe e anche Giuseppe avrà preferito che di certe cose non se ne parlasse, almeno finché non fosse stato chiaro il significato che avevano. Così Maria «serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo» (Luca 2:19) e vien da pensare che le abbia condivise con gli apostoli solo dopo la risurrezione di Gesù e forse proprio quando tutti i discepoli stavano nella famosa «sala di sopra», dopo l’ascensione di Gesù in cielo e in attesa della discesa dello Spirito Santo (Atti 1:13-14).

Il primo nucleo dei discepoli di Gesù proveniva dai seguaci di Giovanni Battista, ma per loro sembra che Gesù fosse soprattutto un maestro (rabbi), un po’ speciale sì, ma pur sempre un maestro. Andrea infatti (Giovanni 1:38-42) chiese semplicemente a Gesù: «Maestro, dove abiti?». Gesù rispose: «Venite e vedrete». Una specie di linguaggio cifrato col quale Andrea chiedeva di essere accettato come discepolo, con Gesù che si rendeva subito disponibile. Quando si entra in casa di una persona, si conoscono di lui molte cose e Andrea si trovò bene in casa di Gesù, al punto che ci passò la giornata, convincendosi che Gesù era il Messia, cioè quel discendente di Davide che doveva venire per rifare il Regno d’Israele. Ne parlò subito con entusiasmo al fratello Simon Pietro, che pure divenne immediatamente suo discepolo.
In tutto il Vangelo troviamo che Gesù venne inquadrato in categorie che per gli Ebrei erano solo e pienamente umane, quali Maestro, Profeta e altri tre modi che sono fra loro equivalenti: Messia (in ebraico), Cristo (in greco) e Figlio di Davide (per esempio, Luca 8:49; Giovanni 11:28; Matteo 21:46; Giovanni 1:41; 4:25; Luca 2:26; 24:26). Lui stesso amava definirsi Figlio dell’uomo (Matteo 8:20 e altre 30 volte in Matteo). Anche quando calmò la tempesta i discepoli mantennero la convinzione che Gesù fosse un uomo, speciale sì, ma pur sempre un uomo: «Che uomo è mai questo che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?» (Matteo 8:27).
Certo, Gesù nel Vangelo viene anche chiamato Figlio di Dio e Signore (Matteo 14:33; Luca 6:46), ma il significato di queste espressioni – come delle altre accennate sopra – va compreso tenendo conto del contesto ebraico nel quale sono state pronunciate, cosa che faremo nel prossimo punto.
Roberto Carson
00venerdì 22 gennaio 2010 17:58
3. FRA MOSÈ E SALOMONE

Nel Vangelo di Giovanni è riassunto ciò che i Giudei favorevoli a Gesù pensavano di lui: «“Questi è davvero il profeta”. Altri dicevano “Questi è il Cristo”» (7:40-41). In genere non facciamo caso all’articolo determinativo “il” e grossomodo comprendiamo: «“Questi è davvero un profeta”. Altri dicevano “Questi è Cristo”».
La storia d’Israele era piena di profeti e di messia (cioè cristi o unti). Si ungevano perfino le pietre (Genesi 28:18; Levitico 8:10-11) e unti erano tutti i re di Giuda, compreso il pessimo Manasse (2Cronache 33), come lo era pure il pagano Ciro (Isaia 45:1). Per il popolo ebreo riconoscere che una persona era profeta e/o cristo era importante, ma di per sé poteva significare anche poco.
C’era però un profeta particolare e un cristo particolare sui quali c’erano delle grandi aspettative, perché si ricollegavano ai due momenti più gloriosi per Israele: lo straordinario incontro con Dio al tempo di Mosè e la fama mondiale di Gerusalemme al tempo di Salomone. Questi due eventi non riguardavano soltanto il passato, perché ambedue si proiettavano anche nel futuro.
Mosè infatti aveva lasciato scritto: «Per te Jahvè, il tuo Dio, farà sorgere in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta come me; a lui darete ascolto!» (Deuteronomio 18:15). Il senso di queste parole è più chiaro se si legge la nota messa in fondo agli scritti di Mosè: «Non c’è mai più stato in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale Jahvè abbia trattato faccia a faccia. Nessuno era stato simile a lui in tutti quei segni e miracoli che Dio lo mandò a fare nel paese d’Egitto contro il faraone, contro tutti i suoi servi e contro tutto il suo paese; né simile a lui in tutti quegli atti potenti e in tutte quelle grandi cose tremende che Mosè fece davanti agli occhi di tutto Israele» (Deuteronomio 34:10-12).
Semaia (2Cronache 12:5), Isaia e tanti altri erano stati profeti, ma non come Mosè. Dato che Mosè aveva avuto un rapporto particolare con Dio ed aveva dato una grande svolta al popolo d’Israele, allora anche dal “secondo Mosè” ci si aspettava altrettanto. Chi perciò vedeva in Gesù “il profeta” atteso (implicito “come Mosè”), si apriva allo straordinario e all’incredibile.
Venendo al rapporto fra Gesù e Davide, per comprenderlo bisogna tenere ben presente un concetto ebraico che è molto lontano da noi moderni: quello di progenie, di stirpe, che realizzava una totale solidarietà anche fra persone di secoli diversi. La nostra perdizione in Adamo e la nostra possibile salvezza in Cristo, come cerca di far capire Paolo in Romani 5:12-21, dipendono dal nostro legame genetico col primo uomo e da un divenire “fratelli di Cristo”, cioè adottati da Dio come “sua” progenie. Dio disse ad Abramo che gli avrebbe donato la Terra Promessa e ciò cominciò a realizzarsi quattro secoli dopo nei suoi discendenti (Genesi 12:7; Esodo 12:41).
Dio non scelse come re solo Davide, ma tutta la sua dinastia per sempre (1Cronache 17:11-12). Con Salomone, poi, questi “figli di Davide” non sono beneficati solo col diritto a regnare, perché Salomone (e quindi anche la sua progenie) è addirittura adottato da Dio come suo figlio! (1Cronache 17:13). Salomone sarà così figlio di Davide e anche figlio di Dio, ciò però non vale solo per lui, ma anche per quei suoi discendenti che in seguito regneranno in perpetuo.
La “progenie di Abramo” sarà poi rappresentata dal suo discendente più illustre, cioè Cristo (Galati 3:16), che rappresenterà pure la progenie di Davide, realizzando così le promesse fatte da Dio ad Abramo e a Davide. Dire “figlio di Dio”, prima di Gesù, faceva pensare a Salomone. Quando Natanaele e Pietro, perciò, dicono a Gesù «Tu sei il Figlio di Dio» non credo che pensassero al fatto che Gesù non era figlio di Giuseppe, ma penso che volessero dirgli «Tu sei il nuovo Salomone e realizzerai quel nuovo Regno di giustizia e santità che illuminerà il mondo» (1Re 10:23-24; Isaia 9:5-6; Daniele 7:13-14). Proprio nella profezia di Daniele, questo glorioso re che deve venire viene chiamato “Figlio dell’uomo”, perciò il definirsi così di Gesù non è solo un gesto di umiltà, ma anche l’affermazione della consapevolezza di essere il Messia.
Sul significato di “Signore/signore” ci torneremo con più calma, qui anticipiamo solo che il termine poteva riferirsi all’autorità del padrone su un servo (Efesini 6:5-9) fino ad indicare Dio stesso. Quando Gesù viene chiamato “signore”, perciò, il significato è incerto e dipende dal contesto: nel contesto del Vangelo non credo che significhi “Dio”, mentre nelle Epistole in alcuni casi ne indica indubbiamente la divinità.
Roberto Carson
00venerdì 22 gennaio 2010 17:59
4. STRAORDINARIO, MA PUR SEMPRE UMANO

Nelle profezie dell’Antico Testamento è posto al centro il Regno di Dio che deve venire, mentre in fondo non aveva molta importanza lo strumento che Dio avrebbe usato. D’altronde gli stessi Noè, Abramo, Mosè, Davide e Isaia, per esempio, erano visti come persone sostanzialmente ordinarie attraverso le quali Dio aveva operato cose straordinarie.
Nei Vangeli, invece, si ha una sorta di capovolgimento, perché viene messo al centro il re, cioè lo strumento di Dio, mentre del Regno se ne colgono aspetti limitati e quelli che si manifestano in modo più clamoroso (guarigioni, moltiplicazione dei pani, risurrezione di Lazzaro) hanno effetti limitati nel tempo (chi guariva poteva ammalarsi di nuovo e a Lazzaro fu solo rinviata la morte).
Certe straordinarietà di Gesù, poi, mentre per noi sono un chiaro segno della sua divinità, nel contesto ebraico del Vangelo non significavano necessariamente una “sovrumanità” di Gesù. “Figlio di Dio”, per esempio, abbiamo visto che lo era stato anche Salomone, seppur solo adottato (1Cronache 17:13): per Gesù ha acquistato un significato più profondo solo dopo che si è saputo che non era figlio di Giuseppe.
Quando Gesù calmò la tempesta (Matteo 8:23-27), non fece più di quanto aveva fatto Mosè, il quale pure aveva comandato alle acque ed ai venti (Esodo 14:21). Neppure la risurrezione e l’ascensione al cielo qualificavano di per sé Gesù come di natura divina, perché qualcosa di simile era accaduto anche ad Enoc ed Elia (Genesi 5:24; Ebrei 11:5; 2Re 2:11). Quando poi Pietro vide Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione (Matteo 17:1-9), non pensò certo che Mosè ed Elia fossero diventati di natura divina.
Un buon avvocato difensore è molto severo con se stesso quando deve raccogliere le prove a favore della sua tesi, altrimenti cadrà nella severità della controparte e del giudice. Anche la mescolanza di prove buone e prove dubbie è molto dannosa, perché per la controparte diventa facile concentrarsi sulle prove dubbie, screditando così anche quelle buone. Meglio allora accantonare inizialmente tutte le prove dubbie sulla divinità di Gesù, che possono semmai essere ripescate a tesi già dimostrata, concentrandoci prima solo sui passi biblici più chiari.
Roberto Carson
00venerdì 22 gennaio 2010 18:00
5. LA COLLOCAZIONE DELLA TRINITÀ NEL NUOVO TESTAMENTO

È necessario non solo che una dottrina sia biblica, ma anche che sia collocata nel posto assegnatole dalla Bibbia e che sia espressa in modi biblici. Sono convinto che la Trinità sia una dottrina biblica, ma credo che la cristianità ne parli a volte in modo non biblico e, soprattutto, che la collochi in una posizione molto diversa da quella che ha nel Nuovo Testamento. Il discorso è complesso e bisogna perciò prenderlo alla larga.
Oggi la Bibbia si trova facilmente e i quattro Vangeli viaggiano spesso insieme. Agli inizi della Chiesa, invece, il Vangelo ha cominciato a trovare una sua formulazione in forma orale e ciascuna delle quattro redazioni scritte (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) è stata concepita come autonoma e sufficiente in sé. È convinzione comune che la predicazione degli apostoli si basasse sulle parti comuni ai tre “sinottici” (Matteo, Marco e Luca), mentre il Vangelo di Giovanni sarebbe posteriore, per un uso interno alla Chiesa più che per l’esterno e dove, anziché molti fatti e pochi discorsi (come nei sinottici), ci sono pochi fatti ma ben commentati.
Dei tre sinottici, Marco è il più corto e la gran parte di quel che contiene si trova anche negli altri due. Probabilmente è stato il primo ad essere scritto e poi gli altri hanno aggiunto qualcosa, però mi affascina più la tesi opposta, cioè quella di un Marco intento a togliere dal Vangelo di Matteo tutto ciò che non è essenziale e che potrebbe essere poco comprensibile da un normale cittadino romano.
In ogni caso, un cristiano deve credere che nel Vangelo di Marco ci sia tutto l’essenziale... e in esso quasi non c’è traccia esplicita della divinità di Cristo! Negli altri due sinottici il passo più significativo è quello sulla nascita di Gesù da Maria vergine, notizia che Marco salta completamente.
Quando Gesù chiese agli apostoli cosa pensassero di lui, Matteo riporta così la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16:16). In Luca scompare “Figlio”, con Pietro che rispose: «Il Cristo di Dio» (Luca 9:20). Marco semplifica ancora ed ha solo: «Tu sei il Cristo» (Marco 8:29).
Certo, non è marginale il fatto che tutti e tre i Sinottici concludano la loro storia con Gesù che, dietro pressione del Sinedrio, accetta di dichiararsi Figlio di Dio. L’episodio è così riportato da Marco: «Il sommo sacerdote lo interrogò e gli disse: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?” Gesù disse: “Io sono; e vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra della Potenza, venire sulle nuvole del cielo”. Il sommo sacerdote si stracciò le vesti e disse: “Che bisogno abbiamo di testimoni? Voi avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?” Tutti lo condannarono come reo di morte» (Marco 14:61-64). Questo passo nel Vangelo di Marco è fondamentale, ma va comunque notato che è posto alla fine e che quell’affermazione di Gesù fu utilizzata soprattutto come pretesto; infatti non era per quello che avevano deciso di uccidere Gesù, ma andarono alla ricerca di qualche giustificazione dopo averne decretato la morte per altre motivazioni.
La conclusione mi pare inevitabile, anche se può stupire non pochi cristiani: la dottrina della divinità di Gesù non è una parte centrale del Vangelo!
La storia scritta nei Vangeli prosegue negli Atti degli apostoli: mi sono accorto solo recentemente quanto gli Atti siano centrali per tutta la teologia del Nuovo Testamento (spero di poterne fare presto un breve commento). Questo libro fa vedere come nasce e in che cosa si caratterizza la Chiesa, mostrando come si entra a far parte del “popolo di Gesù”... e negli Atti la divinità di Gesù è marginale e pressoché assente nelle varie predicazioni!
Ai 3.000 ebrei che furono battezzati il giorno di Pentecoste (Atti 2:41) e agli altri 2.000 che si aggiunsero poco dopo (Atti 4:4), così come al non ebreo Cornelio ed ai molti che erano con lui (Atti 10:24), fu semplicemente annunciato che accettando Gesù si era perdonati dai propri peccati (Atti 2:38; 3:19; 10:43). Dio non considerò riduttivo questo semplice messaggio e lo avallò donando lo Spirito Santo a quelli che lo accolsero, i quali furono subito battezzati (Atti 2:41; 10:44-47) ed entrarono così a far parte della Chiesa, senza presumibilmente aver mai sentito parlare della divinità di Gesù, dottrina che per loro era poi facilmente comprensibile, avendo in se stessi lo Spirito Santo ed avendo sperimentato il perdono per mezzo di Gesù. Insomma, come si sa, una teoria si apprende più facilmente quando se ne è fatta esperienza e, per i primi cristiani, l’esperienza della Trinità veniva prima della teologia della Trinità.
L’Epistola di Paolo ai Romani è universalmente considerata come un trattato completo di teologia cristiana e neppure qui ci si sofferma sulla divinità di Gesù.
Qualcuno potrebbe far notare che non è un male se la Chiesa ha poi valorizzato un’importante verità come quella della divinità di Gesù. Il fatto è che, quando si mette al centro qualcosa che non c’era, significa che si è tolto dal centro qualcosa che c’era e nella Bibbia è ispirata anche la posizione delle varie dottrine. Nel Nuovo Testamento della Trinità si tende a parlarne dopo la conversione e non troviamo che fosse al centro di controversie fra credenti: anche noi perciò dovremmo fare altrettanto.
Non a caso ha cominciato la Chiesa costantiniana a convocare i Concili Ecumenici (Nicea, 325) e ad incentrarli sulla Trinità, mettendo in un angolo la semplicità del perdono in Cristo, dall’essere ciascuno dimora dello Spirito Santo e dall’accogliersi l’un l’altro con amore (Giovanni 13:34-35): senza accapigliarsi (o peggio uccidersi!) per una sottile e filosofica diversità d’opinione, come esortava a fare pure Paolo (Romani 14).

Siccome la Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo) risulta più difficile, allora è meglio cominciare da quella che chiameremo la “Duità” (cioè il rapporto di Gesù col Padre), cercando di attenerci strettamente e semplicemente al Nuovo Testamento, cioè tralasciando quelle speculazioni che hanno l’obiettivo di chiarire ciò che la Scrittura non chiarisce, ma che finiscono per confondere anche ciò che nella Parola di Dio è chiaro.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:47
CAP. 5
LA “DUITÀ” PADRE-FIGLIO

1. MODI ESPLICITI E IMPLICITI NEL NUOVO TESTAMENTO


La nascita divina di Gesù è posta da Matteo e Luca all’inizio dei loro Vangeli, ma abbiamo visto che probabilmente Maria ha rivelato quelle circostanze, travisabili dai malevoli, solo dopo la risurrezione di Gesù. Oltre a ciò, gli scritti del Nuovo Testamento che parlano direttamente della divinità di Gesù appartengono per lo più ad un solo autore, cioè Giovanni, e sono stati redatti fra gli ultimi. Ciò fa pensare che la divinità di Gesù era vista come un completamento finale della conoscenza del Messia, piuttosto che un obbligo preliminare per essere ammessi nella Chiesa.
L’accento andava posto prima su Gesù-Salvatore, ricevendone il perdono dei peccati; poi su Gesù-Maestro, per comportarsi in modo coerente nel percorrere la sua “Nuova Via” (così si chiamava all’inizio il cristianesimo, cfr. Atti 19:9; 9:2; 11:26); poi su Gesù-Signore, per mezzo del quale è stato tutto creato e al quale tutto tende (Colossesi 1:13-20); infine su Gesù-Figlio di Dio, cogliendone la natura divina. Questa successione non vuole essere uno schemino entro il quale restringere il Nuovo Testamento ed è chiaro che i vari aspetti di Cristo si intrecciano fra loro (l’etica cristiana, per esempio, è impossibile senza la percezione della Signoria e della potenza di Gesù), ma va inteso in senso elastico e credo che aiuti a collocare meglio gli scritti del Nuovo Testamento (con i Vangeli Sinottici, gli Atti e Romani, per esempio, che si incentrano sui primi due aspetti di Gesù).
Al di fuori degli scritti di Giovanni (Vangelo, Epistole e Apocalisse), della divinità di Cristo se ne parla esplicitamente all’inizio dell’Epistola agli Ebrei, in alcuni punti delle Epistole di Paolo e in 1Pietro. In un modo più implicito e indiretto, comunque, la convinzione della divinità di Gesù permea di sé tutto il Nuovo Testamento. Passiamo ora a vedere dove se ne parla più direttamente, per poi passare ai modi più impliciti e pervasivi.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:48
2. ESSENZIALITÀ DELLA NASCITA VIRGINALE DI GESÙ

Matteo 1:18: La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Da questa sintetica descrizione qualcuno potrebbe cavillare che la nascita di Gesù è stata sì miracolosa, ma nel senso che è stata frutto della sola madre. Forse è per questo che Luca, scrivendo più tardi, arriva ad usare un linguaggio più esplicito.

Luca 1:35: L’angelo rispose a Maria: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio».
Il figlio di un cane ha la natura del cane, il figlio di un uomo ha la natura umana, il figlio di Dio e di una donna – pertanto – ha sia la natura di Dio che quella umana. Semplicissimo, anche se non tutto è chiaro. Volendo però chiarire ciò che la Scrittura non chiarisce, va a finire che non solo ci si confonde ancora di più, ma si perde anche la semplicità e la linearità dateci da Dio. La natura insieme umana e divina di Gesù non ci sono da Dio spiegate con complicati discorsi filosofici “sull’essenza dell’Essere”, ma dal semplice racconto di come si sono svolti i fatti: possiamo crederci o non crederci, ma ha poco senso “migliorarli” aggiungendoci ciò che non c’è, o cercando di piegarli alla nostra logica.
D’altronde l’abitudine di Dio è sempre la stessa, dalla Genesi in poi, e cerca di farsi comprendere per quel che fa (creazione, Diluvio, Abramo, Esodo), cominciando solo dopo molto tempo a far lunghi discorsi (Deuteronomio, Isaia).
Chi vuol comprendere la natura divina di Gesù deve leggere Luca 1, poi rileggere Luca 1 fino a che non lo ha assimilato: è quella la base essenziale per ogni altro successivo discorso.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:49
3. LA “DUITÀ” NEL VANGELO DI GIOVANNI

A. Il “Prologo” spiegato ad un amico massone.

I primi 13 versetti del Vangelo di Giovanni sono un po’ enigmatici e costituiscono un caso a sé. Con i successivi 5 versetti vanno a costituire quello che viene chiamato il Prologo, nel quale Giovanni sintetizza il contenuto essenziale di tutto il suo Vangelo.
Le diversità di traduzione non dipendono dalle difficoltà di comprensione del testo greco, ma dai presupposti interpretativi e di trascrizione dei traduttori, ho perciò cercato di trascrivere il testo così com’è nell’originale e ne è venuto fuori... che i primi tredici versetti del Vangelo di Giovanni possono essere letti anche laicamente. Ciò, naturalmente, ha suscitato l’interesse di un amico appartenente alla Massoneria, il quale mi ha chiesto di fargliene una scheda: l’ho già messa in circolazione e ora ne riporto un adattamento.
Se i primi 13 versetti si scrivono su un foglio a parte e si danno a qualcuno che non sa niente di cristianesimo, immaginerà che si tratti di un testo filosofico-religioso. Gesù di Nazaret infatti non è mai citato e, oltre ad un imprecisato “Dio”, viene nominato solo un certo Giovanni (cioè il Battista). Un segno della possibile lettura “laica” dell’inizio di questo Vangelo è che le riunioni delle Logge massoniche cominciano proprio con la Bibbia aperta nel Prologo: noi cristiani diciamo che è un abuso, ma forse non abbiamo tutte le ragioni, come cercheremo di dimostrare usando il contesto generale del Nuovo Testamento.
Riporteremo più sotto i 13 versetti, ma facendo alcune scelte necessarie per meglio comprendere l’originale greco. Gli antichi, com’è noto, non usavano scrivere mettendo la prima lettera in maiuscolo in certe parole (scrivevano cioè FERNANDO o fernando, ma non Fernando); non usavano poi la punteggiatura, né suddividevano in versetti. Invece i traduttori, per aiutarci, ne fanno giustamente uso, ma a volte l’uso che ne fanno trasmette anche i loro presupposti; allora può succedere che prendiamo come “Parola di Dio” quelle che sono le convinzioni teologiche del traduttore (e che possono non essere le nostre): per questo trascriveremo il Prologo tutto in minuscolo, conservando però una punteggiatura che qui non ci crea problemi. Alcune traduzioni, poi, pur cominciando con “la parola” come soggetto, all’inizio del versetto 10 passano ingiustificatamente al maschile (“egli”): si capisce il perché, dato che ci si riferisce indubbiamente a Cristo; ma così non si capisce che, nell’originale, Cristo è ancora solo adombrato, (la “Concordata” riporta fedelmente un “lei”).
La parola greca “logos”, che troviamo fin dall’inizio, è comunemente tradotta “parola”, ma nella cultura greca di quel tempo – oltre al significato più immediato – se ne erano stratificati altri, dei quali è necessario avere idea. In ciò siamo facilitati dal fatto che, proprio per non perderne la ricchezza originaria, “logos” è entrato anche nel vocabolario italiano e così ne definisce il significato lo Zingarelli: «Il discorso, il ragionamento, in quanto procedimento del pensiero, quindi manifestazione delle stesse facoltà logiche e razionali dell’uomo». Nel Dizionario di teologia evangelica, naturalmente, se ne coglie anche la sfumatura teologica che aveva assunto al tempo di Giovanni: «Nel Giudaismo ellenistico di Filone, il termine denota lo strumento per mezzo del quale il mondo è stato creato e rappresenta un ponte fra un Dio trascendente e il mondo materiale» (l’opera è a cura di P. Bolognesi e altri, EUN, 2007)
Insomma, un cristiano che leggeva l’inizio del Vangelo di Giovanni (e ancor più se lo rileggeva), non aveva alcun dubbio che si stesse parlando di Gesù, ma gli altri potevano inizialmente capire anche cose molto diverse, attribuendo a quelle parole vaghe ed evocative (“parola”, “vita”, “luce”, “tenebra”, “figli di dio”) i significati suggeriti dai propri particolari presupposti.
Riportiamo ora il testo, avendo come base quello della “Concordata”, ma nel leggerlo bisognerebbe che ciascuno si sforzasse di mettere da parte le sue conoscenze cristiane:

1in principio era la parola e la parola era presso dio, anzi la parola era dio. 2essa in principio era presso dio. 3per essa furono fatte tutte le cose e fatta separatamente da essa nessuna esistette. 4in essa era la vita e la vita era la luce degli uomini. 5e la luce risplende nella tenebra e la tenebra non l’ha compresa. 6ci fu un uomo, mandato da dio, di nome giovanni. 7questi venne a testimonianza, per testimoniare della luce, affinché tutti credessero per lui. 8non era egli la luce, ma per testimoniare della luce, 9la vera luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo. 10era nel mondo e il mondo fu per mezzo di lei, ma il mondo non la conobbe. 11venne nella sua proprietà e i suoi non l’accolsero. 12ma a quanti l’accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede loro il potere di diventare figli di dio, 13i quali, non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma da dio sono stati generati. (Giovanni 1:1-13).

Perché Giovanni usa questo modo ambivalente? Provo a rispondere prendendola un po’ alla larga, cioè partendo dal contesto biblico generale, che mostra un Dio che non se ne sta fisso in alto e verso il quale dobbiamo salire, ma un Dio che scende fra gli uomini, stando per esempio con Adamo nell’Eden (Genesi 1-3) e con Israele durante l’attraversata del deserto (Esodo 40:38). Questa vicinanza, naturalmente, raggiunge il culmine con l’incarnazione.
L’atteggiamento di scendere al livello di chi si vuol incontrare lo si ritrova chiaramente anche nel comportamento di Gesù, che si mise in sintonia con tutti, tranne che con i superbi. Notoria è la sua simpatia per i peccatori e un caso singolare è quello di Zaccheo il pubblicano (cioè un esattore delle tasse): Gesù si autoinvita a pranzo a casa di Zaccheo, ma non per fare l’esame di coscienza ad uno che era ritenuto peccatore (Luca 19:6). Stando vicino a Gesù, sarà Zaccheo stesso a rendersi conto autonomamente che è necessario cambiare vita e allora sarà comunque trasformato da quell’incontro.
Più pertinente, perché raccontato da Giovanni stesso, è l’incontro di Gesù con la Samaritana (Giovanni 4). Chiedere da bere ad una donna non giudea e per di più di dubbia moralità, significava usare i suoi recipienti considerati impuri. Infatti la donna si stupì di quella richiesta ed il dialogo cominciò con Gesù che, guarda caso, la incuriosì con parole dal significato vago e fortemente evocativo, prospettandole dell’acqua viva che non solo l’avrebbe dissetata per sempre (v. 14), ma avrebbe fatto diventare essa stessa una sorgente d’acqua producente vita eterna!
Quando però il dialogo si approfondisce e si fa serio, allora Gesù passa dal linguaggio evocativo a quello reale. Prima di mostrarsi per quello che veramente è, Gesù chiede di fare altrettanto alla Samaritana, offrendole in alternativa una via di fuga («Va’, chiama tuo marito e vieni qui», v. 16). Viene allora inevitabilmente fuori la polemica sulla vera religione: quella dei Samaritani o quella dei Giudei? Gesù non schiva una domanda che può separarli e non sceglie la facile via di un generico appello alla comune radice israelitica (i Samaritani derivavano in qualche modo dalle tribù israelitiche del nord, cf. 2Re 17:24-41). Riconosce che anche il giudaismo sta per fallire e che quindi è inutile cambiare il luogo di adorazione, ma dice alla Samaritana quello che i Samaritani consideravano inaccettabile, che cioè la salvezza veniva dai Giudei (v. 22): non ne erano i detentori in esclusiva, ma sarebbe passata a tutti tramite loro (cioè tramite lui, che appariva ed era un giudeo).

Giovanni, usando il termine logos, è chiaro che vuole cominciare mettendosi in sintonia con la cultura greca, ma in questo lo specialista era l’apostolo Paolo il quale, proprio incontrando i filosofi ateniesi (Atti 17:16-34), aveva dato un esempio. Pur essendo tante le polemiche che Paolo avrebbe potuto aprire, si concentrò prima in ciò che condivideva (un altare “al Dio sconosciuto” e la frase di un loro filosofo), per poi passare alla risurrezione: inaccettabile per chi, come i filosofi greci, considerava il corpo come una prigione dell’anima (per inciso, purtroppo i cosiddetti “Padri della Chiesa” hanno poi sostanzialmente adottato l’atteggiamento di quei filosofi, anziché mantenere il pensiero ebraico di Paolo, ma questo è un altro discorso).
Nel Prologo, insomma, Giovanni usa uno schema conosciuto e parte da dove sono i suoi interlocutori, ma poi invita i suoi lettori greci a seguirlo dove non vorrebbero e al versetto 14 dichiara apertamente che «la parola divenne carne ed ha abitato fra noi»: un concetto difficilmente accettabile per gli stessi motivi riguardanti la risurrezione.
Per concludere, Gesù con la Samaritana, Paolo con i filosofi ateniesi e Giovanni nel Prologo, cominciano il discorso con una specie di aperitivo, ma il pasto che poi offrono è un’altra cosa. L’aperitivo ha senso in vista del pranzo, ma se uno poi quel pranzo non lo gradisce...
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:49
B. Il Logos e Gesù oppure il Logos è Gesù?

Dato che le traduzioni di “logos” fanno perdere la ricchezza che quella parola aveva nel suo contesto (vedere le definizioni date poco sopra), si tende ad usarla in originale e in genere indica “il nome di Gesù prima dell’incarnazione”: è allora inevitabile adottarla nel nostro vocabolario.
Siccome è chiaro che in Gesù s’incarna qualcuno che esisteva già “dal principio”, credo sia accettabile usare Logos come un nome appropriato per quel tempo. I teologi però vanno spesso oltre, fino a considerare il Logos come se fosse una persona sostanzialmente diversa da Gesù, insomma come se ci fosse una discontinuità radicale.
Si capisce come questa discontinuità (che a volte chiamano “ontologica”) sia necessaria alla loro teologia, per esempio per affermare una sostanziale diversità fra Antico e Nuovo Testamento, ma non si capisce come possano poi attribuire questa discontinuità al Nuovo Testamento, dove è chiaro che chi duemila anni fa è venuto a stare qualche anno con noi è lo stesso mediante il quale sono stati creati i mondi (Ebrei 1:1-2). Lo stesso Vangelo di Giovanni non lascia dubbi, riportando quanto affermato dal Battista: «Colui che viene dopo di me mi ha preceduto» (1:15); si tratta insomma della medesima persona, come era già stato precisato: «Egli era nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui» (1:10): il mondo è stato fatto da quello stesso che poi si è incarnato, perciò il senso della frase «il Logos è stato fatto carne» (1:14) non significa che sia cambiata la persona; ed è proprio per evitare questa possibile interpretazione che quella frase è preceduta e seguita (vv. 10 e 15) dalle inequivocabili identificazioni fra Gesù e il Logos che abbiamo appena viste.
Si potrebbe continuare con altri versetti a sostegno di una continuità di persona fra il Logos e Gesù (per esempio, Giovanni 8:58, Colossesi 1:15-17, Filippesi 2:5-11), ma è umiliante dover perdere tempo per definire una dottrina neotestamentaria così chiara e a volte proprio con chi professa di basarsi sulla “Sola Scrittura”. Chiudiamo perciò in fretta questo argomento, facendo solo notare che dall’incarnazione in poi Gesù è cambiato più volte (crescita come essere umano, manifestazione pubblica, crocifissione, risurrezione, glorificazione alla destra del Padre), ma anche alla fine dei tempi non sarà cancellato niente del suo percorso, perché conserverà sia il suo essere stato un Agnello immolato, sia il suo aver ripreso la gloria che aveva come Logos, cioè prima della fondazione del mondo (Apocalisse 5:6-12; Giovanni 17:5).
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:50
C. Dal Logos a Gesù, non viceversa.

Giovanni 1 è una specie di aggiornamento di Genesi 1: ambedue infatti cominciano il racconto con «Nel Principio» e poi danno chiarimenti sulla creazione. A quel “principio” ambedue fanno solo un cenno, perché il loro intento è di far comprendere la realtà del momento, che per Giovanni è Gesù, senza il quale «neppure una delle cose fatte è stata fatta» (v. 3).
Abbiamo già visto come Giovanni passi da un concetto che poteva essere compreso dalla cultura greca (il Logos), a quella concretezza ebraica che irrompe con «e il Logos è stato fatto carne» (v. 14). Quando si discute di Trinità si fa invece spesso un percorso esattamente opposto a quello proposto da Giovanni, cioè si parte da Gesù per poi cercare di capire meglio il Logos che c’era all’inizio, ponendosi prioritariamente la domanda su che rapporto c’era nel passato eterno fra il Padre e “la Seconda persona della Trinità”. Inevitabile che si finisca per smarrirsi, rendendo confuso anche ciò che nella Bibbia è chiaro; perché a volte, più che essere sbagliate le risposte, non sono bibliche le domande, con le quali si vorrebbe mettere il naso in quelle cose non rivelate che appartengono solo a Dio e non a noi (Deuteronomio 29:28).
La Trinità è stata rivelata dopo la nascita di Gesù ed in modi ebraici, cioè semplici e concreti. Discutere sui rapporti Padre-Figlio prima dell’incarnazione e con termini filosofici tratti dalla cultura greca, perciò, potrebbe essere una forma di ribellione alla Parola di Dio, disastrosa anche quando non è avvertita come tale. Cercheremo allora di capire ebraicamente ciò che l’ebreo Giovanni voleva dire in alcuni passaggi cruciali del suo Vangelo.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:50
D. La “Duità” a partire da un versetto.

Giovanni 1:1: «in principio era la parola e la parola era presso dio, anzi la parola era dio».
Abbiamo visto che l’uso delle maiuscole dipende dai presupposti del traduttore e per cercare di essere obiettivi abbiamo ripreso nuovamente la trascrizione messa a punto precedentemente.
Il Vangelo di Giovanni ha una struttura “a cerchi concentrici”, piuttosto che progressiva. Così cerca di dire tutto l’essenziale già dal primo versetto, per poi ribadire i concetti espressi in Giovanni 1:1 nel corso dell’intero Vangelo: sarebbero perciò ben chiari anche se cancellassimo quell’inizio. Anziché insisterci troppo, allora, è meglio chiarirne brevemente il significato e poi continuare con gli altri passi dello stesso Vangelo, dopo i quali è più facile rendersi conto di ciò che vogliono dire quelle parole iniziali che, obiettivamente, un po’ enigmatiche lo sono.
Come dirà poi (v.14), “parola” (logos) sta per “Gesù" e Giovanni vuol trasmettere essenzialmente tre concetti.
-Primo concetto: Gesù c’era “fin dal principio”.
-Secondo concetto: Gesù era “presso Dio” (o “con Dio”) e perciò era una persona separata da Dio.
-Terzo concetto: Gesù era egli stesso “Dio” (evidentemente non nel senso di persona, ma di sostanza).
Il primo concetto è largamente condiviso, perché nel Nuovo Testamento è più volte affermato che tutte le cose sono state create per mezzo di Gesù, che perciò era presente dal principio (per esempio, Colossesi 1:16 e Ebrei 1:2). Tralasceremo perciò di ribadire il primo concetto; invece ci soffermeremo sul secondo e sul terzo concetto, che sono il cuore della dottrina trinitaria e che possono sembrare in contrasto fra loro.
Abbiamo provato a fare una lettura “oggettiva” dei successivi passi del Vangelo di Giovanni ed essa ci pare confermi l’analisi di Giovanni 1:1 fatta: sta ora a chi legge il valutare se siamo stati veramente oggettivi.

Giovanni 10:30: «Io e il Padre siamo uno».
La sintesi operata da Giovanni all’inizio del Vangelo la ripete concentrandosi sul secondo e sul terzo concetto espressi in 1:1. Oltre a ribadire la distinzione fra le due persone («Io e il Padre»), ribadisce anche la loro unità di sostanza («siamo uno»), aggiungendo la motivazione di questa unità, data dal rapporto di Padre-Figlio. Un rapporto di paternità non adottivo come quello con Salomone (1Cronache 17:13), ma generativo; come per altro Giovanni aveva già anticipato nel Prologo: «Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come da unigenito dal Padre» (1:14).
La subordinazione di una moglie al marito e di un figlio al padre (Efesini 5:22 e 6:1) non significa certo che ci sia una diversità di natura fra di loro, condividendo tutti quella umana ed essendo tutti “immagine di Dio”. Nemmeno la diversità di conoscenza intacca l’unità di sostanza fra un padre e un figlio.
Dato allora che la dottrina trinitaria afferma che Gesù e il Padre sono due persone distinte (seppur formanti una sola Deità), si dimostra di non aver capito bene quando ci si illude di contrastare la Trinità mostrando che Gesù è una persona diversa dal Padre, oppure notando che è sottomesso al Padre e che non conosce alcune cose che invece il Padre sa (come si può ricavare da Giovanni 14:28 e Matteo 24:36).

Giovanni 5:18: «Per questo i Giudei più che mai cercavano d’ucciderlo; perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio»
Giovanni 8:58-59: «Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse nato, io sono”. Allora essi presero delle pietre per tirargliele»
Giovanni 10:33: «I Giudei gli risposero: “Non ti lapidiamo per una buona opera, ma per bestemmia; e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”»
In questi tre passi i Giudei cercano di uccidere Gesù perché interpretano le sue parole come un farsi uguale a Dio. Se Gesù fosse stato un “antitrinitario” avrebbe replicato che avevano capito male, invece rafforza quella loro interpretazione affermando che tutti dovranno onorare il Figlio, cioè lui stesso, «come onorano il Padre» (5:23), invitandoli a riconoscere che il Padre è in lui e lui è nel Padre (10:38), concetto poi ribadito più direttamente agli apostoli in 14:9-10 (vedere sotto).

Giovanni 14:9-10: «Gesù gli disse: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre; come mai tu dici ‘Mostraci il Padre’? Non credi tu che io sono nel Padre e che il Padre è in me?”»
È vero che i Giudei erano scandalizzati dal fatto che Gesù si dichiarasse Figlio di Dio per natura, ma non tutti; perché anche gli apostoli, i discepoli e le folle che seguivano Gesù appartenevano all’ebraismo e non si scandalizzarono. Insomma è un certo modo di essere ebreo che è incompatibile con la Trinità, ma fin dall’inizio ci sono stati Ebrei che l’hanno ritenuta compatibile.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:51
4. LA DIVINITÀ DI GESÙ IN ALTRI PASSI DEL NUOVO TESTAMENTO

Il prostrarsi davanti a Gesù. Prostrarsi davanti ad una persona aveva un significato vario. Lo faceva un servo nei confronti del suo signore (Matteo 18:26), come pure un suddito verso il re (1Re 1:53; Matteo 27:29). In certe circostanze poteva essere un gesto di adorazione, per questo non ci si doveva prostrare davanti alle immagini (Esodo 20:15), mentre tutti gli abitanti della Terra lo faranno verso Dio (Salmo 66:4). Proprio per evitare il pericolo di idolatria, Pietro non accetta il prostrarsi di Cornelio davanti a lui (Atti 10:24-26), né l’angelo accetta un simile gesto da parte di Giovanni (Apocalisse 19:10; 22:8-9).
Se si prende un solo episodio nel quale qualcuno si prostra davanti a Gesù, si può anche non essere obbligati a vederci un’adorazione, ma certamente il racconto in Matteo 14:32-33 lascia pochi dubbi: «Quando furono saliti sulla barca, il vento si calmò. Allora quelli che erano nella barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Veramente tu sei Figlio di Dio!”». Ci sono diversi altri episodi nei quali ci si prostra davanti a Gesù (Matteo 2:11; 8:2; 15:25; 20:20; Giovanni 9:38) e, significativamente, lo fanno anche le legioni dei demoni (Marco 5:1-13). Colpisce che Gesù accetti sempre e pienamente tali gesti, evidentemente perché non considera che sia un pericolo l’adorarlo.
Dio dichiara: «Non c’è Salvatore fuori di me [...] io sono Dio, e non ce n’è alcun altro [...] Ogni ginocchio si piegherà davanti a me» (Isaia 45:21-23). Di fronte a chi ben conosceva questo passo di Isaia, proclamare che fuori di Gesù «non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati» (Atti 4:12) ha un rilievo particolare. Paolo, poi, da un lato cita il passo di Isaia (Romani 14:11), dall’altro dichiara che «ogni ginocchio» si piegherà nel nome di Gesù e lo riconoscerà Signore (Filippesi 2:10-11).
Come al solito, insomma, verso Gesù c’è una spinta ad esaltarlo senza che siano posti quei limiti che gli antitrinitari pongono, ma che nel Nuovo Testamento non ci sono. Tutto ciò, comunque, è ancora più chiaro nei sottostanti passi di Apocalisse.

Atti 20:28: «Lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi, per pascere la chiesa di Dio, che egli ha acquistata con il proprio sangue».
Qui la divinità di Gesù compare in un discorso di Paolo fatto ad “anziani” e viene introdotto quasi incidentalmente ma, paradossalmente, in modo più forte che altrove. La soprastante espressione, infatti, ha senso solo se fra Gesù e il Padre c’è una vera identità di natura, perché è evidente che il sangue per acquistare la chiesa non lo ha versato direttamente il Padre, ma il Figlio, che perciò viene considerato come avente lo stesso sangue del Padre: cosa si potrebbe dire di più per affermare una identità di natura fra Padre e Figlio?

Atti 21:13-14: Paolo disse ai suoi amici: «”Io sono pronto non solo a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù”. E, poiché non si lasciava persuadere, ci rassegnammo dicendo: “Sia fatta la volontà del Signore”».
Il credente prega al Padre dicendo “Sia santificato il tuo nome” (Matteo 6:9); può allora spendere la propria vita per il nome di Gesù solo se i due nomi formano un’unità. Quel “Sia fatta la volontà del Signore” si riferisce chiaramente a Gesù, essendo stato così definito immediatamente sopra. Il credente è però chiamato a fare la volontà di Dio (Colossesi 1:9; Ebrei 10:36; 1Pietro 4:2; 1 Giovanni 2:17) e perciò c’è anche qui una significativa sovrapposizione fra Gesù e il Padre. Tanto più significativa perché, nelle molte predicazioni a non credenti riportate in Atti, la divinità di Gesù è pressoché assente; mentre è chiaramente implicita nei due passi soprastanti che, non a caso, riportano dialoghi di Paolo con credenti.

Filippesi 2:5-11: «Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio [...] spogliò se stesso, prendendo forma di servo [...] facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato [...] affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio [...] e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore».
In fondo non c’è niente di nuovo in questo passo, ma è rilevante perché si dovrebbe trattare non tanto di uno scritto di Paolo, ma della citazione di un inno ben conosciuto dai primi cristiani. L’inno è una sintesi mirabile che parte da quando Gesù era «in forma di Dio» prima dell’incarnazione, poi ha abbassato la sua posizione – non la sua natura – tornando infine alla gloria originaria («Gesù Cristo è il Signore»), in un alternarsi di funzioni, ma rimanendo sempre la stessa persona. Sul significato di “Signore/signore” contiamo di tornarci in seguito.

Ebrei 1:1-10: «Dio [...] ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è lo splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza [...] a quale degli angeli ha mai detto: “Tu sei mio Figlio, oggi io t’ho generato”? e anche: “Io gli sarò Padre ed egli mi sarà Figlio”? [...] Tutti gli angeli di Dio lo adorino [...] Tu, Signore, nel principio hai fondato la terra e i cieli sono opera delle tue mani».
Tutto il capitolo 1 di Ebrei ha come soggetto Gesù e perciò si riferiscono a lui anche le ultime espressioni sopra riportate e che altrove vengono riferite esplicitamente al Padre. Non staremo ad analizzare le varie parti, perché sono espresse chiaramente anche in altri versetti che abbiamo visto o che vedremo, sottolineiamo qui solo la gran luce che proviene dall’insieme delle varie caratteristiche riferite a Gesù. In ogni caso, l’autore di Ebrei non teme certamente che si possa esagerare nel “rendere omaggio” a Gesù, concetto ancor più ricavabile dall’Apocalisse (come si vedrà).

Apocalisse 5:11-13: «E vidi, e udii voci di molti angeli intorno al trono [...] Essi dicevano a gran voce: “Degno è l’Agnello, che è stato immolato, di ricevere la potenza, le ricchezze, la sapienza, la forza, l’onore, la gloria e la lode”. E tutte le creature [...] dicevano: “A colui che siede sul trono, e all’Agnello, siano la lode, l’onore la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli”».
In precedenza era stato scritto: «I ventiquattro anziani si prostrano davanti a colui che siede sul trono [...] dicendo: “Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza: perché tu hai create tutte le cose”».
Lo stesso tipo di lode viene rivolto al solo Dio Padre (“Colui che siede sul trono”), poi al solo Gesù, poi a Dio Padre e Gesù insieme. Se questa non è adorazione, se questa non è sia distinzione che unità, se queste parole di Apocalisse non convincono, tanto meno convinceranno le mie.

Apocalisse 1:17. Gesù dice a Giovanni: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo».
Apocalisse 2:8: «Queste cose dice il primo e l’ultimo, che fu morto e tornò in vita».
Apocalisse 22:12-16: «Ecco, sto per venire [...] Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine [...] Io, Gesù».
In precedenza c’è scritto: «“Io sono l’alfa e l’omega”, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”» (1:8).
Ci sono due alfa e due omega? Due primi e due ultimi? La scelta non è fra essere logici o essere illogici, ma fra essere pazzi e essere empi, fra accettare la pazzia di Dio che è più saggia degli uomini (1Corinzi 1:25) o annullare la Parola di Dio per mettere al suo posto le nostre divagazioni.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:52
5. LA DIVINITÀ DI GESÙ COME SOTTOFONDO DELLE EPISTOLE

I passi biblici finora riportati ci sembrano molto eloquenti e su di essi si concentra l’attenzione di chi non accetta l’impostazione trinitaria, nel tentativo di darne un’interpretazione diversa da quella “ortodossa”. L’effetto di un’operazione del genere, anche quando riuscisse, non risolverebbe però la questione in senso “antitrinitario”, perché la dottrina della divinità di Gesù “impregna” tutto il Nuovo Testamento, costituendone la struttura sottostante anche quando non appare in modo vistoso.
L’Epistola ai Romani è considerata come l’esposizione dottrinale più completa presente nel Nuovo Testamento, perciò sorprende il fatto che sia assente una trattazione esplicita della divinità di Gesù. A guardare bene, però, non è che sia assente, ma emerge qua e là in modo più o meno implicito, cioè come qualcosa di condiviso con i lettori e che non ha bisogno di spiegazioni. Anzi, già dai primi sette versetti introduttivi se ne possono ricavare spunti molto significativi, perciò passiamo ora a trascrivere questi versetti:

«1Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio, 2che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture 3riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, 4dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di Santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore, 5per mezzo del quale abbiamo ricevuto grazia e apostolato perché si ottenga l’ubbidienza della fede fra tutti gli stranieri, per il suo nome – 6fra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo – 7a quanti sono in Roma, amati da Dio, chiamati ad esser santi, grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signor Gesù Cristo» (Romani 1:1-7).

«servo di Cristo Gesù» ... «dichiarato Figlio di Dio» (Romani 1:1-4).
Per Paolo, dichiararsi immediatamente «servo di Cristo» significa dare a ciò il massimo del rilievo. Se poco dopo preciserà che i pagani «hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura» (1:25), significa che Cristo non è considerato una “creatura” e ciò è un implicito richiamo al suo essere stato generato da Dio (“generato, non creato”, secondo l’antica formula), come subito sotto è affermato più esplicitamente (“dichiarato Figlio di Dio”). Tutto questo senza dover precisare le circostanze della nascita di Gesù e neppure il fatto che tutto è stato creato per suo mezzo, come se fossero cose ormai acquisite.
Un credente deve amare Dio con tutto se stesso (Matteo 22:37) e non è possibile servire due padroni (Matteo 6:24), eppure anche altri apostoli si dichiarano servi di Cristo (Romani 1:1; Giacomo 1:1; 2Pietro 1:1; Giuda 1) e Paolo stesso invita i credenti ad esserlo (Efesini 6:6; Colossesi 3:24). Ciò non è visto in contrasto con il dichiararsi anche servi di Dio (come Paolo fa poco dopo, cioè in Romani 1:9, e in 2Timoteo 1:3) e servi di Dio sono invitati ad esserlo anche i credenti (Romani 6:22; 1Tessalonicesi 1:9; Ebrei 9:14; 1Pietro 2:16).
L’apparente contrasto fra l’essere “servi di Cristo” e “servi di Dio”, è risolto da Paolo in Romani 14:8: «Chi serve Cristo in questo è gradito a Dio». Senza l’unità fra Padre e Figlio, nel Nuovo Testamento ci sarebbe un’idolatria rivolta a Gesù! Ecco perché è necessaria una dottrina trinitaria che ricomponga in unità la diversità di Padre e Figlio.

«per mezzo» di Gesù Cristo ... «per il suo nome» ... «chiamati da Gesù Cristo» (Romani 1:5-6).
Viene in mente Ebrei 1:5: «A quale degli angeli ha mai detto...?». Nel descriverne le funzioni, il ruolo e la posizione, il Nuovo Testamento non ha alcun timore di esagerare su Gesù. D’altronde Gesù stesso aveva dichiarato che un obiettivo della sua missione era che «tutti onorino il Figlio come onorano il Padre» (Giovanni 5:23). Un onore che Gesù vuole convogliare su se stesso non perché si fermi lì, ma affinché “rimbalzi” al Padre, come quando un calciatore chiede palla non per fare gol, ma per farlo fare a qualcun altro: «Padre, l’ora è venuta; glorifica tuo figlio, affinché il Figlio glorifichi te» ... «Io ti ho glorificato sulla terra» (Giovanni 17:1,4). Proprio questa “circolarità” basata sull’amore, elimina ogni atteggiamento di competizione fra il Padre e il Figlio, che amano far tutto insieme (a partire dalla creazione, che viene dal Padre, ma come al solito «per mezzo» di Gesù).

«per mezzo del quale abbiamo ricevuto grazia» (Romani 1:5).
Paolo qui accenna a quello che sarà il tema il tema centrale della sua Epistola: il perdono dei peccati per mezzo della fede in Cristo. Il rapporto fra Gesù e il peccato ha però molte sfaccettature, alcune delle quali molto rilevanti per il tema che stiamo trattando. Prima di tutto Gesù è senza peccato (Giovanni 8:46; 2Corinzi 5:21), non solo nel senso che non ha mai peccato, ma anche perché non è legato ad Adamo come un qualsiasi uomo; il legame con Adamo, infatti, ci classifica di per sé come peccatori per natura già alla nascita (Romani 5:17-18) ed il fatto che Cristo non lo sia si armonizza bene col suo essere Figlio di Dio per natura.
Si può fare un ragionamento simile anche partendo dal versetto considerato come “sintesi del Vangelo”, cioè Giovanni 3:16: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna». Il ragionamento avrebbe poco senso se il grande amore di Dio si manifestasse con la morte di qualcuno che è “altro da sé”, mentre considerare Gesù come parte della Deità dà a questo versetto un pieno senso logico.
La capacità di Gesù di cancellare i peccati veniva chiaramente percepita dagli Ebrei come un considerarsi di natura divina ed è comprensibile che alcuni se ne scandalizzassero. Per convincere di questa sua capacità invisibile, Gesù usò qualcosa di visibile, cioè la pronta guarigione del paralitico (Luca 5:20-26; 7:48:50). Quel miracolo di Gesù (come anche altri) convinse alcuni e non convinse altri; anche oggi alcuni si convincono e altri no, ma con chi non crede alla storicità dei Vangeli ha poco senso discuterne il contenuto.
Credo comunque che sia incoerente credere nella storicità dell’Antico Testamento e non credere in quella del Nuovo, perché ambedue i Testamenti sono stati scritti da Ebrei, in ambiente ebraico e riportando fatti ebraici. Ambedue, poi, si sono imposti più per l’autorevolezza intrinseca che per processi di approvazione formale, arrivando ad essere riconosciuti come Parola di Dio con un consenso comunitario pressoché unanime.

«grazia a voi e pace [shalom] da Dio nostro Padre e dal Signor Gesù Cristo» (Romani 1:7).
Noi protestanti ci scandalizziamo quando qualche cattolico dice: «Affidiamoci a Dio e alla Madonna», prendendola come una manifestazione di sfiducia verso Dio, quasi che non fosse sufficiente. Sappiamo poi che Dio è “geloso” e non sopporta che i suoi fedeli si dedichino anche parzialmente a qualcun altro (Esodo 20:5; 34:14; Deuteronomio 4:24; 6:15; Giosuè 24:19; Naum 1:2, Atti 12:22-23). L’aggiunta «e dal Signor Gesù Cristo» sarebbe perciò intollerabile, senza aver presente l’unità Padre-Figlio, cioè senza combinare la diversità delle persone con la loro unità in una stessa natura divina, cioè senza la Trinità.
Paolo usa quell’espressione come una formula introduttiva che è costante in tutte le sue lettere, tranne che in Colossesi, che però è l’epistola che più esalta Cristo (cf. 1:13-20) e nella quale Gesù è comunque nominato in ciascuno dei primi quattro versetti. Negli scritti degli altri autori del Nuovo Testamento questa formula iniziale non c’è, ma in vari modi cominciano tutti con una esaltazione di Gesù.
Anche alla fine dell’Epistola ai Romani ritroviamo l’associazione Padre-Figlio: «A Dio, unico in saggezza, per mezzo di Gesù Cristo sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Romani 16:27). La “formula di chiusura” più usata da Paolo, però, nomina solo Gesù, come per esempio in 1Tessalonicesi 5:28: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi». In quattro casi (Colossesi, 1Timoteo, Tito, Ebrei) è come se la chiusura abituale sia stata accorciata, perché terminano con «La grazia sia con voi» e poteva essere percepita come «La grazia [del Signore nostro Gesù Cristo] sia con voi» che troviamo più abitualmente.
Anche 1Pietro, 2Pietro, 1Giovanni e Apocalisse si chiudono nominando solo Gesù. L’esaltazione iniziale di Gesù insieme a Dio Padre, insomma, si conclude spesso con una esaltazione del solo Gesù, da ciò deriva che la divinità di Cristo è come una rete che permea di sé tutto il Nuovo Testamento.

«Gesù Cristo, nostro Signore» (Romani 1:4).
Gesù è indicato spesso come “Signore”, ma questa è una parola molto generica, dagli usi variabili. Indicando a volte anche Jahvè, è un’altra indicazione dell’unità Padre-Figlio. Su quella parola non va fatto dunque un discorso frettoloso e perciò le dedichiamo il prossimo paragrafo.
Roberto Carson
00lunedì 25 gennaio 2010 23:53
6. “SIGNORE”, UN NOME CONDIVISO DA GESÙ COL PADRE.

Nell’Antico Testamento il Dio unico e creatore è indicato con più di un nome. Alcuni sono nomi generici usati e usabili anche al di fuori del contesto ebraico (per esempio, Altissimo, Signore), mentre il nome più specifico del Dio che ha cura del popolo d’Israele è indubbiamente Jahvè (“Io sono”, cioè il cosiddetto Tetragramma di Esodo 6:3).
Nella traduzione Riveduta Luzzi, in uso fra gli evangelici, Jahvè era di solito tradotto con “Eterno”, mentre altri hanno scelto di tradurre “Signore”. Leggendo queste traduzioni non si può essere sicuri su quale fosse il termine originale sottostante, che a volte è utile conoscere per meglio comprendere il senso di alcune frasi.
Dal 1994, in sostituzione della Luzzi, si è diffusa la traduzione Nuova Riveduta, nella quale ogni nome di Dio ha una traduzione specifica e Jahvè è tradotto con SIGNORE o DIO, ma usando sempre e in esclusiva il maiuscolo per tutta la parola. Ho apprezzato molto questa scelta, che è una forma di rispetto per l’originale.
Qualcuno però, direi giustamente, vorrebbe che si fosse più aderenti ancora all’originale, conservando il senso e il suono di quello che in ebraico risultava essere un nome proprio. C’è chi, notoriamente, usa “Geova” e chi una delle plausibili traslitterazioni delle quattro consonanti ebraiche che compongono il Tetragramma (YHWH), fra le quali io – quando ne ho necessità – come avete visto ho scelto Jahvè.
La prima volta che il problema della traduzione del Tetragramma si è posto con eccezionale rilevanza è quando l’Antico Testamento è stato tradotto in greco dai mitici “Settanta”, circa due secoli prima di Cristo. Lì fu scelto di tradurre il Tetragramma con “Signore”, che è una traduzione opinabile, ma che comunque rispecchia uno dei nomi di Dio più presenti nell’Antico Testamento (“Adonai”). La traduzione dei Settanta era molto conosciuta al tempo degli apostoli i quali, quando hanno scritto il Nuovo Testamento in greco, potevano scegliere se usare la traduzione dei Settanta oppure approntarne una nuova e più fedele all’originale: di fatto, nelle citazioni dell’Antico Testamento riportate nel Nuovo, gli apostoli hanno seguito la versione dei Settanta.
Chi accetta l’ispirazione divina del Nuovo Testamento deve perciò accettare anche le citazioni tratte dalla Settanta e non può argomentare le sue ragioni come se fossero migliori di quelle di Dio; il quale, presumibilmente, ha ritenuto che si dovesse privilegiare la comprensibilità della sua Parola, piuttosto che una fedeltà formale che non è mai completamente possibile in una traduzione. A Pentecoste d’altronde (Atti 2) ci fu la riprova che Dio sa farsi comprendere non solo nella lingua di Abramo e di Mosè, ma anche nei vari dialetti del mondo.
Nel Nuovo Testamento, in genere “Signore” sta a indicare Gesù, ma quando è inserito in una citazione dell’Antico Testamento in genere indica Jahvè; se però quella citazione è applicata a Cristo, allora può anche indicare Cristo stesso (che è come se venisse chiamato Jahvè!).
Insomma, la situazione è inestricabile, perché il contesto non indica sempre chiaramente quale significato dare a “Signore”, ma per gli scrittori del Nuovo Testamento sembra che non fosse un problema e questo perché consideravano inestricabile la connessione fra Dio Padre e Gesù.

Proseguiamo l’argomento facendo una rapida carrellata su come è usato “Signore” nell’Epistola ai Romani.
In genere le Epistole all’inizio non usano un imprecisato “Signore”, ma quando introducono il termine lo accompagnano con la specificazione che con ciò vogliono indicare Gesù: «Gesù Cristo, nostro Signore» ... «dal Signore Gesù Cristo» (Romani 1:4,7).
Dopo Romani 1:7 il discorso si incentra su “Dio”, termine col quale si indica il Padre o la Deità nel suo complesso (cioè la Trinità). In 4:8 c’è però una citazione di Salmo 31:2 e, mentre nel Salmo c’è Jahvè, in Romani c’è «Beato l’uomo al quale il Signore non addebita il peccato».
Dalla fine del capitolo 4 l’Epistola ai Romani si incentra sull’opera di Gesù e così c’è più volte “Signore” abbinato a lui (4:24; 5:1,11; 6:23; 7:25; 8:39). Tutto procede in modo chiaro fino al cap. 9, dove ci sono due citazioni dell’Antico Testamento (vv. 28-29) riportate con “Signore” e che, nell’originale, hanno “Signore Jahvè degli eserciti” e “Jahvè”.
Dal cap. 10, invece, le cose si complicano, come nei vv. 9-13 che ora trascriviamo:
9Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato [...] 11Difatti la Scrittura dice: «chiunque crede in lui, non sarà deluso». 12Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, essendo esso lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.
“Signore di tutti” si riferisce a Gesù, essendo poco sopra definito “Signore”. Anche “Chiunque crede in lui”, stando nel mezzo, si riferisce a Gesù e lo conferma il fatto che la frase è tratta da un passo da Isaia (28:16) che Pietro applica a Cristo (1Pietro 2:6). Il “Signore di tutti” continua logicamente ad essere Gesù, “ricco verso tutti quelli che lo invocano”, perciò il nome da invocare per essere salvati è ancora quello di Gesù.
Qui però c’è una particolarità non da poco, perché l’ultima frase è tratta da Gioele 2:32, dove è scritto: «Chiunque invocherà il nome di Jahvè sarà salvato». Non è allora solo una questione di nomi, ma anche di sostanza: Paolo invita ad invocare Gesù per essere salvati, attribuendo a Gesù una capacità di ascolto e salvifica posseduta solo da Jahvè. Stefano tutto ciò lo aveva ben capito e, mentre stava morendo, «invocava Gesù e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”» (Atti 7:59).
In 10:16, 11:3, 11:34, 12:19, 14:11 e 15:11, ci sono citazioni dell’Antico Testamento nelle quali c’è “Jahvè” e che sono riportate da Paolo come al solito, cioè con “Signore”.
Da 11:36, andando un po’ fuori tema, si può ricavare un indizio dell’unità Padre-Figlio; c’è infatti scritto: «Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose», con un contesto che indica come quel “lui” si riferisca a Dio. L’indizio viene fuori se si confronta questo versetto con Colossesi 1:15-18, dove ci sono espressioni “parallele” sul Figlio: tutte le cose, infatti, sono state create «per mezzo di lui», «in vista di lui» e «sussistono in lui», «affinché in ogni cosa abbia il primato».
In 12:11 c’è un «servite il Signore» che, come al solito, dovrebbe essere applicato a Cristo, anche in considerazione del fatto che Paolo, all’inizio dell’Epistola, si è definito «servo di Cristo Gesù». In 6:22, però, scrive ai credenti che essi sono divenuti «servi di Dio» e allora sembrerebbe che ci sia un’alternativa, ma la situazione è simile a quella di chi entra in una rotatoria: da qualsiasi parte provenga, gira sempre nello stesso senso. Infatti Cristo ci porta al Padre e il Padre ci porta a Cristo, in una circolarità continua. Meglio ancora, il Padre e Gesù sono così vicini e in sintonia di volontà, che non è possibile parlare all’uno separatamente dall’altro, come quando si hanno davanti due fidanzati che si tengono stretti e non è possibile parlare all’uno separatamente dall’altro.
Nel cap. 14 c’è un intreccio dal quale si capisce... che Dio non ritiene opportuno spiegarci meglio o che noi non siamo in grado di capire oltre un certo limite o che è meglio che ci rendiamo conto che adesso possiamo capire solo «in parte» (1Corinzi 13:12). Trascrivo i versetti che contengono “Signore”, ma ormai non c’è più tanto bisogno di commentarli:
4Egli sarà tenuto in piedi, perché il Signore è potente da farlo stare in piedi [...] 6Chi ha riguardo al giorno, lo fa per il Signore; e chi mangia di tutto lo fa per il Signore, poiché ringrazia Dio; e chi non mangia di tutto fa così per il Signore, e ringrazia Dio [...] 8Perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore. 9Poiché a questo fine Cristo è morto ed è tornato in vita: per essere il Signore sia dei morti sia dei viventi. 10[...] tutti compariremo davanti al tribunale di Dio; 11infatti sta scritto: «Come è vero che vivo», dice il Signore, «ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua darà gloria a Dio» [...] 14Io so e sono persuaso nel Signore Gesù che nulla è impuro in se stesso.
Leggendo “Signore” all’inizio capisco “Gesù”, poi divento un po’ incerto, ma il v. 9 getta luce anche sul retro e identifica chiaramente “il Signore” con Cristo. Poi si nomina Dio due volte (vv. 10 e 11) e nel mezzo si fa un collegamento con l’Antico Testamento, nel quale “Signore” dovrebbe allora significare “Jahvè”, per poi applicare nuovamente “Signore” a Gesù in modo esplicito. Ripeto solo una constatazione già fatta: non si nota nessun timore di avvicinare troppo Gesù al Padre.
Gli ultimi quattro versetti nei quali “Signore” è associato a Gesù (15:6; 15:30; 16:18; 16:20) sono intercalati da altri versetti dove c’è solo “Signore” e che perciò viene spontaneo riferire a Gesù (16:2; 16:8; 16:11-12; 16:22).
La parola “Signore”, insomma, aveva a quei tempi un significato molto esteso. In uno stesso passo del Vangelo (Matteo 18:21-27), per esempio, Gesù è chiamato “signore” da Pietro e poi con “signore” viene indicato il padrone del servo spietato (nell’originale, come detto, non si usava la maiuscola a inizio parola). Anche oggi si può applicare ad un qualsiasi “signor Luigi” che partecipa ad un programma televisivo, fino a riferirsi chiaramente a Dio (specie se è con l’articolo determinativo, cioè “il Signore”). Un modo veramente appropriato, allora, per indicare Gesù, che venne giustamente considerato come pienamente umano («il falegname», Marco 6:3), ma anche «dichiarato Figlio di Dio con potenza» (Romani 1:4).

In conclusione, a Gesù viene attribuito in modo prioritario (anche se non esclusivo) uno dei nomi di Dio dell’Antico Testamento, cioè l’ebraico Adonai, che ha lo stesso significato di Signore, poi esteso dai Settanta anche come traduzione di Jahvè, in una versione dell’Antico Testamento adottata di fatto come “canonica” dagli ebrei di lingua greca, che nelle Sinagoghe erano tanto più prevalenti su quelli di lingua ebraica quanto più ci si allontanava da Gerusalemme. Dire perciò in quel contesto che Gesù era “il Signore” era proclamarne chiaramente la divinità!
Nell’Antico Testamento il nome specifico di Jahvè impediva ogni commistione con le divinità degli altri popoli; tradurlo perciò “Signore” ne fa perdere la specificità e la funzione. Perché Jahvè ha permesso questa perdita? Per me la risposta è che ora c’è un nuovo nome che svolge la stessa funzione ed è quello di Gesù. Abbiamo più sopra visto che Paolo (commento ad Atti 21:13) era pronto a morire per il nome di Gesù: un nome che, non a caso, viene accuratamente evitato negli accomodanti incontri “inter-religiosi”, nei quali si pone al centro un vago e indistinto Dio al quale ognuno può attribuire le caratteristiche che vuole.
Roberto Carson
00lunedì 1 febbraio 2010 19:22
CAP. 6
LA RIVELAZIONE DELLO SPIRITO SANTO COME “PERSONA”


Abbiamo già visto (cap. 3) come all’inizio del Vangelo lo Spirito Santo sia concepito allo stesso modo che nell’Antico Testamento ed è Luca a sottolinearne di più il ruolo, facendone vedere la forte e varia influenza sui protagonisti (Giovanni Battista e suo padre, Maria, Elisabetta e Simeone, cf. Luca 1:15,35,41,67). Quando Gesù viene battezzato, scende su di lui in forma di colomba (Luca 3:22) e Gesù inizia la sua missione pubblica «nella potenza dello Spirito» (Luca 4:14). Quest’ultima citazione è la decima dello Spirito Santo che fa Luca, che però poi pone al centro della scena Gesù e quasi non nomina più lo Spirito Santo.
Luca riporterà in primo piano lo Spirito Santo dopo la crocifissione e risurrezione di Gesù, nel suo secondo libro chiamato da alcuni “Atti dello Spirito Santo”, anziché “Atti degli apostoli”, perché è lo Spirito Santo che presiede alla nascita della Chiesa a Pentecoste (Atti 2) e opera una nuova nascita in coloro che accettano il perdono in Gesù (Giovanni 3:8; Atti 2:38; 9:17; 10:44-48). Se poi il Vangelo si radicherà a Gerusalemme, in Samaria, in Etiopia, fra i Gentili e fino a Roma, è perché è lo Spirito che dirige le operazioni (Atti 2:4,38; 4:8; 7:55; 8:17,29-40; 9:17,31; 10:19,47; 11:24; 13:2,52; 15:28; 16:6-7; 19:1-6; 20:28; 21:11; 28:25).
Rispetto all’Antico Testamento, non è che lo Spirito Santo faccia cose molto diverse e la differenza più vistosa è semmai la sistematicità e l’ampiezza della sua opera nella Chiesa e per la Chiesa. Meno vistosa, ma più rilevante, è l’opera dello Spirito nell’incarnazione di Gesù, altro esempio di collaborazione trinitaria: Gesù è infatti il Figlio incarnato di Dio Padre per opera dello Spirito Santo.
Leggendo i Vangeli e il libro degli Atti, si constata come l’uditorio ebraico non aveva bisogno di particolari spiegazioni sullo Spirito Santo, che viene considerato come già conosciuto e sul quale viene fatta semmai una rivelazione aggiuntiva.
Il passo dove appare con più evidenza che lo Spirito Santo è una “persona” è quello che racconta l’episodio di Anania e Saffira, rimproverati di «mentire» e di «tentare» lo Spirito Santo (Atti 5:3,9). Anche il fatto che lo Spirito Santo «parla» a Filippo, a Pietro e alla chiesa di Antiochia (Atti 8:29; 10:19; 13:2) spinge a considerarlo non come una forza, ma come una persona.
Insomma, nei riguardi dello Spirito Santo, si nota la solita strategia di Dio, che preferisce far parlare i fatti, prima di fare eventuali discorsi. Particolarmente indicativo, a questo riguardo, è quando Pietro annuncia il Vangelo a Cornelio che, essendo pagano, di Spirito Santo evidentemente se ne intendeva poco; Pietro, nel raccontare l’episodio, dà l’impressione che ci sia rimasto male, perché aveva «appena cominciato a parlare» quando lo Spirito Santo scese su Cornelio e sui suoi amici (Atti 11:15) e così non poté continuare il discorso programmato. La rapidità con la quale lo Spirito Santo agisce sorprende Pietro, al quale presumibilmente sarebbe sembrato opportuno far prima a Cornelio tutta una preparazione che gli facesse comprendere meglio cosa stava per accadergli, invece dovette spiegare dopo a Cornelio che cos’è lo Spirito Santo: un metodo che sembra disordinato, ma la teoria è molto più efficace quando c’è già un’esperienza.
D’altronde si sa che quando si parla di Spirito Santo in linea teorica non resta molto in chi ascolta, anche se a volte è necessario farlo. Gesù lo ha fatto con un breve discorso che lì per lì gli apostoli compresero poco, tanto che alla crocifissione finirono lo stesso per smarrirsi. Poi però quelle parole sono tornate loro in mente e ne hanno capito la grande rilevanza, perché segnano un vero spartiacque, dopo il quale si può capire con certezza che lo Spirito Santo è una persona:
Io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro consolatore, perché stia con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi [...] vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto [...] Ho ancora molte cose da dirvi; ma non sono per ora alla vostra portata; quando però sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose a venire. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutte le cose che ha il Padre, sono mie; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annuncerà. (Giovanni 14:16-17; 14:25-26; 16:12-15).

La persona di Gesù si allontanerà per un tempo dagli apostoli, ma verrà sostituita da un’altra persona, che sarà in loro e li guiderà in tutta la verità: è un’altra opera trinitaria, nella quale la “circolarità a due” – che abbiamo vista fra il Padre e Gesù – è qui “a tre” (infine, considerando la partecipazione dell’umanità, diventerà “a quattro”, ma su questo ci soffermeremo dopo).
Spesso si insiste che nel Nuovo Testamento lo Spirito Santo è dato per sempre, mentre nell’Antico Testamento questa certezza non c’era. Senza dubbio nel Nuovo Testamento ci sono novità, ma credo che un’ottica di sviluppo aiuti a comprendere meglio di quella che vede contrasti. Per esempio chiediamoci: forse lo Spirito Santo non rimase sempre con Enoc, con Noè, con Abramo, con Mosè, con Elia, con Geremia e altri? Certo, Davide chiese a Dio di non togliergli lo Spirito Santo (Salmo 51:11), che invece si era ritirato da Saul (1Samuele 16:14); bisogna però considerare che a Davide lo Spirito Santo non fu mai tolto – nonostante la gravità dei suoi peccati – e che la presenza dello Spirito Santo in Saul produsse in lui un cambiamento solo superficiale, al punto che chi lo conosceva percepiva il permanere di un contrasto fra lo Spirito Santo e il carattere di Saul (1Samuele 10:11-12); forse Dio gli diede inizialmente il suo Spirito per non avere responsabilità nei successivi fallimenti di un re che si mostrerà “incorreggibile”.
In ogni caso, c’è anche un’altra ottica che può aiutarci a comprendere le differenze presenti nel Nuovo Testamento, che spesso sono determinate dalle particolari circostanze di quel tempo. Nell’Antico Testamento (o meglio, a cominciare da Mosè) i credenti erano inseriti in un popolo nel cui mezzo c’era la presenza di Dio, il quale suscitava continuamente dei profeti che comunicavano a tutti la sua volontà, rendendo perciò meno necessaria una guida interiore su ciascuno. Gesù invece manda i suoi discepoli «come pecore in mezzo ai lupi» (Matteo 10:16) e per far fronte a questi compiti sovrumani ci equipaggia con mezzi sovrumani. Confesso che ho approfittato poco di questo equipaggiamento, ma noi credenti sappiamo che più accettiamo le difficoltà di Cristo, più sperimentiamo la sua cura.
Roberto Carson
00sabato 6 febbraio 2010 11:55
Cap. 7
TRINITÀ: CERTEZZA IN ALCUNI PASSI,
INDICAZIONI ALTROVE


1. UN’INEVITABILE SINTESI DEL NUOVO TESTAMENTO

1) Se Gesù è Figlio di Dio per natura ed è uno col Padre;
2) se lo Spirito Santo è una persona strettamente associata a Dio e che opera come e in nome di Dio;
3) se Dio è uno;
4) allora la “Tri-unità” (Trinità) di Dio, cioè che la sua unità si esprima in tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo) ne è una conseguenza inevitabile, il cui contenuto emerge dal Nuovo Testamento stesso (anche se non ci troviamo la parola “Trinità”).

Quando è finito il processo e un imputato è stato dichiarato innocente o colpevole, anche le prove dubbie sono poi viste alla luce della sentenza. Noi consideriamo a questo punto come acquisita la “sentenza” a favore della Trinità e allora ne andiamo a vedere altre tracce nella Bibbia, anche quelle che – prese isolatamente – non riteniamo che siano una prova decisiva, ma sono comunque importanti come conferma o come illustrazione o come anticipo.
Quando Gesù disse: «Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere», non lo fece perché fosse capito subito, ma perché quelle parole sarebbero state importanti in seguito (Giovanni 2:19-22). Anche il lavaggio dei piedi agli apostoli venne fatto da Gesù per essere capito in un secondo tempo (Giovanni 13:7,19). I profeti stessi, non sono stati di solito capiti meglio dopo? Basta pensare a Geremia ed Ezechiele; ma anche a Giuseppe, Mosè e Davide, che furono compresi e accettati solo nella seconda parte della loro vita. Riteniamo perciò lecito dare poi un senso nuovo, o comunque più chiaro, a ciò che prima era più incerto.
Roberto Carson
00sabato 6 febbraio 2010 11:56
2. LA TRINITÀ IN GENESI 1-2

Essendo la Trinità una dottrina così centrale, allora non stupisce che ce ne siano delle tracce all’inizio stesso della Bibbia: tracce che erano certamente ambigue prima di Cristo, ma che ora acquisiscono una loro rilevanza.
Chi si intende di ebraico mi ha spiegato che nella frase iniziale della Bibbia, dov’è scritto «Nel principio Dio creò», il verbo è al singolare («creò»), ma quel nome di Dio (tra l’altro molto usato nella Bibbia) è al plurale («Elohim»); una possibile traduzione letterale è perciò «Nel principio gli Dèi creò», che appare come un modo velato di preparare alla Trinità. Di particolare interesse è quando Elohim (plurale) è usato in accoppiata con Jahvè [singolare], com’è spesso fatto in Genesi 2, dove troviamo «Jahvè Elohim».
Se si considera che Gesù viene definito da Giovanni come la Parola di Dio e la vera luce, presente fin dal principio e mediante il quale è stato creato il mondo (Giovanni 1:1-10), allora è alla prima “parola” detta da Dio che rimanda Giovanni, quando comincia il suo Vangelo con «Nel principio era la Parola [...] in lei era la vita e la vita era la luce degli uomini». Giovanni, insomma, sembra fare il parallelo col Dio che crea la luce e la vita: «Dio disse: “sia la luce”» (Genesi 1:3).
Niente di probatorio, chiaramente, ma la Trinità si può intravedere anche nel complesso dei primi tre versetti della Bibbia: «Nel principio Dio creò i cieli e la terra [...] e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “sia la luce!” E luce fu».
Anche nel significativo momento della creazione dell’uomo si può intravedere una traccia della Trinità: «Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza [...] Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina» (Genesi 1:26-27). Qualcuno interpreta quel «facciamo» come un “pluralis maiestatis”, usato da chi è re o comunque in autorità e dice “noi”, ma intendendo se stesso al singolare. Ho letto che l’ebraico non conosce il “pluralis maiestatis”, ma la questione non è decisiva, perché qui non stiamo portando prove, ma rintracciando segnali che sono importanti anche quando risultano più o meno nascosti. Allora l’uso del plurale prima («Facciamo l’uomo a nostra immagine») e del singolare subito dopo («creò l’uomo a sua immagine») sembra proprio un’introduzione alla Trinità messa lì per i posteri. Specie se si considera che questa miscela singolare/plurale si ripeterà poco dopo: «Poi Jahvè Dio disse: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male”» (Genesi 3:22); oltre all’accoppiata “Jahvè-noi”, è significativa anche la contemporanea presenza dell’accoppiata “Jahvè-Dio [Elohim]” vista più sopra.
C’è un altro modo di vedere la Trinità nella creazione dell’uomo (Genesi 2:7): 1) Dio Padre ne è protagonista nel modellare la polvere della terra; 2) la quale riceve vita dal suo “soffio”, che è sinonimo di spirito/Spirito (cf. Giovanni 3:6-8, con l’associazione “Spirito/vento”); 3) avendosi come risultato Adamo, in qualche modo simbolo e anticipazione di Cristo (Romani 5:14); infatti Adamo è definito “immagine di Dio” come lo è definito Cristo (Genesi 1:27; 2Corinzi 4:4; Colossesi 1:15). Si sottolineano molto le differenze fra Adamo e Gesù e indubbiamente ci sono, non dobbiamo però dimenticarci delle similitudini, altrimenti neghiamo di fatto l’incarnazione di Gesù.
Roberto Carson
00sabato 6 febbraio 2010 11:57
3. TRINITÀ E FAMIGLIA APERTA

C’è però un altro aspetto che viene spesso trascurato: se l’uomo è immagine di Dio, allora dovrebbe essere anche un’immagine della Trinità. Perché se è vero che la Bibbia proibisce di farci delle immagini fisiche di Dio (Esodo 20:4), è anche vero che ci fornisce continuamente delle immagini mentali che ci aiutano a comprendere.
Non ci riferiamo però, prima di tutto, all’uomo visto nelle sue componenti di corpo, anima e spirito (1Tessalonicesi 5:23), ma alla sua complessità maschio-femmina: «Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra» (Genesi 1:27-28).
Prima di dire che l’umanità è stata creata come due persone, Dio riafferma e ripete che è sua immagine. L’unica natura umana (l’uomo), è perciò fatta di due persone (maschio e femmina). Fra Adamo ed Eva non c’era diversità di natura, perché erano ambedue esseri umani, ma ciascuno dei due non rifletteva pienamente tutta l’umanità, perché l’essere umano è l’insieme di questa miscela “maschio-femmina”: Adamo era “umanità-maschio” ed Eva “umanità-femmina”, mentre Adamo-Eva erano “umanità piena”. Se esistessero veramente i marziani ed un astronauta atterrasse su Marte, i marziani non si renderebbero pienamente conto della sua natura finché non ci porta anche la moglie.
La prima cosa che Dio dice alla coppia primordiale è di essere fecondi, cioè di non vivere il loro rapporto come chiuso in se stesso (“due cuori e una capanna”), ma di aprirsi ad accogliere dei figli. Con la nascita del primo figlio si mettono in moto tre rapporti, perché a quello marito-moglie si aggiungono marito-figlio e madre-figlio. In un’umanità decaduta le distorsioni sono all’ordine del giorno: c’è la coppia orgogliosa di essere “libera da figli” e pronta a godersi la propria vita (in un rapporto che alcuni definiscono di tipo “omosessuale” anche quando è fra sessi diversi, perché chiuso in se stesso); c’è la madre che è totalmente rapita dal figlio e che “sopporta” il marito; c’è il marito che non si rassegna alla “degenerazione” della moglie divenuta madre e sviluppa un’antipatia per il figlio, oppure cerca di consolarsi con una nuova donna pienamente disponibile (l’amante, che non a caso compare a volte insieme al primo figlio); c’è il figlio che esige tutto dai genitori, salvo poi disprezzarli come “rompiscatole”. Insomma la famiglia, di questi tempi, è un modello che riflette limitatamente la Trinità, ma è il modello che Dio ci ha dato e allora proviamo a ripartire dall’alto, per cercare di capire meglio come Dio vorrebbe la famiglia.
Essendo la Deità in tre persone, anche in questo caso si instaurano tre rapporti: Padre-Figlio, Figlio-Spirito e Padre-Spirito. Ognuno dei tre rapporti non è chiuso in se stesso, ma si apre all’amore dell’altro. Per non dilungarci, riprendiamo brevemente solo il concetto di “circolarità” già visto, riproponendo Giovanni 14:26: «Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto»; insomma, lo Spirito Santo verrà mandato dal Padre nel nome del Figlio, per far comprendere meglio ai discepoli gli insegnamenti del Figlio, che aveva come obiettivo di glorificare il Padre (Giovanni 17:4).
In una famiglia “spirituale”, cioè che riflette concretamente chi è Dio, l’amore marito-moglie non è indebolito dalla presenza di un “terzo incomodo”, cioè il figlio: anzi il figlio rende più profonda la loro unione, dandole nuove prospettive. La moglie non sfrutta il suo inimitabile rapporto col figlio per utilizzarlo contro il marito, ma educa con l’esempio il figlio ad amare un padre che li ama. Il marito non usa il suo potere per imporre se stesso (e magari vendicarsi dei torti subiti, veri o presunti che siano), ma per onorare la famiglia ed aprirgli spazi di vita. Purtroppo non è solo guardando al mondo che viene da piangere, perché l’umanità degradata del mondo entra nelle chiese con la sua degradazione ed il risalire è faticoso, anche perché spesso i credenti presenti nelle chiese risultano infiltrati dai “valori” del mondo (in fondo non si ride e non ci si bea davanti agli stessi programmi televisivi?).
Non solo ogni coppia interna alla Trinità si apre al terzo componente, ma la Trinità nell’insieme si apre all’esterno: «Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio...» (Giovanni 3:16). Anche una famiglia umana “spirituale” dovrebbe essere aperta all’esterno di sé e non chiusa in un egoistico “club di mutuo soccorso”. Ci sono famiglie che hanno già figli e ne adottano altri. Ci sono case le cui porte si aprono facilmente e dove entrano amici (ed aspiranti tali) che vengono accolti da tutta la famiglia: sono proprio queste famiglie le più efficaci nel testimoniare di Dio (o le sole efficaci?) e ringrazio Dio di avermene fatta trovare qualcuna nel momento del bisogno.
Gesù non era sposato, ma ha evangelizzato con gli stessi principi, perché predicava avendo associato a sé i dodici apostoli (Marco 3:14) ed includendo nella comunità anche le donne, non di rado portate come esempio e che, fra l’altro, lo assistevano con i loro beni (Matteo 15:28; Giovanni 4:39; Luca 7:44-50; 8:2-3; 10:42; Atti 1:14).
Gli idoli non danno ciò che promettono, così le unioni e le famiglie incentrate sull’egoismo e chiuse in se stesse non reggono. Da una degenerazione, però, si passa ad un’altra e allora si parla oggi di “coppia aperta” e di “famiglia allargata”, ma sono pessime imitazioni di quell’originale del quale si sente la nostalgia, ma che non si sa più come trovare.
Roberto Carson
00sabato 6 febbraio 2010 11:57
4. DIO ABITAVA NEL TEMPIO E CONTEMPORANEAMENTE NEI CIELI?

Un altro segno, nell’Antico Testamento, della pluralità di un Dio unico è la sua presenza “fisica” sulla Terra di un Dio che non può essere contenuto nemmeno dai cieli. Questa presenza si è verificata in modo non occasionale durante l’Esodo, quando Dio si manifestava nascosto in una nuvola durante il giorno e in una colonna di fuoco durante la notte (Esodo 13:21-22; 40:34-38). Presenza tangibile anche quando Dio prese visibilmente dimora nel tempio costruito da Salomone, il quale si rese ben conto che qualcosa gli sfuggiva: «Salomone disse “[...] Ho costruito per te un tempio maestoso, un luogo dove tu abiterai per sempre!» [...] «Ma è proprio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco, i cieli ed i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita! Tuttavia [...] siano i tuoi occhi aperti notte e giorno su questa casa, sul luogo di cui dicesti: Qui sarà il mio nome» (1Re 8:13; 8:27-29).
Chi aveva riflettuto sulla “unità misteriosa” di un Dio che era presente sulla Terra dentro un tempio e, al tempo stesso, rimaneva insediato nel suo trono celeste (Isaia 6), era preparato ad accettare un Dio presente nei cieli e, al tempo stesso, presente come incarnato sulla Terra. Parallelismo giustificato dalla identificazione che Gesù fa fra se stesso e il tempio (Giovanni 2:18-22).
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